Prima pagina

Una prima lettura del risultato referendario

10 Giugno 2025
referendum2025esito


Il risultato referendario, pur nella sua parzialità, è una cartina di tornasole dello scenario italiano. Di valenza politica e sindacale. Su questo esprimiamo una primissima valutazione di carattere generale, che segnala gli aspetti contraddittori del risultato ma soprattutto pone l'esigenza di una svolta generale di linea politica e sindacale del movimento operaio italiano. Lo facciamo con tanta più determinazione avendo partecipato, con una nostra autonoma impostazione, alla campagna referendaria per i cinque "sì".


LE CONTRADDIZIONI DI UN RISULTATO

1) Dodici milioni di voti a sostegno del "sì" sui temi del lavoro non sono in sé un dato irrilevante. Né lo è il 30% di partecipazione complessiva al voto. Tanto più considerando il fatto che il calcolo percentuale è fatto comprendendo tra gli aventi diritto gli italiani all'estero, spesso ignari dell'esistenza stessa del referendum. Una autentica truffa dal punto di vista democratico, taciuta e rimossa paradossalmente dagli stessi promotori del referendum, e non solo. Inoltre l'esclusione dalla partita referendaria, per decisione della Consulta, dell'Autonomia differenziata ha sicuramente ridimensionato l'afflusso al voto, com'era prevedibile, in particolare nel Sud (ma non solo). Così a loro volta i primi dati di domenica sull'affluenza hanno contribuito a ridurre ulteriormente la partecipazione.

2) Il voto raccoglie il grosso dell'elettorato di sinistra e di centrosinistra, senza scalfire la massa abnorme dell'astensione (secondo i sondaggi, il 58% dei lavoratori salariati alle ultime elezioni europee), e senza incidere sul blocco sociale ed elettorale della destra (tra cui un 39% di voto operaio sull'elettorato attivo per Fratelli d'Italia, sempre secondo i sondaggi). Nel complesso, i blocchi elettorali e i relativi rapporti di forza appaiono sostanzialmente intatti. Dopo due anni e mezzo di governo Meloni, la destra tiene la propria base sociale. Ma la pretesa della destra di intestarsi l'astensione come proprio consenso politico è abusivo. La destra tiene ma non è maggioranza nella società italiana. Se ha il 59% dei parlamentari a fronte del 44% dei voti (elezioni politiche del 2022) è grazie ad una legge elettorale varata dal PD, il "Rosatellum". Ciò che nessuno ricorda.

3) La distribuzione geografica e territoriale del voto ricalca l'articolazione interna dei due principali blocchi elettorali. I fenomeni di passivizzazione conoscono un'espressione particolarmente concentrata nel Meridione, nei piccoli centri, nella provincia profonda. Che sono anche, in linea generale, il principale bacino della destra. Mentre le grandi città nel loro complesso rivelano una maggiore sensibilità sociale e democratica. Significa che la città non egemonizza la provincia, e che quest'ultima continua a fare da zavorra.

4) Mentre il voto sui quesiti del lavoro raccoglie al proprio interno oltre un 80% di consenso al "sì" (attorno ai 12 milioni di voti), il 35% per il "no" sul quesito della cittadinanza (quasi 5 milioni di voti) riflette la perdurante influenza di posizioni e pregiudizi reazionari sul tema dell'immigrazione all'interno della stessa base elettorale del centrosinistra. Un fatto eloquente. Un riflesso della presa della destra sul senso comune di ampi settori popolari. Ma anche delle politiche del centrosinistra.


UN BILANCIO DI VERITÀ. L'ESIGENZA CENTRALE DI UNA SVOLTA

Questi primi elementi di osservazione richiamano l'esigenza di un bilancio, e soprattutto di un cambio radicale di prospettiva.

La gestione della campagna referendaria da parte dei suoi promotori è stata un riflesso della loro natura. Il PD liberalprogressista ha dovuto contorcersi per motivare la richiesta di abrogazione di misure come il Jobs act, che aveva votato e varato. Il M5S contiano ha pensato bene di dissociarsi sul quesito relativo alla cittadinanza, avendo coltivato nel tempo politiche anti-immigrazione (la denuncia dei «taxi del mare»). Senza potersi ancorare per loro natura a contenuti di classe, PD e M5S hanno condotto essenzialmente una campagna referendaria “contro la destra”, incapace di incunearsi nel suo blocco sociale.
La burocrazia CGIL, con Maurizio Landini, ha fatto in un certo senso l'opposto: si è richiamato giustamente alla centralità dei contenuti sociali dei quesiti ma dicendo che non erano contro il governo e la destra, con l'idea che spoliticizzare la campagna potesse allargare la sua presa.
Il risultato smentisce il combinato disposto di entrambe le impostazionien; mentre le contraddizioni passate e presenti del campo referendario hanno fornito armi preziose alla speculazione delle destre («il referendum è una lotta interna alla sinistra pagata dagli italiani»). La loro volontà di intestarsi politicamente l'astensione, per quanto abusiva, è stata parte di questa operazione.

Detto questo, il risultato non riflette tanto la gestione della campagna referendaria quanto i processi di più lungo corso. Processi inseparabili dalla linea generale delle direzioni del movimento operaio e sindacale.
La passivizzazione della maggioranza dei salariati, combinata con l'influenza delle destre nelle loro file, è il prodotto di una lunga stagione di subalternità e di compromissione, per responsabilità della sinistra politica sindacale. È il deposito di mezzo secolo. Non puoi pensare di dissolverlo e neppure di scuoterlo con una pura iniziativa di carattere referendario nei fatti concepita come surrogato della mobilitazione.
La stessa storia delle campagne referendarie dimostra che i risultati vincenti sono sempre stati un sottoprodotto, diretto o indiretto, di grandi mobilitazioni. Così fu per il divorzio (1974) e l'aborto (1981), così fu in un contesto diverso per la stessa vittoria referendaria sull'acqua pubblica nel 2011, sullo sfondo di un'ampia mobilitazione contro il governo Berlusconi. I referendum dell'8 e 9 giugno, invece, nonostante il loro carattere progressivo, avevano al piede la zavorra di una prolungata passività dell'azione sindacale, più che decennale, sul terreno della lotta di classe: nessuna piattaforma generale riconoscibile, nessuna unificazione di lotta delle centinaia di vertenze delle aziende in crisi, nessuna unificazione sul terreno delle vertenze contrattuali di categoria, nessuna azione di sciopero vero mirata ad incidere realmente sui rapporti di forza. Il fatto che la destra e/o i fautori del "no" abbiano contrapposto ai referendum il tema del salario («il problema oggi non è il Jobs act ma il fatto che i lavoratori non arrivano a fine mese...») non misura solamente la loro sconfinata ipocrisia, ma anche la mancanza di una battaglia salariale unificante, e di una piattaforma generale che la comprenda.

Tutto ciò ha conseguenze anche sul piano democratico. È vero, la CGIL si è pronunciata contro l'infame decreto sicurezza anche con manifestazioni e presidi. Ma senza legare la sacrosanta battaglia democratica alle ragioni di uno scontro sociale vero, nelle sue ragioni di classe riconoscibili e nelle sue forme d'azione, la stessa battaglia democratica non riesce ad incidere sul senso comune di massa. Il fatto che oggi i sondaggi ci dicano che il decreto sicurezza ha un consenso del 70% (!) nonostante il suo contenuto arcireazionario lo dimostra in modo drammatico.
Così la stessa ricomposizione di un blocco sociale alternativo, che recuperi le grandi masse del Mezzogiorno, è impensabile senza una piattaforma sociale unificante che connetta la classe operaia con la più larga massa della popolazione povera: il fatto che i sindacati abbiano subito senza una reale azione di lotta la cancellazione del reddito di cittadinanza (al di là della rituale critica nei talk show) è corresponsabile della passivizzazione nel Sud.
Lo stesso vale, infine, sul tema cruciale dell'immigrazione: senza un approccio di classe alla questione, che parta dall'organizzazione diretta dei salariati immigrati, e che comprenda i diritti dei migranti dentro una piattaforma di lotta unificante, il richiamo democratico resta più debole della semplificazione reazionaria, anche all'interno della classe lavoratrice («arrivano in massa, ci tolgono il lavoro, ci comprimono i salari...»).


“RIPARTIRE”: IN CHE MODO E PER ANDARE DOVE?

Landini ora dice che occorre ripartire dai milioni di "sì". Ma in che modo, e per andare dove? L'idea di recuperare l'esperienza della cosiddetta “coalizione sociale” di sette anni fa, cioè una rete di rapporti di vertice con diverse associazioni laiche e cattoliche progressiste, può forse servire alla burocrazia CGIL e al suo peso negoziale nel rapporto col centrosinistra, ma non serve al movimento operaio e sindacale. Ciò che serve è l'apertura di una vertenza generale vera, che rompa gli argini della pace sociale, e punti ad unificare realmente sul terreno della lotta i 18 milioni di salariati, e attorno a essi un più vasto blocco sociale alternativo. Senza lavorare a questa svolta generale non si sviluppa la coscienza della classe, non si scuote l'indifferenza, la passività, la demoralizzazione. Tanto meno si disgrega il blocco sociale della destra.

Solo una rivolta sociale vera, non solo declamata, può aprire dal basso una pagina nuova, ed anche strappare risultati parziali. È con questa linea di intervento che il PCL ha partecipato alla campagna dei cinque "sì", fuori da ogni illusione istituzionale. È con questa proposta che daremo battaglia nei sindacati di classe, tra i lavoratori e le lavoratrici, nella giovane generazione proletaria.

Ma battersi per questa svolta significa battersi per un'altra direzione del movimento operaio sul piano sia sindacale che politico. Milioni di lavoratori e lavoratrici sono senza una propria rappresentanza politica autonoma. Il rifiuto di Landini di rompere coi partiti borghesi di centrosinistra e di costruire un autonomo partito del lavoro concorre a questa privazione di rappresentanza. Occorre battersi per svilupparla.

Va costruito un partito indipendente della classe lavoratrice tanto radicale quanto sanno essere i partiti padronali a difesa della loro classe. Un partito che riconduca ogni battaglia immediata alla prospettiva di un'alternativa di società, nella quale a comandare siano i lavoratori e non i capitalisti. Un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, unica vera alternativa.

Il PCL si batte ogni giorno per la costruzione di questo partito, assieme ai marxisti rivoluzionari di tutto il mondo.

Partito Comunista dei Lavoratori

CONDIVIDI

FONTE