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Da Rio 1992 a Belém 2025
Trentatré anni dopo, la COP è finita e così pure il progressismo climatico
3 Dicembre 2025
Come Revolução Socialista – sezione brasiliana della Lega Internazionale Socialista (LIS) – e come MST/Red Ecosocialista – sezione argentina della LIS – abbiamo partecipato a Belém (Stato brasiliano del Parà) al Controvertice dei Popoli e alla COP30. Durante due settimane abbiamo discusso con comunità indigene, organizzazioni ambientaliste e movimenti sociali, organizzando una serie di conferenze con attivisti e professionisti.
Questo articolo sintetizza le conclusioni principali prodotte da questo nostro intervento, tracciando un ponte tra Rio 1992 e Belém 2025: trentatré anni che rivelano l’esaurimento della diplomazia climatica e del progressismo che prometteva di gestirla. Oggi, davanti al collasso climatico, è necessario costruire un’alternativa capace di affrontare il futuro.
Quando nel 1992 il Brasile fu la sede del Summit della Terra, il mondo attraversava il riordinamento immediatamente successivo alla caduta del blocco sovietico. Gli Stati Uniti emergevano come potenza egemonica mondiale indiscussa, il capitalismo si imponeva senza rivali e avanzava l’offensiva neoliberista globale: privatizzazioni, liberalizzazioni senza restrizioni, indebitamento permanente, deindustrializzazione e, in America Latina, un ritorno brutale all'industria del settore primario, che consolidò l’estrattivismo come modello.
In questo contesto nacque la Convenzione Quadro delle Nazione Unite sui Cambiamenti Climatici e l’Agenda 21: un’architettura fatta per amministrare i costi ambientali del capitalismo senza mettere in discussione la logica dell’accumulazione. Rio 1992 fu un intento iniziale per addomesticare politicamente una preoccupazione sociale crescente senza alterare il metabolismo distruttivo del capitale.
Ma verso la fine degli anni ’90 questo ordine iniziò a frantumarsi. Le insorgenze popolari in Venezuela, Bolivia, Ecuador e la ribellione argentina del 2001, assieme al movimento altermondialista che irruppe a Seattle, Genova e Porto Alegre, misero in scena una contestazione globale al neoliberismo. Le COP di Kyoto, Copenaghen e Cancún confermarono il fallimento del sistema nell'arrestare la crisi ecologica che esso stesso approfondiva.
Nel 2015 l’Accordo di Parigi e l’Agenda 2030 cercarono di recuperare legittimità. Ma questo accordo fu – e continua ad esserlo – facoltativo, debole e funzionale al capitale. Sotto la bandiera della “transizione verde” si sviluppò un nuovo estrattivismo basato sul litio, il rame, le terre rare, l’idrogeno, il mercato del carbonio e la finanziarizzazione della natura.
Parallelamente emerse un fatto politico inedito: la ribellione climatica giovanile, simbolizzata da Greta Thunberg e il movimento Fridays For Future, come pure la costituzione della nostra corrente ambientalista, la Red Ecosocialista. Ciò che era stato altermondialismo negli anni 2000 ora si convertiva in una mobilitazione globale intergenerazionale che tornò a rimettere in discussione la legittimità delle COP, e che ha messo al centro l’idea che il problema è sistemico.
2025, UN MONDO PEGGIORE CHE NEL 1992
Trentatré anni dopo il primo Summit in Brasile, la COP30 ritorna nello stesso paese, ma in uno scenario radicalmente mutato.
- Crisi climatica accelerata: temperature record, estinzioni di massa, collasso di ecosistemi.
- Ascesa globale dell’ultradestra negazionista, che combina odio, militarismo e difesa del capitale fossile.
- Declino relativo dell’imperialismo yankee, ascesa della Cina e frammentazione del multilateralismo.
- Guerra e disordine internazionale: Ucraina, Gaza, tensioni nell’Indo-Pacifico, rischio reale di conflitto tra potenze.
- Nuovo estrattivismo verde: litio, idrogeno, terre rare, espansione territoriale del capitale nel nome della transizione energetica.
- Riattivazione delle lotte sociali: dei giovani, indigeniste, femministe, antirazziste, operaie.
Il mondo che accoglie la COP30 è, quindi, più instabile, più violento e più ineguale di quello del 1992. Oggi non siamo solo di fronte ad una crisi ambientale: si tratta di una crisi multiforme di civiltà.
COP30: NESSUN PERCORSO ANTIFOSSILE, NESSUN FINANZIAMENTO, NESSUN VERO ACCORDO
Belém 2025 ha confermato l’evidenza: la COP è incapace di generare accordi reali. Non c’è stata alcuna tabella di marcia per uscire dai fossili, non ci sono stati avanzamenti nel finanziamento per misure climatiche ed è stato rimosso ogni riferimento al “phase-out” [eliminazione graduale]. Tra incendi, evacuazioni e un’infrastruttura del vertice che ha avuto essa stessa un impatto ambientale, la COP ha esibito il simbolo del suo fallimento.
La COP non fallisce per “mancanza di volontà politica”. Fallisce perché il capitalismo globale oggi non può concedere nulla di strutturale. Ogni potenza è in competizione per i minerali, l’energia, le rotte marittime, per territori strategici: è un mondo di disordine permanente, senza spazio per patti comuni.
LULA, IL PT E IL LIMITE DEL PROGRESSISMO. QUANDO IL DISCORSO VERDE OCCULTA LA CONTINUITÀ DELL'ESTRATTIVISMO
Nella narrazione ufficiale, Lula e il PT rappresentano il polo opposto all’ultradestra. Democrazia contro autoritarismo, ambientalismo contro negazionismo, inclusione contro devastazione. Ma quando si osserva la mappa reale delle politiche, degli investimenti e delle decisioni strategiche, queste differenze si restringono.
E quello che traspare – con nitidezza imbarazzante – è una profonda continuità con la logica dell’appropriazione del territorio, dell’espansione estrattiva e della subordinazione agli interessi di impresa.
Il progressismo brasiliano si presenta come il soggetto civilizzatore che blocca il neofascismo. Ma sul piano della politica del territorio, nella politica di bilancio, nel modello di paese, entrambi condividono un quadro comune: l’Amazzonia come zona di sacrificio, i lavoratori e i popoli indigeni come variabile dipendente dell’austerità dei conti pubblici e il clima come marketing geopolitico. Gli uni lo fanno urlando, gli altri con un discorso amichevole. Ma il risultato è minacciosamente analogo.
L’ILLUSIONE VERDE DEL LULISMO
Lula è arrivato alla COP30 proclamando una “leadership climatica”, ma il cuore della sua politica ambientale batte il ritmo del classico estrattivismo.
• IIRSA (1): una gigantesca infrastruttura di superstrade, vie fluviali, dighe e installazioni portuali al servizio dell’agroindustria, dell’industria mineraria e del commercio con la Cina.
• Privatizzazione del Tapajós: trasformazione di un fiume tra i più ricchi di biodiversità in un corridoio logistico per Cargill e Bunge (2).
• Militarizzazione di Belém e dell’Amazzonia: occupazione poliziesca per neutralizzare le proteste mentre la comunità Munduruku ha fatto irruzione nella plenaria ufficiale.
• Progetto TFFF (3): finanziarizzazione della foresta per mezzo di titoli obbligazionari e del mercato regolato del carbonio. Una “Amazzonia S.p.A.” amministrata da tecnocrati e fondazioni.
• Margine Equatoriale e petrolio (4): Lula ne difende l’espansione dello sfruttamento per “finanziare la transizione”, mentre il Brasile entra come osservatore nell’OPEC e destina migliaia di milioni di sussidi per il fossile.
• Agroindustria: Lula ha stanziato 4,17 miliardi di reais (674 mln di euro circa, ndt) del Piano Safra 2024-2025 (5) destinandone la maggior parte a produttori grandi e medi tramite detassazioni, mentre l’agricoltura a gestione familiare ne ha ricevuti molti di meno attraverso il Pronaf (6). Quantunque l’agroindustria sia presentata come motore dell’economia brasiliana, il forte apporto statale che riceve contrasta con il fatale impatto sociale e ambientale che essa genera.
LA FORMULA A TAPPE CHE RIPETE LA VECCHIA STORIA
Il lulismo difende una tesi che in America Latina conosciamo bene:
Prima estrarre, poi distribuire.
Prima petrolio, poi transizione energetica.
Prima agroindustria, poi giustizia sociale.
In questa versione del progressismo, l’estrattivismo sarebbe il “male necessario” per finanziare il “bene”. Il problema è che la prima fase non termina mai. L’esperienza storica parla chiaro: ogni metro di suolo che si concede all’estrattivismo consolida interessi, distrugge territori e genera dipendenza strutturale. La presunta transizione è rimandata sempre a domani.
IL PUNTO CIECO DEL PROGRESSISMO: LA SUA DIPENDENZA DAL CAPITALISMO VERDE
La differenza tra Lula e l’ultradestra è evidente sul piano democratico. Ma in materia climatica, territoriale e produttiva, vi sono profondi punti di condivisione.
La destra nega il cambiamento climatico per legittimare il saccheggio. Il progressismo riconosce il cambiamento climatico ma lo utilizza per modernizzare lo stesso modello estrattivo di sempre.
Il lulismo non è Bolsonaro, ma nemmeno l’alternativa a Bolsonaro. Questo è il suo limite storico: non può rompere con l’estrattivismo perché questo è l’asse del suo progetto economico. E non rompendo con l’estrattivismo, dà modo all’ultradestra di ritornare in campo con maggior forza, alimentata dalla frustrazione e dalla distruzione ambientale che il progressismo non vuole invertire.
DALL'ALTERMONDIALISMO AL CONTROVERTICE 2025. HARDT, NEGRI E IL LIMITE STORICO DEL “MULTIMONDISMO”
Il Controvertice di Belém non parte da zero: esso è l’eredità del ciclo altermondialista che esplose a fine degli anni ’90 contro la globalizzazione neoliberista. Quelle lotte – Seattle, Genova, Porto Alegre – furono influenzate dalla lettura che Michael Hardt e Toni Negri diedero del capitalismo globale. Nella trilogia Impero-Moltitudine-Comune, essi sostennero che il mondo non era più dominato da imperialismi nazionali ma da un Impero policentrico, attraversato da reti globali di potere.
Se il capitale era decentralizzato, dicevano, anche la resistenza doveva esserlo: una moltitudine orizzontale, senza gerarchia né direzione, connessa da reti, capace di debordare dagli Stati.
Questa idea esprimeva la forza reale dei movimenti globali degli anni ’90 e 2000, ma i suoi limiti si sono palesati chiaramente a Belém:
1. Lo Stato non è scomparso: si è rafforzato.
Invece di indebolirsi, gli Stati hanno rafforzato le loro frontiere, gli eserciti, la vigilanza e il controllo territoriale. L’”Impero” non ha sostituito gli Stati: questi sono diventati più autoritari.
2. La mancanza di una strategia di potere ha lasciato uno vuoto politico.
La moltitudine poteva resistere, bloccare un vertice o un forum, ma era incapace di rispondere alla domanda decisiva: “chi governa?” Questo vuoto politico è stato occupato da destre nazionaliste e governi progressisti decisi a gestire l’estrattivismo.
3. Internazionalismo morale ma non politico.
L’altermondialismo è stato globale nelle sue proteste, ma non nella sua strategia. Le lotte si sono messe in rete, però la direzione politica è rimasta frammentata.
4. La pluralità senza orizzonte comune ha indebolito l’azione.
La diversità è stata una potenza culturale enorme, ma senza un progetto unificato non ha potuto trasformarsi in una forza capace di affrontare contemporaneamente imprese, potenze e Stati estrattivisti.
IL CONTROVERTICE OGGI: POTENTE MA LIMITATO
Il Vertice dei Popoli a Belém recupera questa tradizione: territorialità, diversità, movimenti indigenisti, femministi, giovanili. Denuncia con forza il capitalismo fossile, il razzismo ambientale e l’imperialismo nordamericano. Ma la sua radicalità convive con due silenzi strategici:
1. Non nomina la Cina, attore centrale dell’estrattivismo amazzonico e del nuovo imperialismo verde.
2. Non mette in discussione il governo Lula, principale responsabile dell’implementazione dell’IIRSA, del Tapajós, del Margine Equatoriale e del TFFF.
La critica resta così concentrata sul Nord Globale, mentre il Sud che riproduce il saccheggio resta fuori obiettivo. Ciò non è casuale: il Controvertice convive con le ONG finanziate dallo Stato e con settori vicini al lulismo, che vedono i BRICS come “alternativa”.
Si ripete quindi uno schema storico: proprio come l’altermondialismo ha evitato di criticare gli Stati perché li considerava secondari, il Controvertice evita di criticare i governi progressisti a causa dell'allineamento politico a questi governi.
In entrambi i casi la critica diventa incompleta, i responsabili diventano evanescenti, e l’internazionalismo autonomo resta debole.
UNA DIFFERENZA CHIAVE CON GLI ANNI 2000: OGGI NON C'È TEMPO PER L'AMBIGUITÀ
A inizio secolo, l’altermondialismo poteva sperimentare nuove forme di organizzazione. Oggi no. Siamo di fronte ad un collasso climatico accelerato con punti di non ritorno.
L’ambiguità strategica non è un difetto teorico, è un limite politico che impedisce di affrontare:
• gli imperialismi tradizionali
• i nuovi imperialismi emergenti
• i governi progressisti che riproducono l’estrattivismo nel nome della transizione energetica
Trent’anni dopo, la lezione è chiara: non basta denunciare il capitalismo globale senza confrontarsi con chi lo gestisce in ogni territorio. Non basta incolpare il Nord se anche il Sud saccheggia. Non basta la diversità se non c’è strategia.
Il Controvertice denuncia, resiste, mette in evidenza. Ma ancora non offre una traiettoria per contendere il potere di fronte al disordine del capitalismo fossile.
LA COP NON SERVE; IL PROGRESSISMO NON BASTA; IL CONTROVERTICE NON HA STRATEGIA. È NECESSARIO COSTRUIRE ALTRO
Belém 2025 lascia qualcosa di ovvio: il conflitto per il futuro è alla base di tutto. La linea divisoria di campo mai è mai stata tanto nitida.
Da un lato, le multinazionali del fossile, i capitali estrattivi, gli imperialismi e i governi subalterni alle lobby imprenditoriali. Una borghesia minoritaria, potente, disposta a sacrificare vite e territori per i suoi privilegi.
Dall’altro lato, l’immensa maggioranza della società: lavoratori, giovani, popoli indigeni, donne, migranti, comunità impoverite.
Non è uno scontro “culturale”: è un antagonismo materiale tra chi sostiene la vita e chi la saccheggia.
La borghesia internazionale ha già dimostrato che non modificherà atteggiamento per via di pressioni sociali, né per evidenze scientifiche, né di fronte ad un collasso planetario. Non è “mancanza di volontà politica”: i suoi interessi sono incompatibili con una vita degna sulla Terra. Per questo non esiste agenda comune con essa.
Le ribellioni ci sono, e aumenteranno: esplosioni sociali, scioperi climatici, mobilitazioni territoriali. Ma senza organizzazione questa energia si disperde.
La storia parla chiaro: le rivoluzioni non si proclamano, si organizzano. Esse richiedono direzione, strategia, e un soggetto capace di trasformare le basi materiali della società.
Questo soggetto è la classe lavoratrice, non per la sua identità, ma per la sua posizione nell'organismo sociale. Per la sua posizione nella produzione e riproduzione della vita, essa è l’unica forza, in alleanza con i popoli indigeni e i settori oppressi, capace di riorganizzare alla radice il sistema energetico, alimentare, urbano e industriale. Per questo le classi dominanti cercano di dividerla con identità parziali, discorsi frammentati o false transizioni “verdi” che lasciano intatto il potere economico.
Il compito strategico in questa epoca è fornire un orizzonte, un programma, all’energia sociale che emerge dal basso. Qui si colloca la Lega Internazionale Socialista (LIS): un progetto internazionalista che cerca di articolare le lotte disperse e di raggruppare l’avanguardia, di trasformare l’indignazione in forza politica, di convertire la resistenza in alternativa politica e dare alla classe lavoratrice quello che ancora gli manca: organizzazione, strategia, prospettiva di potere.
Rio 1992 ha aperto il ciclo delle illusioni neoliberiste. Belém 2025 segna il loro collasso. Ciò che verrà – e che dobbiamo costruire – è un’organizzazione politica capace di azionare il freno di emergenza prima che il capitalismo fossile ci trascini nella barbarie.
Note (del traduttore):
(1) IIRA: Iniziativa per la Integrazione della Infrastruttura Regionale Sudamericana. Programma nato nel 1998 per opera dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA). Implementato dalla Banca Interamericana di Sviluppo (BID) fu avviato nel 2000 per incentivare sviluppo e integrazione dell’infrastruttura industriale e commerciale di libero scambio fra paesi del Sud America, in linea con l’ALCA. Nonostante l’abbandono di questa i progetti dell’IIRA, ad alto impatto ambientale, raddoppiarono proprio per impulso del primo governo Lula.
(2) Cargill e Bunge, multinazionali statunitensi dell’agroindustria.
(3) TFFF: Tropical Forest Forever Facility. Fondo proposto dal governo Lula, formalmente per finanziare la conservazione delle foreste tropicali. Utilizza investimenti (125 mld di dollari iniziali da investitori istituzionali ed enti benefici) che mettono a valore i servizi ecosistemici. È stato lanciato ufficialmente durante la COP30. È una tipica soluzione di biocapitalismo.
(4) Margine Equatoriale. Fascia costiera del Brasile settentrionale, che si estende dallo Stato di Amapá fino a quello del Rio Grande do Norte e comprende la foce del Rio delle Amazzoni. Zona ricca di giacimenti petroliferi e di gas. L’agenzia federale per l’ambiente, Ibama, sotto pressione del governo Lula, ha autorizzato le perforazioni esplorative di Petrobras.
(5) Piano Raccolto (“safra” in portoghese). Il principale programma di credito rurale in Brasile.
(6) ProNAF. Programma Nazionale di Potenziamento dell’Agricoltura Familiare.








