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Per l'esproprio dell'industria bellica, sotto controllo operaio

Per una risposta antimilitarista che vada al di là del pacifismo

3 Settembre 2025
esproprio


«La guerra è una gigantesca impresa commerciale, soprattutto per l'impresa bellica. Per questo le "200 famiglie" sono le prime fautrici del patriottismo e le prime provocatrici di guerra. Il controllo operaio sull'industria bellica è il primo passo contro i fabbricanti di guerra.
Alla parola d'ordine dei riformisti "imposta sui profitti di guerra" contrapponiamo la parola d'ordine "confisca dei redditi di guerra e espropriazione delle aziende che lavorano per la guerra". Dove l'industria bellica è già nazionalizzata, come in Francia, la parola d'ordine del controllo operaio conserva tutto il suo valore: il proletariato non ha nello Stato della borghesia più fiducia di quanto ne abbia nel singolo. Non un uomo, non un soldo per il governo borghese!
Non un programma di armamenti, ma un programma di lavori di pubblica utilità!
»

(Trotsky, 1938, dal Programma di transizione)


La corsa agli armamenti attraversa tutti i paesi imperialisti. La guerra in Ucraina è stata sicuramente un fattore di accelerazione di questa corsa. Ma la corsa ha una portata planetaria enormemente più ampia dell'Ucraina.
L'imperialismo russo si appoggia ormai su un'economia di guerra in piena regola, investendo nell'apparato militare il 6% del proprio PIL. L'imperialismo cinese sta sviluppando le proprie capacità militari a livelli inediti su terra, cielo e mare, il suo bilancio per la difesa supera ormai i 500 miliardi annui, la sua flotta ha ormai superato la concorrente flotta americana.

L'imperialismo USA sotto la seconda amministrazione Trump (che alcuni vorrebbero “pacifista”) promuove un nuovo massiccio investimento in armamenti: assieme alla riduzione delle tasse per i capitalisti, l'aumento della spesa militare è infatti il principale ambito di investimento dei soldi risparmiati coi tagli sociali nell'attuale legge di bilancio trumpiana. Se il Pentagono, a differenza del Dipartimento di Stato, ha più volte frenato sugli aiuti all'Ucraina è perché i generali americani vogliono rimpinguare i propri arsenali e non sguarnirli (anche quando gli arsenali USA già dispongono, per dare l'idea, di 13700 Patriot).

Gli imperialismi europei hanno appena concordato in sede NATO un raddoppio o triplicazione dei propri investimenti in armi (sino al 5% del PIL), già agevolati dalle clausole di salvaguardia previste dal nuovo Patto di stabilità (possibilità di accrescere dell'1,5% il proprio bilancio di spesa per la difesa).

Le pressioni di Trump, ma soprattutto la minaccia di un disimpegno USA dal fronte europeo, hanno spinto tutti i governi imperialisti del Vecchio Continente oltre i vecchi confini di spesa. Tutti. Il governo “di sinistra” dell'imperialismo spagnolo, che i partiti della sinistra europea esaltano come esempio, ha evitato di porre il veto in ambito NATO, ha firmato l'accordo sull'aumento del 5% delle spese militari al pari degli altri, ha già disposto l'aumento di spesa militare nel proprio bilancio, al di là delle pose “pacifiste” da telecamera.

La verità è che tutti gli imperialismi europei, nessuno escluso, seguono la rotta militarista. In un quadro capitalista internazionale in cui la potenza militare è da sempre uno dei metri di misura delle ambizioni imperialiste, i governi europei non possono fare altrimenti. Solo ricostruendo una propria potenza militare possono sperare in un posto a tavola nella futura spartizione del mondo, senza essere schiacciati, come oggi sono, nella morsa tra USA, Cina, Russia.

Al tempo stesso, l'unione degli imperialismi europei è attraversata più che mai da forti rivalità nazionali anche sul terreno militare.

La Germania ha predisposto un piano di riarmo senza precedenti nel dopoguerra, e senza possibili punti di paragone in Europa, grazie a un margine di manovra finanziaria di cui nessun altro paese europeo può disporre. La rivendicazione di un primato militare tedesco in Europa è già sul piatto della bilancia degli equilibri continentali. La proiezione della Germania verso il Nord Europa, quale suo possibile scudo protettivo – a fronte della minaccia di un disimpegno trumpiano – si appoggia su questa base.

La Francia reagisce alla concorrenza tedesca raddoppiando il proprio bilancio militare nel decennio 2017-2027 e realizzando un patto con la Gran Bretagna fondato sulla comune dotazione dell'arma nucleare e sulla comune presenza nel Consiglio di sicurezza dell'ONU: l'offerta franco-britannica di un proprio ombrello nucleare protettivo sull'Europa, controllato da Londra e Parigi, è una replica alle ambizioni di Berlino. La Gran Bretagna entra per questa via nelle contraddizioni interne alla UE portando in dote la propria consumata esperienza bellica.

L'imperialismo italiano è pienamente partecipe del grande gioco. Ha dato sponda all'imperialismo USA e alla sua politica in Medio Oriente e in Africa per capitalizzare a proprio vantaggio lo sfaldamento dell'area coloniale francese nel Sahel, e ha chiesto in cambio il riconoscimento USA del primato italiano nel Mediterraneo. L'avvento di Donald Trump ha complicato l'operazione, ma non l'ha annullata. Il forte potenziamento della spesa militare in Italia, già a partire dall'annunciato incremento di 4 miliardi nella prossima legge di bilancio, è un suo tassello ineliminabile. Così come lo è il gioco di intesa con l'imperialismo tedesco in funzione scopertamente antifrancese.

L'industria bellica tricolore è la prima beneficiaria di questo contesto generale. Leonardo, Fincantieri, OTO Melara, Iveco, i grandi capitalisti in armi vedono le proprie azioni salire in Borsa e i propri affari estendere il proprio raggio: nella costruzione del caccia militare più potente al mondo in consorzio con Gran Bretagna e Giappone, nella fabbricazione di nuovi carri armati in sinergia con la Germania, nella costruzione della flotta militare dei Paesi del Golfo, nella cantieristica militare globale. USA inclusi: il Ministro degli esteri italiano ha da poco esibito al Segretario di Stato USA Marco Rubio il fior fiore degli stabilimenti di Fincantieri in Wisconsin e Florida, e le fabbriche di Leonardo in Virginia, Ohio, North Carolina, California, New York, Alabama, Arizona, quale riprova e misura del contributo italiano all'apparato militare americano, e perciò stesso ragione (auspicata) di attenzioni e riguardi verso l'Italia, magari sui dazi.

Ma non è tutto. Avanzano in Italia i progetti di possibile riconversione bellica di pezzi dell'industria automobilistica e della componentistica, in perfetto parallelismo con analoghi progetti tedeschi e francesi. Il salto dell'investimento militare, obbligato dal nuovo quadro mondiale, viene usato come antidoto alla stagnazione economica e alle spinte recessive. Un nuovo tonico del capitalismo italiano. Naturalmente, come in ogni parte del mondo, a carico dei propri salariati.

In questo quadro generale, emerge con sempre maggiore evidenza la totale impotenza delle illusioni pacifiste. Anche quando sono sincere. Anche quando non sono la copertura retorica di qualche nuova potenza imperialista e delle sue “soluzioni di pace”.

La rotta della politica mondiale, in una prospettiva storica, marcia verso la guerra. Le guerre imperialiste, dall'invasione russa dell'Ucraina ai bombardamenti USA sull'Iran, segnano come un sismografo le scosse telluriche che attraversano il pianeta. La politica criminale e guerrafondaia dello Stato sionista, al di là delle sue specificità, si pone in perfetta sintonia con la politica di potenza che percorre il mondo, e non a caso si avvale del sostegno o della complicità di tutte le potenze imperialiste, vecchie e nuove, nessuna esclusa.

L'idea che qualsivoglia diritto di autodeterminazione nazionale dei popoli oppressi possa essere affidato a fantomatiche “conferenze di pace” istruite dall'ONU e benedette dal Papa misura solamente l'eredità delle vecchie illusioni truffaldine sulla diplomazia imperialista, proprio nel momento in cui quelle illusioni sono strapazzate e umiliate ogni giorno dal nuovo quadro delle relazioni mondiali. L'idea che la raccomandazione pacifista al proprio governo imperialista possa fermare la rotta militarista non è meno peregrina. Solo il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo e dell'imperialismo può liberare un futuro di pace vera e giusta per l'umanità e per ogni popolo oppresso.

Proprio per questo, nei paesi imperialisti, a partire dall'imperialismo di casa nostra, è importante dotarsi di parole d'ordine e rivendicazioni che traccino un ponte tra la sincera domanda di pace antimilitarista, il rifiuto di pagare le spese di guerra con tagli sociali, e la necessaria prospettiva anticapitalista.

La rivendicazione dell'esproprio senza indennizzo e sotto controllo operaio dell'industria bellica può e deve entrare in ogni mobilitazione contro la guerra e contro l'economia di guerra, accanto alla difesa del diritto di resistenza di ogni popolo oppresso.

La rivendicazione dell'esproprio dell'industria bellica appartiene alla tradizione migliore del movimento operaio rivoluzionario, ed è oggi di straordinaria attualità. Essa si concentra, sul versante interno, contro il cuore delle attuali politiche dominanti. Contro la conversione dell'industria in produzione bellica va pianificata la conversione di parte dell'industria bellica in produzione civile. E nessuna conversione dell'industria bellica può avvenire nel rispetto dei diritti dei lavoratori senza espropriare i suoi azionisti – i “fabbricanti di guerra” – e senza controllo operaio. Per tutte queste ragioni la rivendicazione dell'esproprio dell'industria bellica chiama in causa l'ordine borghese della società. Per questo pone l'esigenza di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici quale unica possibile alternativa.

A chi difende la “nostra” industria bellica, e soprattutto la sua proprietà, nel nome della difesa della patria (sia essa nazionale o della UE) – magari proprio evocando i venti di guerra che soffiano nel mondo – rispondiamo con le parole di Trotsky:

«"Difesa della patria"? Ma dietro questa astrazione la borghesia nasconde la difesa dei suoi profitti e dei suoi saccheggi. Noi siamo pronti a difendere la patria contro i capitalisti stranieri, se mettiamo le catene ai nostri capitalisti e impediamo loro di attaccare la patria altrui, se gli operai e i contadini diventano i veri padroni del paese, se le ricchezze nazionali passano dalle mani di un'infima minoranza nelle mani del popolo, se l'esercito cessa di essere strumento degli sfruttatori e diventa strumento degli sfruttati.
Bisogna saper tradurre queste idee fondamentali in idee più particolari e più concrete secondo il corso degli avvenimenti e l'evolvere dello stato d'animo delle masse. Bisogna, inoltre, distinguere rigorosamente tra il pacifismo del diplomatico, del professore, del giornalista e il pacifismo del carpentiere, del bracciante o della lavandaia. Nel primo caso il pacifismo è una copertura dell'imperialismo. Nel secondo è l'espressione confusa di una diffidenza verso l'imperialismo.
Quando il piccolo contadino o l'operaio parlano di difesa della patria, intendono difesa della loro casa, della loro famiglia e della famiglia altrui dall'invasione nemica, dalle bombe, dai gas asfissianti. Il capitalista e il suo giornalista per difesa della patria intendono la conquista di colonie e di mercati, l'estensione tramite il saccheggio della partecipazione "nazionale" al reddito mondiale. Il pacifismo e il patriottismo borghese sono del tutto menzogneri. Nel pacifismo e persino nel patriottismo degli oppressi ci sono elementi che riflettono da una parte l'odio contro la guerra distruttrice e dall'altra l'attaccamento a quello che considerano il loro bene e che bisogna saper cogliere per trarne le conclusioni rivoluzionarie necessarie. Bisogna saper contrapporre antagonisticamente queste due forme di pacifismo e di patriottismo.
»

(Trotsky, 1938, Programma di transizione)

Proprio così. Larga parte della sinistra fa spesso, paradossalmente, l'opposto: si adatta al pacifismo borghese (del proprio imperialismo o dell'imperialismo altrui) e rifiuta di tradurre in termini rivoluzionari il pacifismo operaio e popolare.
Rivendicare l'esproprio dell'industria bellica è un modo di tradurre e attualizzare la lezione del vecchio capo dell'Armata Rossa, nel quadro più generale della politica rivoluzionaria.

Partito Comunista dei Lavoratori

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