Interventi
Sulla figura di Gramsci
9 Giugno 2025
Risposta al compagno Gino Candreva
Il compagno Gino Candreva ha recentemente pubblicato sul nostro sito, su richiesta della sua redazione, un testo di inquadramento della figura di Antonio Gramsci con particolare riferimento alla fase della cosiddetta “bolscevizzazione” dei partiti comunisti da parte del Comintern negli anni 1924-1925. Condivido diverse notazioni del testo, ma non la sostanza della caratterizzazione di Gramsci che esso propone. Mi pare quindi corretto presentare la diversa opinione che il PCL ha sinora sostenuto sull'argomento. Nel pieno rispetto ovviamente della legittimità delle posizioni del compagno Candreva e del contributo che ha inteso portare.
In buona sostanza, ed in estrema sintesi, il compagno Candreva, sostiene quanto segue.
1) La bolscevizzazione dei partiti comunisti fu l'avvio della stalinizzazione del Comintern. Dal 1924 al 1926 Gramsci appoggiò la stalinizzazione in funzione della propria battaglia contro Bordiga in Italia.
2) Il terzo Congresso del Partito Comunista d'Italia (PCd'I) e le Tesi di Lione hanno confermato la «trasformazione del PCI da partito rivoluzionario a partito stalinizzato». In questo senso rappresentano «la porta della degenerazione riformista del PCI attraverso il breve interregno centrista di Gramsci.».
3) La lettera dell'ottobre 1926 rivolta da Gramsci e dall'Ufficio Politico del PCd'I al Comitato Centrale del Partito Bolscevico ribadisce l'adesione di Gramsci alla maggioranza staliniana
Credo che questa rappresentazione, complessivamente intesa, sia sbagliata: un avallo alla lettura bordighista della storia del PCd'I degli anni '20, e paradossalmente proprio per questo una involontaria legittimazione della visione di Gramsci quale precursore del togliattismo su cui ha campato la storiografia del PCI per più di mezzo secolo.
LA “BOLSCEVIZZAZIONE ZINOVIEVISTA” E L'ERRORE DI GRAMSCI
Naturalmente in ogni rappresentazione sbagliata si incontrano elementi di verità. È vero: la bolscevizzazione del 1924-'25 fu l'avvio della normalizzazione burocratica dei partiti comunisti in funzione della loro subordinazione alla maggioranza dirigente del Partito Bolscevico (in quella fase Zinoviev, Kamenev, Stalin) nella sua lotta contro Trotsky e l'Opposizione di sinistra. Ed è vero che Gramsci, che pur nel 1923 e nei primissimi mesi del 1924, come riconosce il compagno Candreva, aveva apertamente difeso le ragioni di Trotsky (sul Nuovo Corso, sul fallimento della rivoluzione tedesca, sulla stessa lettura della Rivoluzione d'ottobre come rivoluzione permanente...), a partire dal maggio 1924 svoltò rapidamente a favore della troika Zinoviev-Kamenev-Stalin, in funzione della propria lotta contro Bordiga (schieratosi internazionalmente con Trotsky). I metodi amministrativi usati da Gramsci contro la minoranza bordighista (che si era costituita in frazione come Comitato d'Intesa) furono sbagliati e inaccettabili da un punto di vista leninista. E così diversi argomenti che li accompagnarono, come ad esempio l'esaltazione dell'unanimismo. Più in generale, il grande errore politico di Gramsci in quegli anni, e la sua obiettiva responsabilità, fu quello di illudersi di poter tenere il PCd'I al riparo delle “controversie russe”, al fine di guadagnare tempo e consolidare il partito italiano. Un calcolo tragicamente sbagliato. Non siamo tra coloro che vogliono rimuovere o minimizzare questi gravi errori e responsabilità di Gramsci, come hanno fatto e fanno alcune correnti del trotskismo internazionale (PTS-FT) nel nome di una sua sacralizzazione ideologica.
Ma chi vede solo un lato della verità finisce col darne una rappresentazione ideologica distorta. È bene allora riassumere la parabola di Gramsci in tutta la sua complessità e contraddittorietà.
LA PARABOLA DI GRAMSCI, DA BORDIGA A LENIN
A capo della corrente torinese di Ordine Nuovo, il giovane Antonio Gramsci esaltò la Rivoluzione d'ottobre come affermazione della democrazia sovietica. Tutta l'esperienza dei consigli di fabbrica nel corso del Biennio rosso (1919-1920) consolidò il riferimento di Gramsci al bolscevismo e al potere dei soviet. È vero che nel Gramsci consiliarista del Biennio rosso ci fu una sottovalutazione della questione partito (ciò che Gramsci riconoscerà successivamente). È vero che fu Bordiga e non Gramsci a guidare la scissione del Partito Socialista. È vero che fu Bordiga e non Gramsci il primo fondatore del Partito Comunista d'Italia a Livorno. Ma Bordiga era portatore di una visione dottrinaria e ideologica, di fatto mutuata dalla tradizione del massimalismo italiano, profondamente estranea a Lenin: il quale infatti ingaggiò assieme a Trotsky una polemica durissima contro il bordighismo (rifiuto del fronte unico, delle rivendicazioni transitorie, dell'uso rivoluzionario del parlamentarismo, della parola d'ordine del governo operaio) in occasione del terzo e del quarto Congresso (1921-1922) della Terza Internazionale. Del resto, non a caso ancor prima della fondazione del PCd'I Lenin aveva citato l'Ordine Nuovo di Gramsci e non Bordiga quale riferimento esemplare del bolscevismo in Italia.
Gramsci commise l'errore di subordinarsi a Bordiga nei primi due anni del PCd'I, votando le sue Tesi di Roma del 1922 (rifiuto della conquista della maggioranza del proletariato) e avallando passivamente gli errori pesanti che ne derivarono, come il rigetto del fronte unico. Anche se Gramsci, come riconoscerà Trotsky tanti anni dopo, fu l'unico dirigente del Partito Comunista d'Italia, in quella fase drammatica, a interrogarsi seriamente sulla natura nuova della reazione fascista, e a considerare possibile la sua affermazione, a fronte della totale incomprensione bordighiana. Non a caso Gramsci si differenziò dal radicale rifiuto degli Arditi del Popolo da parte di Bordiga.
Certo è che nel 1923 la rottura di Gramsci con Bordiga e l'apertura di una lotta interna al partito per un suo cambio di direzione fu un fatto progressivo di enorme importanza politica per il marxismo rivoluzionario in Italia. La rottura non avvenne sotto la pressione di Zinoviev e tanto meno di Stalin (all'epoca ancora figura del tutto marginale internazionalmente). Avvenne sotto la diretta pressione di Trotsky durante la permanenza di Gramsci in URSS. E avvenne nel segno della piena adesione di Gramsci al leninismo e alle conclusioni del quarto congresso dell'Internazionale Comunista. Quelle che Bordiga (da lì in poi il “bordighismo”) denunciò come l'inizio della degenerazione.
LA POLITICA DI GRAMSCI NELLA CRISI MATTEOTTI. LENINISMO CONTRO ZINOVIEVISMO
È vero, come già detto, che a partire dal 1924 Gramsci si appoggiò sulla troika Zinoviev-Kamenev-Stalin in funzione anti-Bordiga. Ma leggere le posizioni di Gramsci nella lotta politica in Italia tra il 1924 e il 1926 come un puro riflesso passivo della linea del Comintern è sbagliato. Significa ignorare una contraddizione profonda tra il PCd'I e il corso zinovievista varato dal quinto Congresso del Comintern.
Il quinto Congresso del Comintern – allora ancora diretto da Zinoviev e non da Stalin – aveva reagito alla sconfitta della rivoluzione tedesca del 1923, determinata dalla crisi della sua direzione nazionale e internazionale, con una svolta improvvisa apparentemente ultrasinistra (tesi di una collaborazione organica tra democrazia e fascismo, fronte unico solo dal basso, imminenza della crisi rivoluzionaria, tragiche sperimentazioni insurrezionali minoritarie in Bulgaria e in Estonia). Era il modo con cui Zinoviev, Presidente dell'Internazionale Comunista, cercava di allontanare da sé la responsabilità del fallimento tedesco e degli errori opportunistici che l'avevano accompagnato (che Trotsky aveva denunciato con le sue Lezioni dell'Ottobre, nel 1924). Una sorta di anticipazione in miniatura di quella che diverrà sotto Stalin la famosa politica del “terzo periodo” fra il 1929 e il 1933 (la teoria del socialfascismo), ma anche uno scimiottamento delle posizioni che Bordiga aveva assunto in polemica col terzo e quarto Congresso. Non a caso, proprio Amadeo Bordiga salutò le risoluzioni del quinto Congresso del Comintern come «un funerale di terza classe» della linea dei precedenti congressi. L'offerta di Zinoviev a Bordiga di un posto nell'Esecutivo del Comintern non era solo un tentativo di giubilarlo, come sostiene il compagno Candreva, ma anche la registrazione di un nuovo orientamento politico di fase. Magari nella speranza (vana) che Bordiga in cambio potesse allinearsi fosse pure in ritardo alla crociata internazionale antitrotskista.
Resta il fatto che la politica di Gramsci quale nuovo segretario del Partito Comunista d'Italia non fu affatto nel 1924-1925 una politica zinovievista. Al contrario. Nel corso dell'intera crisi Matteotti, in quel drammatico 1924, Gramsci diresse il partito su una linea sostanzialmente leninista. Non senza errori ma con una impostazione generale chiara: sviluppò la battaglia di egemonia sul terreno dell'antifascismo; sperimentò la politica del fronte unico (seppur con dei limiti); si diede uno spazio di manovra tattica verso il blocco dei partiti aventiniani senza perdere la propria indipendenza politica (partecipazione iniziale all'Aventino, rottura con l'Aventino dopo il rifiuto dello sciopero generale, ritorno in Parlamento con l'intervento di Repossi, rivendicazione sfida di un antiparlamento per smascherare la pavidità del blocco aventiniano persino sul terreno della battaglia democratica e antifascista). La ripresa politica del PCd'I nel 1924-'25, e al suo interno il progressivo consolidamento dell'egemonia gramsciana, furono anche un risvolto di questa politica nuova. Una politica dinamica, capace di mobilitare le energie del partito, estranea alla passività puramente propagandistica e suicida del bordighismo. Da questo punto di vista, la vittoria di Gramsci al terzo Congresso del partito a Lione nel 1926 non fu solo il prodotto dei metodi amministrativi usati contro il Comitato d'Intesa, come sostiene il compagno Candreva. Fu anche il riflesso della nuova politica di Gramsci, e della esperienza che ne aveva fatto il partito. Nonostante Zinoviev e il suo quinto Congresso.
IL CONGRESSO DI LIONE COME “STALINIZZAZIONE DEL PCd'I”?
Il compagno Candreva presenta il congresso di Lione del 1926 come «il punto d'arrivo del processo che aveva portato il centro di Gramsci [e Togliatti] a rompere con il leninismo per aderire alla direzione internazionale di Stalin-Zinoviev e il punto di passaggio per la stalinizzazione del PCI». La proibizione delle frazioni è assunta come la principale chiave di lettura del congresso. Le posizioni politiche e programmatiche delle Tesi sono giudicate ambigue, «oscillando tra la concezione leninista [del fronte unico] e una concezione frontepopulista». L'Assemblea repubblicana basata sui comitati operai e contadini è indicata come esemplificazione centrale «tutta la propaganda e l'agitazione del PCd'I», a riprova dell'incipiente «degenerazione riformista».
Trovo questa rappresentazione d'insieme profondamente sbagliata.
Considero intanto unilaterale l'angolazione di lettura prevalente che viene proposta (l'abolizione delle frazioni) e la parallela svalutazione del contenuto politico-programmatico delle Tesi. Trattandosi dell'ultimo testo elaborato da Gramsci prima della sua carcerazione, credo richieda una lettura più attenta.
L'abolizione delle frazioni va contestualizzata, come su un piano diverso l'analoga misura assunta dal Partito Bolscevico al X Congresso (1921). In entrambi i casi l'esperienza storica ha dimostrato l'erroneità di questa misura. Questo fatto è fuori discussione. Ma è quello di per sé il metro di misura prevalente della natura di un partito? È vero che nel caso del PCd'I del 1926, a differenza che nel Partito Bolscevico del 1921, l'abolizione delle frazioni non era concepita come misura temporanea ma come parte di una nuova concezione, che assolutizzava il regime interno bolscevico post-1921 (e soprattutto le sue involuzioni successive) e lo estendeva all'intero Comintern. Al tempo stesso, però, credo utile ricordare che l'abolizione delle frazioni si combinava – sia con Lenin nel 1921 che con Gramsci nel 1926 – con il diritto e il riconoscimento delle tendenze; che il congresso di Lione, nonostante i limiti imposti alla minoranza, aveva visto la presentazione di due documenti congressuali in contrapposizione; che Amadeo Bordiga ebbe a disposizione sette ore per presentare la propria piattaforma alternativa; che tutto questo avveniva sullo sfondo di un regime fascista che costringeva il partito alla clandestinità (il congresso si teneva a Lione non per caso); che infine il carattere organico della frazione bordighista su posizioni antileniniste ormai cristallizzate attorno alle immutabili tesi di Roma del 1922 rendeva in ogni caso problematica la sua relazione con la maggioranza, indipendentemente dall'assetto statutario formale.
Se si guarda l'insieme di questi elementi, si può dire che il livello di democrazia interno al PCd'I di Gramsci nel 1926, nonostante tutto, era sicuramente più elevato di quello ormai imperante in quegli anni in larga parte dei partiti del Comintern, a riprova delle particolarità della sezione italiana. Ciò che indirettamente sarà confermato dalla lettera di Gramsci al Comitato Centrale bolscevico dell'ottobre 1926, di cui dirò più avanti.
L'IMPOSTAZIONE POLITICA RIVOLUZIONARIA DELLE TESI DI LIONE
Ma il punto di osservazione prevalente su Lione non può che essere politico generale.
Il primo Congresso del PCd'I a Livorno (1921) aveva avuto essenzialmente un carattere fondativo e celebrativo. Il secondo Congresso (1922) era stato interamente dominato dall'impostazione ideologica del bordighismo, nella sua differenziazione dottrinaria dal leninismo (Tesi di Roma). Il terzo Congresso a Lione recava una duplice impronta, per quanto contraddittoria: da un lato, indubbiamente, la pressione della bolscevizzazione sul terreno dei metodi amministrativi interni; ma dall'altro la registrazione della svolta di impostazione politica impressa da Gramsci a partire dal 1924, nel segno della sua adesione al leninismo. Non vedere questo secondo aspetto credo rappresenti un errore.
Un errore in particolare è vedere nelle Tesi di Lione un'anticipazione del riformismo «frontepopulista» (una oscillazione «tra la concezione leninista e una concezione frontepopulista»). No. L'intero impianto delle Tesi è esattamente agli antipodi del frontepopulismo. Tutto l'asse analitico, politico, programmatico delle Tesi è incentrato sulla rivendicazione della rivoluzione socialista quale unica soluzione politica progressiva della crisi italiana. Ogni rivendicazione immediata doveva essere ricondotta a un obiettivo rivoluzionario. Il governo operaio e contadino è indicato come rivendicazione strategica centrale, cui finalizzare la politica del partito. Ogni prospettiva frontepopulista (come sarà declinata dieci anni dopo), ogni blocco con la borghesia democratica, viene esplicitamente denunciata nelle Tesi come pericolo “di destra” da cui guardarsi:
“...Il pericolo che si crei (nel partito) una tendenza di destra è collegato con la situazione generale del paese. La compressione stessa che il fascismo esercita tende ad alimentare la opinione che essendo il proletariato nella impossibilità di rovesciare rapidamente il regime, sia miglior tattica quella che porti, se non a un blocco borghese proletario per la eliminazione costituzionale del fascismo, ad una passività dell'avanguardia rivoluzionaria, a un non intervento attivo del partito comunista nella lotta politica immediata, onde permettere alla borghesia di servirsi del proletariato come massa di manovra elettorale contro il fascismo. Questo programma si presenta con la formula che il Partito Comunista deve essere “l'ala sinistra” di una opposizione di tutte le forze che cospirano all'abbattimento del regime fascista. Esso è l'espressione di un profondo pessimismo circa le capacità rivoluzionarie della classe lavoratrice... Il pericolo di destra deve essere combattuto con la propaganda ideologica, col contrapporre al programma di destra il programma rivoluzionario della classe operaia e del suo partito, e con mezzi disciplinari ordinari ogni qualvolta la necessità lo richieda.”
È difficile immaginare una posizione più dichiaratamente anti-frontepopulista di questa, e più nettamente contrapposta a quella che sarà in ben altra stagione la concezione politica togliattiana. Non a caso questo pericolo “di destra” viene attribuito nelle Tesi al «compagno Graziadei» e ai «tentativi di revisione del marxismo». Se le tesi di Lione hanno un limite, l'hanno in direzione esattamente opposta a quella individuata dal compagno Candreva. L'hanno in una traccia ideologica residuale di schematismo “ultrasinistro” nella stessa politica del fronte unico. Laddove ad esempio si parla della socialdemocrazia non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia. Una formulazione forse in parte dovuta ad una eredità zinovievista (quinto Congresso dell'IC). In ogni caso non sospettabile di frontepopulismo.
UNA FORZATURA INTERPRETATIVA
Il compagno Candreva indica in una centralità della battaglia contro la monarchia la chiave di lettura tendenzialmente frontepopulista delle Tesi. Ma anche in questo caso mi pare un'ardita forzatura interpretativa. È vero che in polemica con la passività propagandistica del bordighismo le Tesi evocano l'agitazione contro la monarchia. Ma l'impostazione che viene data a questa agitazione è molto significativa:
“La monarchia è uno dei puntelli del regime fascista. Essa è la forma statale del fascismo italiano... La mobilitazione antimonarchica delle masse della popolazione italiana è uno degli scopi che il Partito Comunista deve proporre. Essa servirà efficacemente a smascherare alcuni gruppi sedicenti antifascisti già coalizzati nell'Aventino. Essa deve però sempre essere condotta assieme con l'agitazione e con la lotta contro gli altri pilastri fondamentali del regime fascista, che sono la plutocrazia industriale e gli agrari. Nell'agitazione antimonarchica il problema della forma dello Stato sarà inoltre presentato dal Partito Comunista in connessione continua con il problema del contenuto di classe che i comunisti intendono dare allo Stato. Nel recente passato (giugno 1925) la connessione di questi problemi venne ottenuta dal partito ponendo a base della sua azione politica le parole d'ordine: Assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini; controllo operaio sull'industria; terra ai contadini”.
Quest'ultima formulazione era sbagliata, e Trotsky giustamente la criticherà, come ha ricordato il compagno Candreva. Ma nel corpo complessivo delle Tesi di Lione, come è del tutto evidente, non si trattava affatto della teorizzazione di una sorta di “tappa democratica”, quale sarà nella successiva traduzione che ne farà Togliatti durante la sua breve parentesi buchariniana (la dittatura democratica contrapposta alla dittatura proletaria). Voleva essere invece l'opposto: la riconduzione della agitazione antimonarchica (che il bordighismo assurdamente ignorava) alla prospettiva della rivoluzione socialista, contro ogni possibile egemonia democratico-borghese («i sedicenti antifascisti già coalizzati nell'Aventino») sulla classe lavoratrice. In altri termini, uno strumento di lotta per l'egemonia alternativa dei comunisti nella stessa battaglia democratica. Ciò è talmente vero che proprio l'ultima delle Tesi, la tesi 44, sgombera il campo da ogni eventuale lettura democratico-tappista della stessa formula del governo operaio e contadino:
“...Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d'ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell'interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato”.
Ciò che ricorda quasi letteralmente l'osservazione analoga di Lenin ai comunisti tedeschi del 1920.
LA LETTERA DELL'OTTOBRE 1926. LO SCONTRO DI GRAMSCI CON STALIN
Infine, sulla famosa lettera di Gramsci dell'ottobre 1926. L'interpretazione del compagno Candreva secondo cui si tratterebbe essenzialmente di una conferma da parte di Gramsci della propria adesione alla maggioranza stalinista credo distorca il significato obiettivo della lettera.
Gramsci era drammaticamente allarmato dalla prospettiva di scissione del Partito Bolscevico per mano di Stalin. Una preoccupazione non molto diversa da quella che aveva ispirato a suo tempo lo stesso testamento di Lenin contro Stalin (il pericolo della «scissione del nostro partito»). La preoccupazione di Gramsci, come dimostreranno i fatti, era più che fondata. L'iniziativa di una lettera sottoscritta (unanimemente) dall'Ufficio Politico del PCd'I italiano e rivolta al Comitato Centrale del Partito Bolscevico era già di per sé, tanto più in quel contesto, una iniziativa straordinaria. Non a caso unica nel suo genere nel movimento comunista internazionale dell'epoca. Non mirava a confermare una fedeltà di schieramento ma a scongiurare un dramma annunciato.
Il vero destinatario della lettera secondo ogni evidenza era Giuseppe Stalin. Se Gramsci chiedeva a Stalin di non stravincere è esattamente perché individuava e contestava lucidamente quella intenzione. È vero che la lettera ribadiva formalmente il sostegno alla maggioranza dirigente del partito russo, sulla scia dell'errore di posizionamento precedente, ed è vero che Gramsci la presentò a Togliatti come « requisitoria contro le opposizioni» per legittimarla. Ma se Gramsci disse questo fu per dare più forza al proprio appello all'unità del partito russo, massimizzando la pressione critica su Stalin.
La sostanza incontestabile della lettera era infatti il rifiuto dell'espulsione da parte di Stalin dell'opposizione di sinistra di Trotsky, Zinoviev, Kamenev riconosciuti non a caso da Gramsci come « nostri maestri». Un riconoscimento significativo proprio sulla bocca di Gramsci: perchè Trotsky era colui che lo aveva guadagnato al leninismo, staccandolo da Bordiga, e Zinoviev era il presidente del Comintern su cui Gramsci si era appoggiato (a torto) nella propria lotta contro il bordighismo. In ogni caso, erano loro agli occhi di Gramsci le vere autorità politiche che aveva riconosciuto nella frequentazione del Comintern. Non certo la macchia grigia di Stalin. E nulla, del resto, poteva apparire più insolente e provocatorio agli occhi di Stalin (nell'autunno del '26!) che presentare Trotsky come proprio maestro.
Peraltro il significato politico reale della lettera è tanto più confermato dalla sua mancata consegna da parte di Togliatti, allora a Mosca, dopo un consulto riservato con Bucharin. Dopo la ricollocazione di Zinoviev e Kamenev al fianco di Trotsky nella cosiddetta “opposizione unificata” del 1926 (che avrà vita breve), Bucharin era ormai il nuovo alleato di Stalin, e lo rimarrà sino al 1928. Se Bucharin chiese o consigliò a Togliatti il cestinamento della lettera era per non avere problemi con Stalin. E Togliatti a sua volta non voleva contraddire Bucharin, con cui aveva stretto un (breve) sodalizio.
L'iniziativa del gruppo dirigente di una sezione nazionale del Comintern che all'unanimità contestava con una lettera aperta le volontà scissioniste di Stalin, appellandosi all'intero gruppo dirigente bolscevico, poteva rappresentare nel 1926 un pericoloso precedente e fattore di contagio a danno di Stalin-Bucharin. Meglio dunque silenziarla. Di certo né Togliatti né Bucharin si sognarono di interpretare la lettera come conferma della fedeltà a Stalin da parte di Gramsci e del PCd'I. Ciò che obiettivamente andava contro ogni logica. La verità è che Togliatti già si muoveva come un disonesto uomo d'apparato senza principi, quale sarebbe stato per tutto il resto della sua vita politica, iscrivendosi direttamente a partire dal 1930 al peggiore bonapartismo staliniano. Gramsci restò invece, nonostante i suoi (gravi) errori, un dirigente rivoluzionario. L'«impressione penosissima» che Gramsci dichiarò alla lettura delle righe con cui Togliatti gli aveva motivato il rifiuto di consegnare la lettera misurava una distanza politica tra i due, direi persino antropologica, che non si sarebbe mai colmata. E che la carcerazione di Gramsci semmai approfondì. Ma non è il tema di questa nota.
ANTONIO GRAMSCI, UN MARXISTA RIVOLUZIONARIO
Per concludere. La questione di Gramsci è non da oggi un tema comprensibilmente dibattuto. Nazionalmente e internazionalmente. Nella nostra esperienza politica all'interno del movimento trotskista abbiamo incrociato in più occasioni letture e inquadramenti di segno opposto. Da un lato, l'esaltazione apologetica di Gramsci da parte della corrente Frazione Trotskista (PTS argentino), che non solo rimuove i suoi errori, ma assume Gramsci – oltre ogni misura – come geniale e insuperato innovatore del bolscevismo attraverso l'elaborazione dei Quaderni dal carcere: una elaborazione sicuramente ricca di spunti interessanti ma con diversi limiti, peraltro fortemente condizionati dalle costrizioni della censura fascista. Dall'altro, un antigramscismo ideologico come ad esempio nel caso di Jorge Altamira (allora massimo jefe del Partito Obrero argentino), che in polemica strumentale col PCL giunse a caratterizzare Gramsci come antileninista in quanto sostenitore del potere dei consigli. Ciò in totale contraddizione con la stessa natura programmatica del leninismo.
Per quanto ci riguarda, continuiamo a considerare Gramsci, al di là dei suoi errori e delle sue responsabilità, come un dirigente marxista rivoluzionario. Così come lo rivendicarono sempre i tre fondatori della corrente trotskista in Italia (Leonetti, Tresso, Ravazzoli) – metà dell'Ufficio Politico del PCd'I nel 1930 – in contrapposizione a Togliatti. Tre dirigenti rivoluzionari che erano stati con ruoli diversi compagni e sodali di Gramsci nella battaglia politica contro il bordighismo a Lione, e che furono espulsi da Togliatti in quanto trotskisti all'atto della sua adesione definitiva all'apparato di Stalin (1930). Fu, quella, la decapitazione del gruppo dirigente di Lione. Una decapitazione che Gramsci condannò dal carcere, assieme all'intero corso della politica staliniana del terzo periodo, a conferma non solo del proprio leninismo ma anche di un'altra concezione del partito.