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In memoria di Licia Rognini Pinelli
«La giustizia sta nel fatto che tutti sappiano la verità»
21 Novembre 2024
L’11 novembre scorso è venuta a mancare, a 96 anni, Licia Rognini, la moglie dell’anarchico milanese Giuseppe Pinelli, assassinato nella questura di Milano il 15 dicembre 1969, poco dopo la strage di piazza Fontana. I fatti sono forse fin troppo noti alle persone bene informate per ripeterli ancora. Del resto, sono stati precisati e arricchiti di dettagli in un numero elevato di libri che si sono andati accumulando negli ultimi cinquant’anni e passa.
Sin da subito, mentre il PCI diceva vagamente che bisognava fare «piena luce» sugli eventi, ci furono persone che capirono perfettamente e immediatamente il senso di quei fatti, riassumendoli nello slogan: «La strage è di stato, Pinelli assassinato». Il fatto che la morte del ferroviere anarchico non sia stata accidentale ma intenzionale e provocata non sarà mai ripetuto abbastanza, dato che ancora oggi accademici equilibristi, giornalisti complottisti nonché le cosiddette “istituzioni” cercano di seppellire la fin troppo chiara verità sotto una coltre di giri di parole.
Sbagliato credere che il commissario Calabresi avesse qualche responsabilità nella morte dell’anarchico, secondo lo storico Angelo Ventrone (vedi il suo libro Vogliamo tutto); Pinelli parzialmente colpevole, secondo Paolo Cucchiarelli e secondo un film infelicemente tratto dal suo libro; Pinelli «morto tragicamente», secondo una targa pateticamente messa dal comune di Milano in piazza Fontana, quando una targa ben più vecchia dice chiaramente «ucciso»; Pinelli «vittima di infamanti sospetti e di un’assurda fine» secondo Giorgio Napolitano (esperto di scuse a decenni di distanza dai fatti), senza però precisare di che fine si trattò e di chi la provocò.
In oltre cinquant’anni, Licia Rognini Pinelli non ha mai smesso di pretendere la verità sull’omicidio del marito, e per questo, anche adesso che non c’è più, rimane un esempio di dedizione, di coerenza e di coraggio, al di là delle specifiche appartenenze politiche.
«La giustizia sta nel fatto che tutti sappiano la verità», aveva detto, riferendosi al fatto che quella verità non è mai stata riconosciuta né sarà mai riconosciuta in un’aula di tribunale, dato che non si condannano i cittadini al di sopra di ogni sospetto. Eppure, Licia aveva dato allo stato borghese e ai suoi tribunali fin troppa fiducia, presentando diverse denunce sia per diffamazione (Calabresi e Guida avevano mentito incolpando Pinelli della strage, anzi c’erano prove certe secondo loro) sia per omicidio. Tutte denunce puntualmente archiviate.
Se da un lato i cosiddetti “servitori dello stato” possono evidentemente dire tutto quello che vogliono, il capolavoro di ipocrisia lo raggiunse il giudice Gherardo D’Ambrosio nel 1975, inventandosi di sana pianta il famoso «malore attivo» (per la verità, la sentenza contiene un’espressione ancora più contorta), che avrebbe fatto saltare l’anarchico dalla finestra, anziché farlo accasciare per terra. Forse non è un caso che fosse un magistrato molto vicino al PCI di Berlinguer, e che in seguito definì «inutile» riaprire l’inchiesta su piazza Fontana, causando così la rabbia dei parenti delle vittime.
Secondo il libro da lei scritto assieme a Piero Scaramucci (Una storia quasi soltanto mia), Licia rimase sgomenta apprendendo dell’uccisione di Calabresi nel 1972: evidentemente, non credeva nella giustizia sommaria. Né credette mai al processo farsa contro Adriano Sofri e altri militanti di Lotta Continua, ingiustamente condannati con un procedimento assurdo che è stato smontato pezzo per pezzo da Carlo Ginzburg (vedi il libro Il giudice e lo storico). Evidentemente, era necessaria una vendetta simbolica contro qualcuno che si era particolarmente impegnato per far venire a galla la verità.
Che attinenza hanno questi fatti del passato con il presente? Non si tratta solo di fare una doverosa opera di memoria e di ricostruzione storica: quando lo stato borghese si difende in modo maldestro, infatti, ottiene degli strascichi fra il tragico e il comico, anche a distanza di moltissimi anni. Ultimo esempio può essere quello di Lello Valitutti, l’anarchico milanese fermato in questura la notte dell’omicidio di Pinelli, e che ha sempre ripetuto che Calabresi si trovava nella stessa stanza quando Pinelli fu buttato giù. Ora, all’età di 77 anni, in sedia a rotelle, con un rene solo e gravemente malato, è stato condannato agli arresti domiciliari per delle dichiarazioni sul caso Cospito (1).
Adesso che Licia non c’è più, non resta che seguire il suo esempio di coerenza, coraggio e caparbietà.
(1) https://www.osservatoriorepressione.info/lello-valitutti-lanarchico-non-si-piega-mai-giudici-arrestano/