Prima pagina
Il protocollo sul caldo fra governo, padroni e sindacati
La logica di un'intesa colabrodo
8 Luglio 2025
Nella primavera del 2020 l'accordo fra governo Conte, Confindustria e sindacati per gestire l'irruzione travolgente della pandemia nei luoghi di lavoro non prevedeva sanzioni per chi lo avesse violato. La sua unica funzione fu quella di stoppare l'onda di scioperi dal basso di centinaia di migliaia di lavoratori (marzo 2020) che chiedevano misure di sicurezza sanitaria nelle fabbriche contro il cinismo padronale. Quel cinismo capitalista che poco prima in Val Brembana aveva posto il veto su misure di recinzione sanitaria, come a Codogno, per consentire la continuità di produzione e profitti (“Bergamo is running”), col risultato di moltiplicare le morti per Covid a livelli di record (mondiale).
Il protocollo di accordo fra governo, sindacati, organizzazioni padronali, dei primi di luglio 2025 sulla gestione del lavoro durante l'ondata di caldo – in un quadro certo meno drammatico ma non meno serio – ricalca, in forma diversa, la stessa logica del 2020. Una somma di buoni proponimenti: l'invito ai padroni a consultare il bollettino meteo, il suggerimento di eventuali flessibilizzazioni concordate degli orari, la disponibilità del governo a coprire con la cassa integrazione eventuali sospensioni del lavoro imposte dal caldo, l'appello alle parti sociali a contemperare la tutela dei lavoratori con la continuità del lavoro a partire dai “lavori di pubblica utilità”, l'invito alle Regioni a predisporre apposite ordinanze dentro lo spirito dell'accordo, l'immancabile retorica sulla collaborazione fra le parti.
L'elemento centrale del protocollo siglato è l'assenza di ogni impegno vincolante per i padroni, e dunque la sostanziale assenza di misure sanzionatorie. Nella sostanza, un liberi tutti.
Il governo Meloni ha naturalmente esultato presentando l'accordo come proprio successo politico (“avete visto, anche Landini ha firmato, altro che governo antioperaio”); Confindustria e tutte le organizzazioni padronali hanno applaudito il governo e la “responsabilità” sindacale (anche a futura memoria, in vista dei contratti); le burocrazie sindacali CGIL-CISL-UIL, unite, hanno esaltato la collaborazione fra le parti come paradigma di nuove possibili relazioni con padronato e governo, nel segno di quel riconoscimento di ruolo che è l'unica vera aspirazione delle burocrazie.
Ma il risultato per i lavoratori? È quello documentato dalla cronaca delle giornate successive: nessuna reale garanzia di protezione del lavoro. Le ordinanze regionali, quando vi sono state, sono state non solo le più diverse – sancendo la disparità dei diritti a parità di condizioni – ma anche per lo più inosservate. Nei cantieri edili la “salvaguardia delle opere di pubblica utilità” ha significato quasi ovunque continuità di lavori massacranti nelle fasce orarie più torride, spesso nelle regioni più calde, come la Sicilia. Nelle campagne, come nell'Agro Pontino, il lavoro è continuato come sempre nelle ore di punta, condannando in particolare i lavoratori immigrati a condizioni insostenibili. La logistica (trasporti, magazzini, rider) è stata a volte persino ignorata dalle ordinanze, come in Veneto e Toscana, mentre altre volte le relative ordinanze sono state inevase dai padroni. Altrettanto può dirsi per l'industria, in particolare per la piccola e media impresa: gli scioperi operai in Elettrolux di Forlì, e in alcune aziende del milanese e del mantovano, hanno denunciato le condizioni del lavoro in fabbrica, ed anche, di fatto, la natura truffaldina dell'intesa nazionale fra le parti.
Sulla base di un elementare criterio classista, la rivendicazione sindacale unificante avrebbe dovuto e dovrebbe concentrarsi su una misura semplice di valenza generale: una legge che dica che in presenza di temperature superiori a 30 gradi e con un tasso di umidità superiore al 70% il lavoro viene interrotto. Ovunque e senza deroghe (se non quelle legate a prestazioni sanitarie urgenti), con un potere di controllo e di veto degli RSL, e con piena garanzia di salario. Punto. Ma una rivendicazione così chiara richiede una logica opposta a quella delle burocrazie. Una logica che contrapponga le ragioni del lavoro a quelle del capitale. Una logica da vertenza generale e di reale mobilitazione.
È la logica con cui il PCL si batte in ogni luogo di lavoro e in ogni sindacato di classe.