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Palestina, Sudan, Congo, Yemen e benaltrismo
21 Ottobre 2025
Reazionari più o meno dichiarati, liberali eternamente a caccia di una mitologica posizione super partes, socialdemocratici terrorizzati all’idea di essere scambiati per “estremisti”, qualunquisti dalla lingua lunga e cialtroni d’ogni specie: da anni ci propinano castronerie tanto abominevoli che non ci siamo fatti mancare pressoché nulla in fatto di chiacchiere revisioniste, giustificazioniste e negazioniste.
Una delle forme più deleterie e insidiose assunte da queste assurdità rivolte contro il movimento per la liberazione della Palestina è il benaltrismo - spesso annunciato da una solerte alzata di mani e dal fatidico annuncio “io sono d’accordo con l’obiettivo della protesta, ma”, che prelude inevitabilmente futili argomentazioni il cui scopo è normalizzare la strage di massa e il colonialismo criminale in Palestina. Perché se si è d’accordo nel condannare un genocidio, non si dovrebbe percepire la necessità di citarne un altro paio con la manifesta intenzione di portare la discussione fuori strada.
Ed ecco che stanno prendendo piede i lamentevoli “ma due scioperi per la Palestina in dieci giorni sono troppi”, come se l’atroce attacco alla dignità umana che sta avvenendo in Palestina valesse meno di un paio di giornate di mobilitazione generale. Solitamente viene in coppia con l’immancabile “perché non si sciopera per il prezzo degli alimenti, per i costi dell’energia, per i diritti dei lavoratori, per la sanità?” e via discorrendo.
Al di là della povertà logica intrinseca di queste assunzioni - basti ricordare che la maggior parte degli scioperi locali e nazionali degli ultimi vent’anni riguardavano proprio il lavoro, la sanità e i diritti sociali - va chiarito che queste rivendicazioni non sono e non devono essere affatto alternative alla lotta per la Palestina, ma sono complementari. Proprio sfruttando la forza e lo slancio delle ampie mobilitazioni per l’autodeterminazione dei palestinesi e contro i crimini del colonialismo sionista si può sviluppare un discorso più vasto, capace di includere anche la liberazione del proletariato di questo e altri Paesi.
Unire la lotta per la Palestina a quella contro i governi borghesi complici del sionismo – come il governo Meloni, giustamente nel mirino delle manifestazioni delle ultime settimane – valorizzerebbe tutte le battaglie progressiste del momento. La caduta di un governo reazionario come quello italiano potrebbe rappresentare una grande opportunità storica: spezzare l’asse di sostegno europeo a Israele e creare nuove opportunità e spazi per rilanciare altre cause e mobilitazioni.
Ma lo slogan più infame, più ipocrita, che cerca di colpire direttamente la coscienza sociale di chi scende in piazza, è quello che prende in causa il Congo, il Sudan e lo Yemen. Un profluvio di “E allora il Congo? Da lì vengono i vostri telefonini!”.
La prima domanda che sorge spontanea è: cosa diavolo hanno mai fatto questi individui per il Congo, lo Yemen e il Sudan? Niente. E per gli altri conflitti nel mondo? Hanno forse levato la loro voce quando il Nagorno-Karabakh è stato invaso dal regime cripto-fascista dell’Azerbaigian? Hanno denunciato il massacro del popolo del Tigray? Si sono preoccupati delle lotte dei nativi delle Americhe, dell’Australia o della Nuova Zelanda? Hanno mai espresso solidarietà al Kashmir martoriato? Le probabilità che se ne siano occupati sono prossime allo zero: chiacchiere, senza nemmeno il distintivo.
Chi scrive ha visto, non a caso, per la prima volta sventolare i vessilli del Congo, del Sudan, dello Yemen e di altri popoli proprio nelle recenti manifestazioni. Ed è naturale, perché il movimento per la Palestina - almeno nella sua parte più cosciente - è sinceramente internazionalista e ricettivo alle istanze di autodeterminazione dei popoli del mondo. Quindi, anziché lagnarsi che non ci si occupa abbastanza di queste cause, sarebbe il caso di portarle nel movimento internazionale per la Palestina (come già alcune realtà fanno), per contribuire a cementificare il suo spirito anticolonialista ed estendere la lotta internazionale allo sfruttamento capitalista. Ma ovviamente è più comodo usarle come paravento per schermare la propria inerzia, per squalificare ignobilmente un popolo in lotta contro il suo annientamento e per autoassolversi. Ma ciò che conta ancora di più è la connessione che queste lotte hanno con quella palestinese. Perché i crimini del sionismo si estendono si limitano al Medio Oriente. Il Sudan, per esempio, è uno dei Paesi arabi (in realtà, almeno il 30% della popolazione appartiene a diverse nazionalità minorizzate presenti in regioni come il Darfur) che, con la mediazione degli Stati Uniti, ha normalizzato i propri rapporti con Israele nel 2020, ottenendo in cambio di essere depennato dalla lista statunitense dei Paesi che “sponsorizzano il terrorismo” (ci sono comunque dei discutibili precedenti: dal 2005 afferma la legittimità dell’occupazione marocchina del Sahara Occidentale).
Le forze paramilitari arabe e reazionarie sudanesi (le Rapid Support Forces, composte perlopiù dai fanatici criminali Janjawid) sono responsabili della strage sistematica di appartenenti a minoranze come i Masalit, gli Zaghawa e i Fur, di crimini contro i migranti ammassati sulla frontiera con la Libia e dell’assassinio degli oppositori politici sono le stesse che hanno appoggiato buona parte dei governi militari susseguitisi in patria e le forze filo-saudite in Yemen (combattendo, di conseguenza, quelle antisioniste come gli Houthi e affiancandosi ai fascisti russi della Wagner). Ora sono tra i protagonisti della guerra civile e in aperto conflitto con lo Stato centrale, perché fanno parte di uno dei gruppi di potere in lotta per governare il Paese (lo scontro è principalmente tra fazioni rivali di militari e sotto l’influenza delle potenze imperialiste).
Israele, dall’aprile del 2023, è impegnato tramite i suoi agenti nell’opera di mediazione tra le due principali fazioni militari, ma non certo per amore della “pace”: al Mossad e agli ufficiali israeliani non importa nulla delle masse sudanesi oppresse e quello che vogliono tutelare è la completa normalizzazione dei rapporti tra Stato sionista e Sudan, considerato uno Stato da sfruttare per espandere gli interessi sionisti in Africa.
Ma passiamo allo Yemen. È stato bombardato da Israele utilizzando a pretesto i missili lanciati dagli Houthi in sostegno alla resistenza palestinese. Lo scopo reale è quello di scoraggiare e scardinare qualsiasi tentativo di mettere in discussione la supremazia israeliana nella regione.
I dispotici governi yemeniti susseguitisi dopo la riunificazione post-guerra fredda si sono caratterizzati per il loro allineamento agli interessi imperialisti (e di conseguenza anche di Israele), che sono intervenuti nella guerra civile con una coalizione guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, composta anche da Kuwait, Qatar, Marocco, Bahrein, Giordania, Egitto e vari gruppi di mercenari e con il decisivo supporto di Regno Unito, Stati Uniti e Francia. Anche in questo caso la responsabilità dell’orrenda catastrofe umanitaria è degli alleati imperialisti del sionismo e di alcuni degli Stati arabi più propensi a normalizzare i rapporti con Israele (non manca neppure il beneplacito di potenze come la Cina).
In Congo è in corso un’orribile guerra civile, che ha visto la partecipazione anche del Ruanda (ha invaso il paese nel 1996 e nel 1998) e dell’Uganda. Israele ha una parte attiva nella rovina del Paese: ha appoggiato il regime reazionario di Mobutu Sese Seko, fornendo anche addestramento ed equipaggiamento militare alle truppe scelte del despota, e anche oggi intrattiene rapporti stretti con le élite congolesi, che ricambiano l’interesse appoggiando diplomaticamente Tel Aviv e Trump.
Sono diversi i miliardari israeliani impegnati nell’appropriazione indebita delle risorse congolesi: parte del ricavato viene investito in nuove colonie in Palestina e nelle forze armate israeliane. Lo Stato sionista è tra i primi esportatori di diamanti nel mondo (oltre il 12% delle sue esportazioni sono “gemme e metalli preziosi”), pur non possedendo giacimenti da cui attingere sul suo territorio, e formalmente, gli israeliani non possiedono giacimenti minerari nemmeno in Congo. Eppure, grazie alla corruzione, all’appropriazione indebita, alle facilitazioni fiscali e al traffico di armi, sono in grado di appropriarsi di ingenti introiti proprio grazie allo sfruttamento di queste terre.
Tra i “danarosi” protagonisti del traffico troviamo Lev Leviev, un israelo-russo arricchitosi dopo aver acquistato alcune industrie diamantifere nell’ormai collassata Unione Sovietica, ex militare dell’IDF e proprietario della compagnia internazionale Africa Israel Investments. Vicino a Putin e Trump, è stato accusato di aver smerciato diamanti sporchi di sangue in Israele e di aver utilizzato i ricavati per finanziare gli insediamenti sionisti in Cisgiordania tramite l’Israel Land Fund. Un altro è Benny Steinmetz, franco-israeliano: arrestato nel 2023 a Cipro, è tra le altre cose sotto accusa per corruzione e traffici illegali nel settore minerario in Africa e, infatti, la sua compagnia (BSG Resources) è impegnata nell’espropriazione delle risorse naturali congolesi.
Dan Gertler, invece, ha stipulato diversi contratti con il governo congolese: i suoi rapporti con l’allora presidente del Congo Kabila (conosciuto per la repressione violenta delle contestazioni di piazza, la corruzione e la violazione sistematica dei diritti umani; Gertler e la sua compagnia sono accusati di essere suoi complici) gli hanno permesso di dedicarsi all’estrazione dei diamanti tramite la sua International Diamond Industries (secondo questi contratti, che stabiliscono un truffaldino partenariato tra settore privato e statale, il 70% dei profitti derivanti dall’estrazione vanno al Gertler Group, mentre soltanto il 30% finisce delle mani del governo congolese).
Israele fornisce, inoltre, anche le sue avanzate tecnologie di spionaggio al Ruanda, il principale responsabile della catastrofe umanitaria in Congo, che le utilizza per spiare oppositori e attivisti congolesi. Non a caso, Uganda e Ruanda sono partner molto stretti del regime sionista e sono conosciuti anche per il traffico illecito di diamanti congolesi: Israele è uno dei principali beneficiari di questa pratica.
Ma facciamo un passo indietro. Tra chi è stato accusato di ignorare la maggioranza dei conflitti nel mondo ci sono anche i partecipanti alla Global Sumud Flotilla. Ma è assurdo, e il caso di Greta Thunberg è emblematico: negli ultimi anni ha incontrato e solidarizzato con i rifugiati dell'Artsakh (Nagorno-Karabakh), ha contestato il baraccone e il greenwashing promosso dalla COP 29 a Baku e ha visitato e sostenuto i rifugiati saharawi. Il valore internazionalista e solidale di queste azioni è innegabile. E ciò, a grandi linee, vale anche per gli altri partecipanti alla Global Sumud Flotilla: attivisti, medici, volontari, militanti politici che da anni e anni sono protagonisti delle più disparate lotte e si sono spesso occupati dei conflitti più remoti.
Ergo, no, il supporto alla Palestina non è una battaglia “glamour”: è un nodo fondamentale nel tessuto dei crimini imperialisti. Un nodo che se sciolto può contribuire al rilancio di un’idea di mondo, di società e di rapporti internazionali completamente diversa.
È una "moda"? Al di là dei ragionevoli dubbi sulla credibilità di questa accusa e sulla sua razionalità, cosa si può rispondere? Magari. Magari tutto il proletariato si unisse scosso dalla tragedia palestinese. Magari la gioventù e tutti i popoli oppressi del mondo invadessero le strade delle città al grido di “Palestina libera”. Magari divenisse un fenomeno in voga il desiderio di rivalsa contro il sistema banditesco responsabile del sionismo, dello sfruttamento e della discriminazione in tutte le sue forme. Diventassero di moda il marxismo e l'anticapitalismo conseguente, dovremmo forse lamentarcene?








