Prima pagina
Sul movimento pro Palestina in Italia
Considerazioni dopo le grandi manifestazioni di settembre e ottobre
29 Ottobre 2025
La dinamica sviluppatasi in Italia dopo il 22 settembre e sino al 4 ottobre segna un fatto nuovo nello scenario italiano. Un salto complessivo della mobilitazione di massa che non ha punti di paragone nel passato degli ultimi due decenni.
È troppo presto per misurare i riflessi politici di questo salto, il suo impatto sulla coscienza di massa, la sua prospettiva. Troppe sono le variabili in gioco, obiettivamente imprevedibili, di ordine interno e internazionale, incluso l'esito del piano Trump-Netanyahu. Tuttavia è necessario e possibile caratterizzare la novità emersa.
Il movimento ha avuto un fattore scatenante direttamente politico: l'indignazione contro l'operazione genocida dello Stato sionista e le complicità del governo italiano. In questi due anni di guerra genocida in Palestina, la maggioranza della società italiana aveva indubbiamente maturato un senso comune filopalestinese e antisraeliano.
Ma per due anni la mobilitazione attiva di solidarietà e sostegno alla Palestina era rimasta confinata in un bacino di avanguardia, certo importante ma limitato.
Nelle ultime settimane si è prodotto un salto imponente. La missione della Global Sumud Flotilla, al di là della sua stessa natura e dei suoi limiti, ha favorito l'innesco di un'identificazione collettiva e attiva nella giusta causa della Palestina. Ha dato un volto e una bandiera riconoscibile all'indignazione. L'enorme manifestazione che a Genova ha accompagnato la partenza della missione è stata il primo segnale di questo salto di dimensione.
Le manifestazioni del 22 settembre un'ulteriore progressione su scala generale. Le manifestazioni del 3 ottobre in occasione dello sciopero generale un nuovo massiccio allargamento della mobilitazione. La manifestazione nazionale del 4 ottobre ha registrato in termini imprevedibili il processo che l'ha preceduta e la sua accelerazione progressiva. La dinamica generale è stata dunque quella di una brusca svolta. Una cumulazione prolungata di sofferenza passiva si è trasformata in manifestazione attiva.
Questo elemento di svolta nel livello di mobilitazione non sembra incidere ad oggi nel blocco sociale reazionario, come mostrano gli stessi risultati elettorali prima nelle Marche, poi in Calabria. Il blocco d'ordine tiene. Ma nel campo del blocco sociale alternativo si assiste a un processo di radicalizzazione reale.
La presenza dei giovani e dei giovanissimi è stato un tratto centrale della mobilitazione. In particolare nel primo salto delle manifestazioni del 22 settembre. A sua volta, l'onda d'urto del 22 settembre ha registrato e prodotto da subito un trascinamento più ampio.
La direzione della CGIL è stata la prima vittima di questa accelerazione, e soprattutto della propria miopia burocratica. Sentendo l'onda montare dopo la manifestazione di Genova, e temendo come la peste un possibile successo dell'azione di sciopero di USB e sindacalismo di base convocata per il 22, l'apparato CGIL ha provato a bagnare preventivamente la miccia con una propria iniziativa, improvvisamente convocata, di carattere puramente simbolico.
L'iniziativa CGIL del 19 Settembre aveva come unico fine quello di sgonfiare le gomme dello sciopero del 22 settembre, per poi riprendere il proprio calendario burocratico d'autunno. Ma l'operazione è stata rovinosa per chi l'ha promossa.
Al di là dei livelli di adesione diretta allo sciopero (modesti ma non irrilevanti nella scuola, nei trasporti, nei servizi), le manifestazioni del 22 settembre hanno registrato in tutta Italia uno straordinario successo politico. Non solo per la marea di giovani studenti che ha invaso strade e piazze, a un livello da lungo tempo sconosciuto. Ma per il sostegno pubblico del sentimento collettivo. Il fatto che azioni di occupazione simbolica di stazioni, strade, snodi portuali fossero accompagnate dal plauso pubblico circostante, persino quello delle loro “vittime” (automobilisti incolonnati) ha dato un volto all'intera giornata. Il fatto che per una intera giornata l'apparato CGIL sia rimasto muto misurava la sua sconfitta bruciante. USB si è vista regalare dalla CGIL un risultato imprevisto e imprevedibile, che andava bel al di là del proprio perimetro.
L'enorme successo del 22 settembre apriva a sua volta una dinamica nuova. Anche sul terreno delle relazioni sindacali. USB si è trovata per le mani una mobilitazione imprevedibile e in qualche modo una responsabilità di direzione di massa: una responsabilità estranea alla sua logica tradizionale autocentrata. Sull'altro lato, la direzione CGIL ha dovuto cercare di rimontare il clamoroso smacco subito rientrando in scena. Sino ad assumere improvvisamente quella parola d'ordine dello sciopero generale per la Palestina che sino ad allora aveva nei fatti respinto. Al punto di impegnarsi nell'inedita proclamazione di uno sciopero senza preavviso. L'inedita convergenza di CGIL e sindacalismo di base nello sciopero generale del 3 ottobre è stata il sottoprodotto di questa dinamica di massa. Una dinamica che né CGIL né USB avevano messo in conto.
A sua volta lo sciopero e le manifestazioni del 3 ottobre sono andate al di là del 22 settembre: in termini di adesione allo sciopero, in termini di partecipazione di massa ai cortei, in termini di espansione nazionale della mobilitazione nei territori (non solo le grandi città ma i piccoli centri e la provincia), in termini di identificazione e sostegno pubblico.
Il 3 ottobre ha registrato l'effetto valanga. La manifestazione del 4 ottobre a Roma ne ha portato il segno, nelle sue dimensioni eccezionali e nella composizione delle adesioni. Il fatto che la CGIL sia stata costretta ad aderire ad una manifestazione convocata dalle organizzazioni della resistenza palestinese su una piattaforma di rivendicazione della resistenza (7 ottobre incluso) dà la misura indiretta della straordinarietà degli eventi, dell'affanno della burocrazia, delle nuove contraddizioni che si aprono.
La portata della dinamica di massa ha messo il governo in difficoltà. Per la prima volta in tre anni. L'incontro fra mobilitazione di massa e senso comune popolare ha impedito al governo di applicare in forma dispiegata il dispositivo reazionario del ddl 1660.
In molte situazioni la dimensione di massa della pressione di piazza ha costretto le questure a subire in forma prevalentemente passiva l'onda delle occupazioni di stazioni, strade e autostrade.
Significativo il comportamento del governo verso lo stesso sciopero generale del 3 ottobre. La commissione di garanzia ne ha decretato l'illegittimità. Ma il governo non ha avuto la forza di ricorrere alla precettazione. Le squallide minacce del ministero dei trasporti nei confronti dei singoli scioperanti ha provato a vendicare l'impotenza del governo, ma non è riuscito a mascherarla. Ed ha avuto effetti pratici praticamente nulli.
Più in generale, l'intera gestione governativa della vicenda della flotilla è apparsa alla larga opinione pubblica come un penoso arrampicamento sugli specchi. La complicità del governo con Israele è emersa come ancor più manifesta, e ha rafforzato nella stessa mobilitazione pro Palestina la pulsione politica antigovernativa, ben al di là dell'aspetto umanitario.
E ora? Contrariamente al luogo comune movimentista secondo cui il movimento può tutto, basta seguirne l'onda, proprio il salto del movimento di massa pone più che mai il tema della direzione e della prospettiva. La parola d'ordine “blocchiamo tutto”, mutuata dalla Francia, ha raccolto giustamente la pulsione radicale di larga parte del movimento, ma non è in grado di per sé di tracciare uno sbocco e una prospettiva.
Certo, la mobilitazione deve continuare. Ma con quali rivendicazioni, quale forme di organizzazione, quale combinazione di forze sociali? Nessuno degli attori politici e sindacali della vicenda si pone questi interrogativi. Hanno ben altre preoccupazioni e ragioni. Il centrosinistra, reduce dall'astensione parlamentare sul piano Trump-Netanyahu, pensa a ricavare da quanto avvenuto un beneficio elettorale a futura memoria, peraltro – come i fatti dimostrano – senza risultati. La burocrazia CGIL cerca di riacciuffare il bandolo della matassa sfuggito di mano per recuperare il proprio controllo, e il proprio calendario. USB lavorerà a lustrare la gloria del proprio successo imprevisto in funzione della propria autocentratura. Potere al Popolo e le sue organizzazioni giovanili, obiettivamente egemoni nel movimento studentesco, puntano esclusivamente all'affermazione del proprio marchio.
È necessario invece tracciare una linea di prospettiva chiara per il futuro del movimento.
Il primo problema per la continuità del movimento risponde all'interrogativo: per quale rivendicazione si continua a lottare? La rivendicazione della rottura di ogni relazione con Israele deve emergere come rivendicazione centrale. Una rivendicazione radicale ma semplice, corrispondente al senso comune, suscettibile di numerose articolazioni (nelle università come nei porti), e al tempo stesso di carattere unificante. È una rivendicazione interna alla dinamica del movimento, apertamente antigovernativa, che scavalla le complesse variabili dello scenario mediorientale, mette a nudo l'ipocrisia delle opposizioni liberalprogressiste.
Quale classe sociale è in grado di tradurre questa rivendicazione sul terreno materiale dell'azione? La classe lavoratrice. La questione è importante. Non si tratta semplicemente di chiedere al governo italiano di rompere con Israele, cosa che naturalmente è giusto fare ma non ha effetti pratici. Si tratta di organizzare un'azione indipendente del movimento operaio che persegua realmente questo obiettivo.
Il blocco di ogni traffico con Israele nei porti e negli aeroporti grazie al controllo dei lavoratori sulle merci in entrata e in uscita è da questo punto di vista centrale. È un'azione di lotta già emersa a macchia di leopardo in diversi porti italiani (Genova, Livorno, Ravenna...) ed europei (Marsiglia, Pireo, Anversa...). Se vi fosse una confederazione dei sindacati europei degna di questo nome, organizzerebbe il blocco a oltranza su scala continentale. In ogni caso, è questa una rivendicazione da avanzare su scala nazionale, e su cui mettere alla prova le direzioni sindacali. Di certo è una pratica di lotta che spiega alla giovane generazione, con l'esempio più semplice, la forza della classe lavoratrice e la sua centralità.
L'ingresso della classe lavoratrice nella lotta per la Palestina si è posto sul terreno direttamente politico, ma non è scevro di risvolti sociali.
È vero, vi sono lavoratori e lavoratrici che hanno scioperato per la Palestina mentre non scioperavano per ragioni sociali più direttamente sindacali. Nessuna meraviglia. L'intera storia del movimento operaio dimostra che la coscienza di massa può maturare per le vie più diverse. Ma è anche vero che quando una massa imponente di giovani, di lavoratori, di popolo si riversa nelle piazze e nelle strade manifesta ragioni e pulsioni più profonde della bandiera che formalmente impugna e in cui si identifica. Così è sulla Palestina. La Palestina può catalizzare una ribellione all'ingiustizia del mondo, che è anche l'ingiustizia del proprio salario in picchiata, della precarietà senza futuro del proprio lavoro, delle angherie quotidiane della propria vita sociale, dello scarto fra la propria condizione e le proprie aspirazioni. Uno scarto vissuto dalle giovani generazioni di tutto il mondo.
Per dare continuità allo stesso movimento che si è prodotto è dunque essenziale lavorare a ricondurlo a un orizzonte più complessivo, ciò che implica una piattaforma riconoscibile di rivendicazioni sociali unificanti, e una prospettiva di alternativa di società.
La battaglia per il fronte unico di classe e di massa, e per la sua continuità, ben oltre la convergenza dello sciopero generale unitario del 3 ottobre, deve saldarsi a una proposta di svolta generale del movimento operaio e sindacale sul terreno della lotta di classe. È il tema di una vertenza generale unificante. È la lotta per un'altra direzione del movimento operaio italiano.
La Palestina, nella sua tragica realtà, documenta la barbarie del colonialismo e dell'imperialismo, in tutte le loro varianti. Ma anche, perciò stesso, la totale utopia del riformismo.
Il crollo della vecchia narrazione “due popoli, due Stati” , peraltro seppellita dallo stesso piano Trump-Blair-Netanyahu, è e deve essere lo spunto per far comprendere a un settore d'avanguardia della giovane generazione, operaia e studentesca, che non esiste alcuna reale soluzione della crisi dell'umanità fuori da una prospettiva di rivoluzione, in ogni paese e su scala mondiale.
Portare nella classe lavoratrice e nella gioventù questo elemento di coscienza, portarlo nella stessa coscienza dell'avanguardia palestinese in Italia, è il cuore dell'intervento del Partito Comunista dei Lavoratori, sezione italiana della Lega Internazionale Socialista.








