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Dare prospettiva a un movimento nuovo

9 Dicembre 2025

Tra il 22 settembre e il 4 ottobre la straordinaria mobilitazione per la Palestina ha scosso lo scenario italiano. Come darle continuità e prospettiva?

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Editoriale del nuovo numero di Unità di Classe.


Tra il 22 settembre e il 4 ottobre la straordinaria mobilitazione per la Palestina ha scosso lo scenario italiano. Come darle continuità e prospettiva? È questo l'interrogativo che si pongono decine di migliaia di attivisti.

Il salto della mobilitazione è stato impressionante. Nei due anni precedenti, il movimento pro Palestina aveva conosciuto una relativa continuità, sicuramente importante ma confinata nell'avanguardia. Tra il 22 settembre e il 4 ottobre quel movimento ha assunto una inedita dimensione di massa.

La Global Sumud Flotilla ha fatto da innesco. Il sentimento di odio contro il genocidio di un popolo, già cumulatosi nel tempo, si è riversato nelle piazze, coinvolgendo centinaia di migliaia di giovani in un progressivo crescendo. Lo sciopero dei sindacati di base del 22 settembre ha aperto il varco. Il tentativo iniziale dell'apparato CGIL di mettersi di traverso è stato travolto dalla pressione di massa. Lo sciopero generale del 3 ottobre – per la prima volta finalmente unitario – è stato imposto su entrambi i lati da una spinta che non era più possibile né ignorare né recintare.

Il suo successo è stato indiscutibile. Il metro di misura del successo non è dato dal numero degli scioperanti – ragguardevole ma molto differenziato – quanto dalla imponenza eccezionale delle manifestazioni e dal consenso popolare che le ha accompagnate, dai balconi e in ogni angolo di strada.

La gigantesca manifestazione di Roma del 4 ottobre ha raccolto il sommovimento che l'ha preceduta. Insomma, per la prima volta in tre anni, il governo Meloni si è confrontato con un movimento di massa reale.
È vero, il sismografo dei sondaggi elettorali non ha registrato il movimento. Il blocco sociale reazionario su cui il governo si appoggia ancora tiene. Ma quel movimento ha aperto una frontiera nuova. L'ha aperta non dall'alto ma dal basso. Non dal versante delle alchimie liberali del centrosinistra, ma dal versante della piazza, della strada, dello sciopero.

Ma proprio il successo della mobilitazione di ottobre ha posto il tema cruciale della sua prospettiva. E qui le cose si complicano.
Non tanto per l'effetto diversivo del cosiddetto “piano di pace” di Trump sulla percezione pubblica. Quanto per l'assenza di indicazioni chiare da parte delle principali direzioni del movimento. Tutte formalmente riveriscono il movimento, tutte richiamano a parole la sua necessaria continuità. Ma tutte rimuovono, con diversi livelli di responsabilità, gli interrogativi centrali che quel movimento pone. Per quali obiettivi e rivendicazioni chiamare la continuità della mobilitazione, e contro cosa? Come saldare la mobilitazione pro Palestina con le ragioni sociali più ampie della classe lavoratrice? E innanzitutto: tutelare o gettare al macero il patrimonio del fronte unico dello sciopero generale del 3 ottobre?

La denuncia del piano Trump come piano imperialista è il primo elemento di chiarezza. Il governo Meloni e l'opposizione borghese liberale l'hanno presentato come possibile occasione di “pace”. E c'è stato persino chi dal versante del movimento l'ha salutato come proprio successo. Questa rappresentazione, totalmente falsa, minaccia la continuità della mobilitazione, e va rigettata.

Il piano Trump calpesta ogni diritto del popolo palestinese: punta a un protettorato coloniale a Gaza, vuole il disarmo della resistenza, lascia la Cisgiordania al terrore dei coloni, allarga gli accordi di Abramo a tutela di uno Stato sionista genocida e impunito. La contrapposizione al piano Trump è dunque il primo banco di prova. La rottura di ogni relazione con lo Stato sionista è la rivendicazione centrale su cui lavorare, nelle scuole, nelle università, e innanzitutto nella classe lavoratrice. Per il blocco a oltranza di ogni traffico con Israele, in ogni porto italiano: “blocchiamo tutto” o significa (innanzitutto) questo o non significa niente.

Ma il movimento pro Palestina non regge alla lunga sul proprio stesso terreno senza trascrescere in una mobilitazione sociale più ampia. Questo allargamento è necessario e possibile.

Le centinaia di migliaia di giovani che si sono riversati nelle strade non l'hanno fatto solamente per la Palestina. La Palestina è ai loro occhi l'ingiustizia del mondo, che è anche l'ingiustizia della propria condizione, della precarietà di lavoro e di vita. L'opposizione alla legge finanziaria del governo, tutta costruita sulla spesa in armi, è un'occasione preziosa per allargare il fronte. Ma è efficace solo se si salda ad una piattaforma di rivendicazioni unificanti per l'intera classe lavoratrice: per forti aumenti salariali, la cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro, una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco.

È l'idea di una vertenza generale dell'intero mondo del lavoro, dei precari, dei disoccupati, accompagnata da una svolta di lotta radicale, unitaria e di massa, che la sorregga. È l'idea di una sollevazione generale contro le classi dirigenti del paese, per un'alternativa di società. L'unica via per disgregare il blocco sociale della reazione.

Ma i gruppi dirigenti del movimento operaio guardano altrove. Lo stesso patrimonio straordinario di fronte unico del grande sciopero del 3 ottobre è stato rapidamente dilapidato.

La burocrazia della CGIL ha ripreso in mano il proprio calendario rituale d'apparato, convocando lo sciopero generale il 12 dicembre. Uno sciopero a babbo morto rispetto ai tempi della finanziaria. Ma soprattutto un clamoroso rifiuto della domanda di convergenza unitaria col sindacalismo di base sul 28 novembre, avanzata da un appello di centinaia di delegati e RSU appartenenti a CGIL, Cobas, CUB, e dai compagni della GKN.

Inutile dire che Alleanza Verdi Sinistra e Rifondazione Comunista hanno coperto la scelta di Landini, come sempre. La collocazione interna al centrosinistra (AVS), o la speranza di ritornarvi (Rifondazione Comunista), suggerisce a entrambi prudenza e silenzio.

Quanto a USB, che ha avuto un ruolo importante nel movimento di settembre, è anch'essa tornata sul proprio spartito di sempre. Autocentrato. Il 3 ottobre USB era stata costretta all'inedita convergenza con la CGIL dalla pressione di massa. La scelta di Landini di convocare un proprio sciopero a dicembre è stata quindi la “liberazione” da ogni impaccio di rapporti unitari con la CGIL. Non a caso Potere al Popolo, guida politica di USB, ha attivato un proprio percorso separato, di proprie assemblee autoconvocate, per la sua presentazione elettorale alle politiche del 2027. Scelta legittima, naturalmente, ma del tutto estranea in quanto tale alle esigenze di rilancio del movimento di massa e del fronte unico d'azione sul terreno della lotta.

Contro queste impostazioni e queste logiche il PCL continuerà a battersi a favore della più ampia unità del movimento e insieme della sua massima radicalità e coerenza.
Fronte unico e programma anticapitalista sono e saranno più che mai il combinato inseparabile della nostra linea di intervento. In tutti gli scioperi, per la loro convergenza, per una piattaforma generale unificante. Contro lo Stato sionista e i piani coloniali. Per la costruzione di un'altra direzione del movimento operaio e dei movimenti di massa. Per una prospettiva rivoluzionaria quale unica vera alternativa.

Marco Ferrando

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