Prima pagina
L'attacco USA all'Iran, nuovo capitolo del banditismo imperialista
La politica di Trump nella complessità del Medio Oriente
23 Giugno 2025
L'attacco dei bombardieri USA all'Iran è un ulteriore capitolo del banditismo imperialista della prima potenza mondiale. Un'ulteriore riprova del cordone ombelicale tra lo stato sionista e l'imperialismo USA, quale che sia il colore politico dell'amministrazione americana e del governo israeliano. Nulla di ciò che lo stato sionista ha fatto e fa sarebbe possibile senza il sostegno strutturale di lungo corso dell'imperialismo USA (e non solo). È una verità che non va mai dimenticata.
Le motivazioni formali e pubbliche dell'aggressione sionista/americana contro l'Iran sono di per sé rivelatrici di un'arroganza e ipocrisia senza limiti. Una potenza imperialista che detiene più di cinquemila testate nucleari, e uno stato coloniale sionista che ne possiede circa duecento, pretendono insieme di vietare a uno stato sovrano del Medio Oriente di costruirne una. E paradossalmente lo possono bombardare anche per il fatto che non la possiede (a differenza della Corea del Nord, che guarda caso nessuno oggi si sogna di minacciare).
Il fatto che Israele, al contrario dell'Iran, non aderisca all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, e abbia gestito il proprio armamento nucleare nella massima segretezza e fuori da ogni controllo, rende la sua denuncia delle “violazioni iraniane” ancor più grottesca e provocatoria.
Il fatto che tutte le potenze imperialiste – non solo gli imperialismi occidentali ma persino Russia e Cina – dichiarino all'unisono che “l'Iran non può avere la bomba” misura la profondità della loro comune connivenza con lo stato sionista, al di là dei diversi posizionamenti diplomatici di fronte alla guerra.
Donald Trump ha voluto salire sul carro della guerra sionista contro l'Iran. Non è chiaro se e quando avrà intenzione di scendere. Di certo la sua scelta di guerra smentisce una volta di più le idiozie sparse a piene mani in questi mesi, soprattutto da parte cegli ambienti campisti, sulla vocazione “pacifista” della nuova amministrazione USA. La più grande potenza imperialista del pianeta non è e non può essere, per la sua stessa natura, una forza di pace. Tutta la storia dell'imperialismo USA lo dimostra. Inclusi i nuovi stanziamenti di bilancio di Donald Trump per l'industria militare americana.
Il vero problema strategico e di fondo dell'imperialismo USA è come gestire la propria politica di rapina, a fronte del proprio declino e dell'ascesa dell'imperialismo cinese. La linea con cui il secondo Trump sembra affrontare il problema è effettivamente nuova. È la proposta rivolta alla Russia e alla Cina di una spartizione negoziata del mondo sulla base di aree di influenza continentali: l'America agli americani (inclusa l'America Latina, il Centro America, il Canada e persino la Groenlandia); l'Ucraina alla Russia; l'Asia alla Cina (con disponibilità negoziali su Taiwan?).
La clamorosa apertura di Trump a Putin e a un suo possibile ruolo globale, l'evidente abbandono americano dell'Ucraina (dopo un accordo di rapina sulle sue risorse minerarie), la marginalizzazione umiliante degli imperialismi “alleati” europei su ogni scacchiere della politica mondiale, lo stesso relativo disimpegno USA dal Vecchio continente, sono un risvolto della nuova linea. Non una iniziativa di pace, ma di spartizione del bottino tra banditi imperialisti. Non sappiamo se avrà successo, ma sappiamo che questa è la sua natura.
LA DIFFICOLTÀ DELLA LINEA TRUMPIANA IN MEDIO ORIENTE
Il Medio Oriente è un punto di difficoltà della linea trumpiana. Ma è anche un campo obbligato di esercitazione e sperimentazione. La crisi dell'egemonia USA nella regione è il portato di una lunga catena di disastri e sconfitte, dall'Iraq all'Afghanistan. Nell'ultimo decennio era stato l'imperialismo russo il principale beneficiario della crisi USA, attraverso il consolidamento dell'asse con Assad, lo sbarco in Libia, il blocco con gli Emirati Arabi, l'alleanza col regime iraniano e la sua rete di appoggio (in Libano, Siria, Yemen). Ma negli ultimi due anni l'azione genocida del sionismo in Palestina ha nuovamente scompaginato il campo: col crollo di Assad, la sconfitta di Hezbollah, l'indebolimento complessivo dell'Iran e della sua rete di relazioni. La nuova guerra sionista contro l'Iran è quindi (anche) la risultante dei nuovi rapporti di forza nella regione, e al tempo stesso il coronamento dell'espansionismo israeliano (occupazione di Gaza, annessione della Cisgiordania, espulsione manu militari della popolazione palestinese, allargamento nel Golan siriano, subordinazione del Libano al nuovo ordine sionista). È il progetto della Grande Israele.
Ma fino a che punto la Grande Israele si concilia col disegno imperialistico globale di Trump? L'interrogativo è aperto. Trump punta ad allargare gli Accordi di Abramo all'Arabia Saudita come nuovo architrave di una stabilità medio orientale: ciò che gli coprirebbe le spalle nella regione consentendogli di dedicarsi alla partita strategica con la Cina sul Pacifico.
Ma il governo saudita può avventurarsi in un accodo storico con Israele nel momento stesso della carneficina di Gaza? Più in generale, possono farlo l'insieme delle monarchie del Golfo, sfidando l'odio della popolazione araba? Ai loro occhi, il ridimensionamento dello storico rivale iraniano è di per sé benvenuto, al di là delle dissociazioni formali dalla guerra. Ma lo è anche un espansionismo senza rete dello stato sionista nella regione?
Le oscillazioni di Donald Trump nella vicenda sono emblematiche. Prima un negoziato in proprio (persino) con Hamas, per liberare un prigioniero USA, poi con gli houthi, per mettere al sicuro le navi americane, poi con l'Iran, per accordarsi sul nucleare. Il tutto scavalcando Netanyahu, e persino ignorandolo durante il giro delle capitali arabe. In questo quadro, l'attacco militare di Netanyahu all'Iran ha tutta l'aria di essere stato mirato (anche) alla rottura del gioco negoziale di Trump: un modo per mettere gli USA di fronte al fatto compiuto e nella necessità di doversi allineare ad Israele.
Trump, “avvisato” ma non coinvolto, ha inizialmente abbozzato. Poi ha proposto alla Russia un ruolo di mediazione per disinnescare il conflitto nel nome della de-escalation, alludendo allo scambio tra una capitolazione iraniana sotto pressione di Putin e un ulteriore semaforo verde alla guerra di Putin in Ucraina. Poi ha lodato lo «spettacolare successo militare» israeliano. Infine ha scelto di condividere questo successo con i propri bombardieri. Fino a quando e per cosa? Per puntare ad un cambio di regime in Iran sotto la pressione della guerra, magari contando su possibili defezioni e ricollocazioni di una parte dei pasadaran? Oppure per provare a riprendere in mano il negoziato interrotto con l'Iran, dopo aver provato ad Israele la propria fedeltà in guerra, e dunque con la speranza (non si sa se fondata) di uno spazio di manovra maggiore? Di certo, lo spartito trumpiano dell'apertura globale all'imperialismo russo si concilia a fatica con la guerra all'Iran, che della Russia è alleato. L'incontro a Mosca del presidente iraniano con Putin è un messaggio per Trump.
LA DIFESA DELL'IRAN DA ISRAELE E USA.
CON UN PROGRAMMA DI RIVOLUZIONE
I prossimi giorni chiariranno. Resta il fatto fondamentale: tutte le trame di guerra e di “pace” in Medio Oriente tra i diversi briganti imperialisti e lo stato sionista avvengono sulla pelle dei popoli oppressi della regione. Innanzitutto della popolazione palestinese, ma più in generale di tutta la popolazione araba e persiana.
Lo stato sionista ha avuto l'impudicizia di appellarsi alla ribellione anti-Khamenei nel momento stesso in cui bombarda le città iraniane. Ma “donna, vita, libertà” non sarà mai un canto di guerra d'Israele, perchè è il grido della rivoluzione iraniana. Sono i lavoratori, le lavoratrici, la popolazione povera dell'Iran che hanno tutto il diritto di presentare il conto al regime odioso che li opprime. Non i bombardieri sionisti. Non lo stato coloniale genocida che da due anni sta massacrando il popolo di Palestina davanti agli occhi del mondo.
Difendere incondizionatamente l'Iran e la sua sovranità dall'attacco del mostro sionista/americano, e al tempo stesso battersi per la prospettiva di un governo operaio e contadino in Iran, non sono affatto parole d'ordine inconciliabili, né disegnano scansioni temporali. Sono due tasselli paralleli e complementari del posizionamento marxista rivoluzionario. Lo stesso posizionamento che tenemmo di fronte alla guerra imperialista contro l'Iraq del boia Saddam Hussein nel 2003, o alla guerra dell'imperialismo britannico contro l'Argentina del generale Galtieri nel lontano 1982.
Contro l'imperialismo e il sionismo, sempre e incondizionatamente. Con un programma di rivoluzione socialista: l'unico che può dare agli oppressi una pace vera e giusta.