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Ex Ilva, il gigante abbandonato che solo i lavoratori possono salvare
24 Novembre 2025
Il 21 novembre Moody’s, società statunitense tra le principali nella valutazione della qualità e dell'indice di affidabilità dei titoli emessi da un’impresa o da uno Stato e, di conseguenza, della sua solidità finanziaria, ha deciso di alzare il rating del debito pubblico italiano, portandolo a Baa2 (da Baa3) con outlook stabile.
Il primo ministro Giorgia Meloni ha subito dichiarato: «Accogliamo con grande soddisfazione l'upgrade di Moody's sull'Italia, un risultato importante che non avveniva da 23 anni». E ha poi aggiunto: «Questo riconoscimento premia il lavoro serio e responsabile del nostro governo, frutto di scelte coerenti sui conti e di riforme strutturali, ma anche il lavoro e l'impegno delle nostre imprese e dei nostri lavoratori. Desidero ringraziare in particolare il ministro Giorgetti per lo sforzo costante e scrupoloso nella gestione dei conti. La promozione di Moody's è una conferma della fiducia dei mercati non solo nel governo, ma nell'Italia tutta».
IL GOVERNO MELONI E I SUOI FAVORI AL PADRONATO
Certo il governo ha ricevuto un riconoscimento, quello delle grandi società capitalistiche e finanziarie, di tutta la classe borghese e padronale nostrana ed internazionale, non certo quello della classe lavoratrice. Un riconoscimento da chi in questi anni di governo ha visto “gonfiare” le proprie tasche e fruttare i propri investimenti sulle pelle dei lavoratori, che viceversa hanno visto peggiorare la loro situazione con la perdita progressiva di potere di acquisto dei salari (ci sono contratti come quello dei metalmeccanici rinnovato dopo quasi due anni e 40 ore di sciopero), la contrazione dei diritti (vedi la recente legge sulla sicurezza), l’innalzamento nei fatti dei requisiti per accedere alla pensione e lo smantellamento dello stato sociale e dei servizi, primi fra tutti sanità ed istruzione.
LA FINANZIARIA 2026, L'ENNESIMO ATTACCO AI SALARIATI
Quella del governo è dunque solo una narrazione per gli sprovveduti, come conferma la recente manovra finanziaria, in fase di approvazione: una finanziaria che impoverisce ancora di più il lavoro, che si pavoneggia dicendo di aver tagliato le tasse, quando la maggior parte dei lavoratori non vedrà nessun aumento in busta paga, se non una vergognosa elemosina. Una finanziaria che vede crescere la spesa per gli armamenti, a scapito di sanità, scuola e servizi. Un governo che sceglie di costruire un costosissimo ponte sullo stretto di Messina e che a fronte del “tesoretto” accumulato con il fiscal drag (frutto dei rinnovi contrattuali già effettuati) non ridistribuisce nulla alle masse.
Una narrazione che vuole mettere a tacere le tante situazioni di crisi aziendali, specie nel settore automotive e metalmeccanico, fingendo di occuparsene e dichiarando che i lavoratori non saranno lasciati soli.
IL BANCO DI PROVA DELLE POLITICHE DEL GOVERNO VERSO IL LAVORO: IL CASO DEGLI STABILIMENTI EX ILVA DI GENOVA E TARANTO
Fra le situazioni di crisi più dimenticate c’è quella dell’ex Ilva che proprio nell’ultimo mese si è acutizzata, mettendo ancor di più una seria ipoteca sul futuro di migliaia di lavoratori. La storica impresa siderurgica fondata agli inizi del Novecento e divenuta nel pieno del boom economico il centro del polo siderurgico italiano con il nome di Italsider, entrò in crisi a metà anni ’80 e passò, come noto, nel 1995 nelle mani della famiglia Riva, che avrebbe attuato una spregiudicata opera di sfruttamento degli impianti, senza operare nessun intervento di ammodernamento e di bonifica ambientale.
Proprio agli ’90 risalgono le prime battaglie combattute dalle comunità che risiedono nelle vicinanze degli stabilimenti ex Ilva in difesa della salute. La conseguente iniziativa della magistratura per far luce sui vari reati ambientali e i danni alla salute, costrinse lo Stato ad intervenire per impedire la chiusura del polo siderurgico.
Dopo la fallimentare gestione della cordata ArcelorMittal e Marcegaglia, che di fatto non ha mai fatto alcun investimento per bonificare e rimodernizzare gli impianti, lo Stato italiano si vede costretto ad intervenire nuovamente con capitale pubblico nella gestione dell’ex Ilva, sostituendosi alla precedente amministrazione e creando una nuova società con il nome di Acciaierie d’Italia.
E dunque eccoci arrivati ai giorni nostri: dopo alcuni tentativi per individuare un nuovo acquirente, nessuno andato in porto, l’attuale governo l’11 ottobre convoca i sindacati per comunicare loro il nuovo piano, che nei fatti è l’ammissione di essere in un vicolo cieco, anticamera della chiusura definitiva degli stabilimenti. Dopo le promesse fatte a luglio di avviare un piano industriale vero che prevedesse la costruzione di tre forni elettrici per la produzione dell’acciaio in sostituzione degli obsoleti altoforni e quindi garantisse l’effettiva decarbonizzazione del processo produttivo e il risanamento ambientale, il governo sostanzialmente ha fatto un passo indietro.
LA CASSA INTEGRAZIONE E LA RISTRUTTURAZIONE, DUE STORICHE ARMI DEL PADRONATO
Il nuovo piano presentato prevede infatti dal 15 novembre l’incremento del ricorso alla cassa integrazione, che passerà da 4.550 a circa 5.700 unità con integrazione del reddito. Nel frattempo, saranno avviate opere di manutenzione agli altoforni e dal 1° gennaio, con la fermata delle batterie di cokefazione, si arriverà a 6 mila unità in cassa integrazione. Sarà dunque avviato un nuovo piano operativo a “ciclo corto”, che comporta una rimodulazione dell’assetto produttivo del complesso aziendale. Questo significa che sarà mantenuta solo la produzione necessaria per il pagamento delle spese correnti e che quanto prodotto verrà immediatamente venduto, anziché essere inviato agli altri stabilimenti del gruppo a Genova, Novi Ligure e Racconigi, portando nei fatti migliaia di lavoratori verso la cassa integrazione e in prospettiva futura alla perdita del posto di lavoro.
Di fronte a questa situazione, FIOM, FIM e UILM hanno proclamato 24 ore di sciopero, con forti proteste e presìdi da parte dei lavoratori, che hanno anche bloccato strade ed autostrade, specie nel capoluogo ligure; intenzionati a indurre il governo a fare marcia indietro. E così, almeno in parte, è avvenuto: il Consiglio dei ministri ha infatti approvato un decreto legge che sblocca nuovi fondi per assicurare per alcuni mesi la continuità della produzione negli stabilimenti dell’ex Ilva di Taranto e, a cascata, di tutti gli altri stabilimenti d’Italia. Nel decreto legge, non ancora pubblicato, il governo autorizza Acciaierie d’Italia a utilizzare 108 milioni di euro fino a febbraio 2026 per garantire le attività produttive. Inoltre, vengono stanziati altri 20 milioni di euro per integrare fino al 75 per cento il trattamento della cassa integrazione straordinaria, sostenuta finora da Acciaierie d’Italia.
I decreti cosiddetti “salva-Ilva” non sono una novità: i governi di varie maggioranze ne hanno emanati parecchi da quando l’azienda è stata sequestrata e poi messa in amministrazione straordinaria, per consentire all’impianto di continuare a lavorare. È questo il motivo per cui l’impianto, che il governo vorrebbe vendere tra molte difficoltà, esiste ancora. Infine, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha convocato per il 28 novembre un incontro sul futuro degli stabilimenti dell’ex Ilva nel Nord Italia (quelli di Genova, Novi Ligure e Racconigi), come richiesto dai sindacati.
SOLO I LAVORATORI POTRANNO SALVARE GLI STABILIMENTI EX ILVA
La pronta protesta dei lavoratori ha dunque scongiurato, almeno per il momento, la chiusura degli stabilimenti, ma fino a quando? Di fronte ad una situazione che definire drammatica è riduttivo, i lavoratori devono smettere di appellarsi unicamente all’intervento del governo. Le intenzioni di quest’ultimo sono chiare: vendere il prima possibile gli stabilimenti ex Ilva ad uno nuovo acquirente, che mai si sobbarcherà per intero la ristrutturazione e la bonifica degli impianti. E qualora venisse individuato, la prima delle richieste sarebbe quella di ridurre il personale per contenere i costi.
Altrove in Europa, come in Germania, Svezia e Finlandia, sono in atto processi di riconversione degli impianti produttivi per passare dalla tecnologia degli altoforni, ormai obsoleta ed inquinante, a quella dei forni elettrici, con riassorbimento dell’intera manodopera, impiegandola in quelle attività di preparazione della materia prima necessaria per i nuovi cicli produttivi o nella logistica. Il tutto avviene però in aziende a partecipazione statale e con l’impiego di grandi investimenti pubblici. In Italia questa strada è percorribile? A ben vedere le intenzioni del governo sembra di no. E poi in un’economia che sempre di più diventa economia di guerra con ingenti spese negli armamenti, le possibilità di un intervento dello Stato si riducono sempre di più.
E dunque che fare? I lavoratori hanno un’unica possibilità che è quella di mettersi in lotta permanente, con uno sciopero prolungato che sfoci nella nazionalizzazione sotto controllo operaio di tutti gli stabilimenti. Nazionalizzazione che deve garantire la piena riconversione e bonifica di tutti gli impianti e il riassorbimento completo di tutta la manodopera in forza all’azienda. La lotta deve però vedere i lavoratori di tutti gli stabilimenti uniti nello stesso intento.
Sbagliatissima la dichiarazione del delegato FIOM dell’ex Ilva di Genova, storico dirigente di Lotta Comunista, quando dice che «se Taranto affonda, noi non vogliamo affondare con loro». Un delegato sindacale non può pronunciare parole di questo tipo.
Un’organizzazione sindacale non deve limitarsi a “coltivare il proprio orticello”; deve invece sempre porsi in difesa di tutti i lavoratori, senza distinzioni geografiche o di altro tipo.
I lavoratori uniti devono quindi battersi per la costituzione di consigli di fabbrica che consentano loro di organizzarsi e individuare le forme di lotta più idonee; per uno sciopero generale e unificato a oltranza (chiedendo la solidarietà di tutti i lavoratori dell’industria e non solo) per il conseguimento della nazionalizzazione dell’impresa sotto il loro controllo; per una cassa di resistenza nazionale che consenta uno sciopero di massa che veda anche l’occupazione di tutti gli stabilimenti ex Ilva in Italia, evitando così di cadere nella linea che l’allora segretario della FIOM Landini adottò nella lotta contro la chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese, ovvero della lotta stabilimento per stabilimento. Per la creazione di un coordinamento nazionale di tutte le fabbriche in lotta contro chiusure, delocalizzazioni e licenziamenti, diretto dai lavoratori e non dalle burocrazie sindacali.
Solo agendo in questo modo e prendendo in mano direttamente le redini della lotta i lavoratori hanno la possibilità di salvaguardare il loro posto di lavoro e il loro futuro.
Ma guardando più in profondità, la loro lotta, per quanto agguerrita, rischierebbe di rimanere un fatto isolato, se non venisse inserita in un percorso più generalizzato che metta in discussione l’attuale sistema capitalista, con tutto il suo apparato di sfruttamento ed impoverimento da parte della classe padronale ai danni dell’intero proletariato, per sostituirlo con una società governata finalmente dai lavoratori, il socialismo, senza più sfruttati e sfruttatori, dove diritti e vita dignitosa siano garantiti a tutto il proletariato mondiale.








