Interventi

Familia e il patriarcato

18 Novembre 2024

Recensione al film Familia di Francesco Costabile

familia


Altre volte sulle pagine del nostro sito sono comparsi commenti su film del passato e del presente dove cerchiamo di sottolineare importanti messaggi politici. Un film recentissimo che merita un commento è, secondo noi, Familia, il secondo film del regista Francesco Costabile che ha appena riscosso un buon successo di pubblico e di critica a Venezia. La buona qualità del film non deve stupire dato che uno degli sceneggiatori è Adriano Chiarelli, il quale da scrittore coraggioso ha in passato affrontato un tema difficile come quello degli omicidi di polizia (nel suo libro Malapolizia, Roma, Newton Compton, 2011), e che a causa del suo coraggio ha anche avuto delle conseguenze spiacevoli (Chiarelli è anche autore di Capitan Selfie, un paradossale libro di dichiarazioni di Matteo Salvini).

A livello tecnico, il film mostra un uso sapiente della colonna sonora e del suono in generale, ma la sua importanza non è certo limitata alle qualità tecniche. Il film, ispirato a fatti realmente accaduti, racconta la storia di Luigi Celeste, un giovane il quale nel 2008 uccise suo padre (interpretato nel film da Francesco Di Leva), un patriarca violento che aveva letteralmente rovinato la vita sua, del fratello e della madre. Grazie a Non una di meno e più in generale a una rinascita del movimento femminista negli ultimi anni, si parla sempre di più di violenza sulle donne e di femminicidi, e quello di Costabile non è certo il primo film sull’argomento. Eppure, si trovano nel film diverse cose che non ci si aspetterebbe. Una scelta saggia e forte è stata quella di far vedere relativamente poche scene di violenza fisica, a prova del fatto che la violenza patriarcale non si riduce a quello, ma è fatta di ricatti morali, violenza psicologica, paura, rapporti morbosi e soprusi continui e quotidiani. Esempi sono la gelosia patologica del marito-patriarca che non permette alla moglie di lavorare (sul posto di lavoro non può incontrare altri uomini?), o che pretende addirittura di decidere che vestiti deve indossare la moglie, compresa la biancheria.

Alcune cose della trama sono certamente prevedibili, come la donna che erroneamente concede altre possibilità al compagno dopo che egli si è comportato in modo violentissimo (addirittura rompendole tutti i denti), dopo che ha ricevuto un ordine di allontanamento e dopo che a causa di ciò i due figli hanno dovuto vivere quattro anni in una casa-famiglia, separati sia dal padre sia dalla madre. A quante donne succede la stessa cosa, quante non trovano la forza o l’aiuto necessario per ribellarsi? Il comportamento del padre spinge anche il protagonista Luigi a frequentare un gruppo neofascista, dove deve addirittura imparare a memoria le regole della Decima Mas. Proprio in quanto neofascista, Luigi durante uno scontro accoltella un militante di sinistra e finisce per questo in carcere per nove mesi. Anche il fatto che il patriarca sia un uomo che esce ed entra di galera per rapina e simili reati può non sembrare strano.

Quello che invece pare strano è interessante è la fine del film. Ispirandosi anche alla realtà, che fine ci aspetteremmo da un film del genere? Un fin troppo credibile femminicidio, un lieto fine dove la donna vive serena, magari con un altro uomo? O magari un finale comunque tragico, dove la donna ha la vita rovinata e non sa dove andrà a parare? In Familia niente di tutto questo. In Familia, dopo innumerevoli tentativi di educare il patriarca violento, i figli si rendono conto che è tutto inutile: non cambierà mai. Ma ancora più inquietante è che è il patriarca stesso ad ammetterlo: «Sono fatto così, non posso cambiare». Alla fine, il figlio Luigi dice chiaramente che allora è il padre a essere fatto male, e cerca di buttarlo fuori di casa per l’ennesima volta (badando bene di impossessarsi del coltello col quale il padre l’aveva minacciato).

Quando anche dopo questo ultimo tentativo il padre resta imperterrito in casa, è paradossalmente lui a chiedere al figlio di ucciderlo. In un attimo di lucidità, il patriarca sembra rendersi conto: «Io non posso cambiare, non posso andarmene, se resto continuerò a comportarmi come se voi moglie e figli foste di mia proprietà. Se vuoi risolvere la situazione, puoi solo uccidermi». Ed è quello che Luigi fa, utilizzando lo stesso coltello sequestrato al padre.

È interessante che la morte del patriarca sembra essere considerata una necessità per quanto dolorosa. Luigi e il fratello Alessandro non spargono una lacrima. La madre piange, ma sembra sia più per la coscienza del fatto che il figlio finirà in prigione per molti anni. Non appena gettato il coltello lordo del sangue del patriarca, Luigi dice semplicemente: «Aspettate a chiamare la polizia, voglio salutare la mia fidanzata». Ed è quello che Luigi fa, consegnandosi subito dopo alla polizia.

Subito dopo essere portato via, compare l’immagine di Luigi bambino, e questo fa forse pensare che con questa tragica necessità il protagonista ha definitivamente fatto i conti con l’infanzia. La nostra interpretazione è che Familia sia un film contro il patriarcato, nel suo senso più pieno e terribile. Notare bene che c’è una differenza fra patriarcato e il semplice maschilismo. Mentre il maschilismo può essere mostrato da qualunque uomo verso qualunque donna, il patriarcato è il potere autoritario e assoluto del pater familias verso la moglie e verso la prole, considerati come una sua proprietà personale.

È un rapporto malato e purtroppo non ancora estinto, nel quale il padre padrone mescola l’autoritarismo e l’arroganza ai ricatti morali, alle espressioni sentimentali e strappalacrime da libro Cuore: io sono tuo padre e ti voglio bene, pertanto mi devi portare rispetto; l’uomo sono io; il marito sono io; sono io che porto i pantaloni (e non è un caso che anche nel film sentiamo frasi simili). Naturalmente ci auguriamo che situazioni simili si risolvano il più possibile in modo incruento. Il messaggio finale del film, però, al di là della generale e forte denuncia del patriarcato, è forse il diritto-dovere all’autodifesa. Sì, anche dai padri padroni, dai patriarchi e dai pater familias.

Elia Spina

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