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Le lezioni del caso Alitalia

14 Ottobre 2008
alitalia2008


Il caso Alitalia ha costituito una cartina di tornasole illuminante sia della crisi di direzione politica e sindacale del movimento operaio, sia delle ragioni del PCL in rapporto alle altre sinistre italiane, riformiste e centriste. Per questo crediamo importante un primo bilancio della vicenda.

I termini politici e sindacali dello scontro consumatosi nella crisi di Alitalia sono universalmente noti. La natura dell'accordo conclusivo li riassume fedelmente.
In estrema sintesi: Berlusconi ha puntato a incassare un nuovo successo d'immagine, quale efficiente risolutore dei problemi nazionali; ma anche a consolidare il proprio rapporto con la grande borghesia italiana, largamente presente nella CAI. Il PD di Veltroni ha puntato a "contare" nella risoluzione finale dello scontro, in parte come garante decisivo del coinvolgimento della CGIL, in parte come partito corresponsabile dell'interesse generale del grande capitale.
La cordata capitalistica della CAI ha mirato semplicemente a un vantaggioso business finanziario: grazie alla nazionalizzazione dei debiti di Alitalia/Air One e a una drastica operazione antioperaia. Banca Intesa – principale creditrice di Alitalia e Airone – ha ottenuto il meritato regalo per la sponda offerta al Cavaliere.
La burocrazia CGIL, a lungo oscillante, ha puntato infine a incassare il riconoscimento del proprio ruolo determinante al tavolo della concertazione ("senza di noi e contro di noi non potete colpire i lavoratori"), finendo con lo spiazzare l'asse Bonomi-Sacconi che lavorava alla sua emarginazione.
Tutti gli attori decisivi dell'accordo – oggi impegnati a contendersi il trofeo agli occhi della borghesia e della grande stampa – hanno recitato e concluso la propria commedia propagandistica sulla pelle dei dipendenti della compagnia. La cordata CAI ha infatti realizzato la sostanza della propria operazione: 9000 posti di lavoro sono stati distrutti; 4000 precari vengono messi su una strada; le condizioni economiche e normative dei lavoratori sopravvissuti subiscono un complessivo peggioramento su salario, orario, ferie, mobilità, diritti; il potere di contrattazione sindacale nell'azienda conosce un drastico ridimensionamento con un esplicito richiamo prefigurante alla riforma generale del contratto nazionale di lavoro. Le concessioni ottenute dalla CGIL con la riduzione del danno per il personale di terra non possono né cancellare né nascondere la natura antioperaia dell'accordo e la sconfitta subita dai lavoratori.

Questo epilogo della vicenda era inevitabile? No. Nonostante le difficoltà della situazione oggettiva (generale e specifica), era possibile un'altra dinamica di lotta e un altro esito della battaglia. Più precisamente: solo un'altra gestione della lotta poteva portare a un altro risultato. E viceversa la gestione egemone dello scontro, politica e sindacale, ha portato – quella sì – a una sconfitta inevitabile e più profonda, sia in termini materiali sia anche nella percezione soggettiva dei lavoratori, il cui morale ha subito purtroppo un autentico tracollo.


LA DINAMICA DELLA LOTTA

Ricostruiamo allora la dinamica dello scontro.

Nella prima settimana di settembre Berlusconi, la nuova CAI e Raffaele Bonanni avevano puntato a un accordo rapido e relativamente indolore, da celebrare con squillo di fanfare. Ma trovarono sulla propria strada l'imprevista reazione dei lavoratori, in particolare nell'Aeroporto di Fiumicino. Questa reazione non si è affatto limitata alla resistenza dei piloti e delle loro associazioni professionali, sicuramente segnate per tradizione da una forte logica corporativa, ma ha coinvolto, in misura diversa, tutti i settori dei lavoratori Alitalia a partire dagli assistenti di volo e dalle hostess (il cosiddetto personale navigante) sino a fasce di lavoratori di terra (call center, manutenzione, scarico...). Lavoratori segnati da condizioni salariali e di vita nient'affatto "privilegiate", ed anzi in progressivo peggioramento da almeno quindici anni, cioè dagli inizi del processo di privatizzazione (1992).

La reazione dei lavoratori presentava sicuramente dei limiti interni, sia di consistenza (un migliaio di lavoratori di Fiumicino, complessivamente), sia di composizione (debole coinvolgimento dei precari). E tuttavia: la lotta registrava, giorno dopo giorno, una crescita progressiva di combattività e un potenziale di espansione (cortei interni all'aeroporto e manifestazioni-presidio sotto Palazzo Chigi e il Ministero del Lavoro con partecipazione crescente); allargamento interprofessionale della mobilitazione; ripetuti atti di solidarietà e coinvolgimento di lavoratori delle altre compagnie (Air One e Lufthansa); rilevante impatto mediatico con parziali effetti di trascinamento in altri aeroporti (Capodichino e Linate).

La mobilitazione di Fiumicino materializzava agli occhi del governo e delle burocrazie sindacali lo spettro più generale di una possibile esplosione incontrollata di lotta capace di bloccare il traffico aereo, sconfessare le Confederazioni, rovinare l'immagine di Berlusconi. Questo spauracchio è stato il vero bastone nelle ruote della trattativa, che ha indotto la CGIL a prendere tempo, ha spinto la CAI a ritirare l'offerta, ha costretto il governo a smentire, uno dopo l'altro, i propri ultimatum giornalieri. Nei fatti la reazione dei lavoratori, per alcuni giorni, aveva riaperto una partita che tutti consideravano chiusa.
Non a caso il quotidiano della FIAT (La Stampa) e Il Riformista evocavano il 15 settembre con le stesse parole un'immagine precisa: "il rischio di una guerra a Fiumicino in stile minatori gallesi", con riferimento allo sciopero a oltranza dei minatori britannici nel 1984 contro il governo della Thatcher e la chiusura delle miniere. Era questa l'unica eventualità che il governo e la borghesia temevano davvero. Disgraziatamente, fu l'unica eventualità che tutti i soggetti sindacali coinvolti e tutti i partiti della sinistra si affrettarono a scongiurare, o più semplicemente ignorarono.


L'ASSENZA DI UNA DIREZIONE

Sul piano sindacale, il cosiddetto "fronte del no" al piano CAI, che pur si è appoggiato sulla mobilitazione dei lavoratori, non ha dato a quella mobilitazione alcuno sbocco. Invece di investire la reazione spontanea dei lavoratori in un'azione generale di sciopero, si è di fatto utilizzato presidi e cortei come sfogatoio della tensione in alternativa allo sciopero.

Le diverse associazioni degli assistenti di volo si sono appoggiate alle manifestazioni per chiedere fondamentalmente il proprio accesso alla trattativa e riconoscimento di ruolo. L'SdL categoriale, molto radicato tra i lavoratori, ha criticato i sindacati confederali per la loro gestione separata del negoziato, chiedendo «una trattativa vera», ma ha rinunciato a una propria indicazione di lotta, finendo con l'associarsi "criticamente" alla parte conclusiva della trattativa e al suo esito. La CUB Alitalia, non riconosciuta al tavolo negoziale, ha giustamente respinto il piano Berlusconi-CAI come «non trattabile», ed è stato l'unico soggetto sindacale che – in stretto rapporto col PCL – ha pubblicamente rivendicato la nazionalizzazione dell'azienda. Ma si è limitata a gestire il pacchetto di quattro ore di sciopero già da tempo programmato a livello nazionale, utile per segnalare un dissenso ma del tutto inefficace come strumento di lotta.
Complessivamente, di fronte a un attacco frontale, carico oltretutto di implicazioni generali, le direzioni dei sindacati di base non si sono assunte le responsabilità di una direzione sindacale alternativa alle burocrazie, al livello reale dello scontro. Come se il problema fosse unicamente quello di conservare il proprio spazio di sindacato, non quello di guidare la lotta. E questo in un contesto di propria presenza significativa, e a fronte di una diffusa domanda di indicazione e prospettiva da parte di tanti lavoratori.


PRESENZA E PROPOSTA DEL PCL

Il PCL è stato l'unico partito della sinistra a intervenire con la propria presenza e un proprio contributo nella lotta dei lavoratori di Fiumicino, in un rapporto di attiva collaborazione con un gruppo di lavoratori d'avanguardia. In particolare ha rappresentato l'unico soggetto che ha avanzato una proposta e prospettiva d'azione ai lavoratori all'altezza dell'attacco che è stato loro portato.

Questi sono stati gli assi del nostro posizionamento:

- La difesa dell'insieme dei lavoratori colpiti, a partire dai lavoratori precari, fuori da ogni logica corporativa di settore.
- La proposta di un'azione di lotta prolungata, con occupazione delle piste e blocco del traffico aereo (come fecero i lavoratori Air France nel 1994), quale unica possibile forma d'azione capace di incidere realmente sui rapporti di forza.
- La proposta di comitati unitari di sciopero, eletti dai lavoratori, e il loro progressivo coordinamento su scala nazionale, quale forma di direzione e organizzazione della lotta a oltranza, capace di rispondere all'esigenza di unità e di democrazia.
- La rivendicazione della nazionalizzazione della compagnia e del trasporto aereo, sotto controllo dei lavoratori, senza indennizzo per i grandi azionisti, con l'abolizione del debito verso le banche, quale unica soluzione progressiva della crisi Alitalia dal punto di vista dei lavoratori, dei contribuenti, degli utenti.

Non solo la nostra presenza, ma il merito della nostra proposta ha incontrato interesse e apprezzamento tra diversi lavoratori di base, sia in generale tra i lavoratori presenti alle manifestazioni sia in particolare in un gruppo di provenienza SdL. "Dovevamo dall'inizio bloccare le piste" dichiarava, significativamente, un lavoratore a La Stampa dopo la stipula dell'accordo. Era un sentimento postumo ma diffuso. Era anche, in qualche misura, il lascito e la memoria della nostra proposta. Naturalmente il PCL non poteva esercitare dall'esterno una direzione alternativa della lotta. Poteva solo innescare una riflessione e suscitare un'attenzione attorno alla propria impostazione. Questo obiettivo, per quanto parziale, è stato raggiunto. Nel nostro piccolo e, nonostante la sconfitta finale, siamo apparsi come l'unico partito che si è posto il problema non solo di una solidarietà attiva con la lotta dei lavoratori Alitalia, ma del futuro concreto di quella lotta. Grazie anche a questo, abbiamo avuto un riconoscimento diffuso e abbiamo realizzato contatti e rapporti utili per il nostro progetto di costruzione e radicamento.


RESPONSABILITÀ E LATITANZA DELLE SINISTRE

Sta di fatto che nessuna altra forza politica della sinistra ha sentito il bisogno di una presenza nella lotta dei lavoratori Alitalia e di un'indicazione di sbocco di quella lotta.

Il PdCI si è limitato ad affiggere un manifesto cittadino di sostegno alla giunta Marrazzo per la sua richiesta... di ingresso nella CAI.

Il PRC della "svolta a sinistra" non solo è risultato totalmente assente dalla lotta, lasciando allo sbando i propri iscritti nella compagnia, ma ha lodato la rinuncia al blocco del traffico aereo da parte dei sindacati come prova di "ragionevolezza" («non bisogna dare pretesti a Berlusconi» ha dichiarato Ferrero al Manifesto) e ha persino contestato la parola d'ordine della nazionalizzazione come "ideologica" scontrandosi su questo con CUB Alitalia (non ha nulla da dire su questo Claudio Bellotti, nuovo responsabile del lavoro operaio del PRC?).

Lo stesso vuoto di indicazione e presenza ha contraddistinto le componenti della sinistra centrista-movimentista. È curioso, ma molto significativo: tutti i falsi critici del nostro cosiddetto "politicismo" nel nome del primato del movimento non hanno avuto niente da dire (e da fare) al movimento di lotta dei lavoratori Alitalia. Né Sinistra Critica né i dirigenti COBAS né la Rete dei Comunisti. Tutti i soggetti che hanno assurdamente contrapposto lo sciopero sindacale del 17 ottobre alla manifestazione politica dell'11 ottobre – nel nome del rifiuto della "rappresentazione" del conflitto – hanno disertato clamorosamente il conflitto reale dei lavoratori Alitalia. Evidentemente per Bernocchi, Cannavò, Cararo appare più importante cercare di sovrapporre un proprio marchio politico sullo sciopero sindacale del 17 e polemizzare col PCL (in vista magari di futuri cartelli elettorali) piuttosto che assumersi una responsabilità politica sul terreno reale della lotta di classe.


TRE LEZIONI

In conclusione, tre sono le lezioni di bilancio più generale della "piccola" vicenda Alitalia.

Il movimento operaio non regge alla attuale radicalità dell'offensiva avversaria senza contrapporre un'azione di lotta altrettanto radicale. Ciò che vale sul terreno generale vale all'interno di ogni specifico terreno di scontro (fabbriche, scuola, università, ferrovie). Senza un nuovo livello di forme di lotta e di obiettivi, che superi i limiti della vecchia tradizione riformista e tradeunionista, non si incide sui rapporti di forza, non si traccia una linea di resistenza, non si conseguono risultati.
La questione della ricostruzione della forza va posta al centro della riflessione dell'avanguardia, in ogni movimento, in ogni lotta.
La battaglia per una svolta programmatica e d'azione del movimento operaio è inseparabile dalla battaglia per un'altra direzione politica e sindacale. Nessuna disponibilità di lotta, per quanto generosa, nessuna potenzialità di mobilitazione, per quanto radicale, possono conoscere uno sbocco adeguato e strappare risultati senza una direzione coerente della lotta; una direzione che si assuma la responsabilità di unirla, organizzarla, orientarla in ogni passaggio decisivo, elevandola al nuovo livello dello scontro. In ogni sindacato, in ogni movimento, la questione della direzione delle lotte sul terreno della loro autorganizzazione va posta come centrale, a partire oggi dallo scontro cruciale sulla scuola.

Il PCL è l'unico partito che si pone questo compito di lavoro. Perché è l'unico partito che basa tutta la propria politica sull'interesse generale del movimento operaio e su una prospettiva rivoluzionaria, non sull'autoconservazione, reale o presunta, di un proprio spazio organizzativo o d'immagine. Le lotte d'autunno dovranno essere un laboratorio prezioso per il PCL, per accumulare una nuova esperienza di massa, di elaborazione politica, di radicamento sociale. Sempre nei limiti delle nostre possibilità, ma con la massima determinazione soggettiva, a partire dalla comprensione dell'unicità del nostro ruolo.

Partito Comunista dei Lavoratori - Esecutivo Nazionale

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