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Storia del colonialismo sionista (II)

Dall'ondata colonizzatrice degli anni '30 al Massacro di Tel al-Zaatar

17 Ottobre 2024

Seconda parte

fondazioneisraele


ANNI '30-'40

Tra il 1932 e il 1935 la colonizzazione si fa ancora più massiccia, con l’arrivo di decine di migliaia di coloni sionisti, un contributo pesante nel modificare le condizioni demografiche del paese, che spinge i palestinesi a fondare nuovi partiti anticolonialisti (già erano stati fondati alcuni movimenti in precedenza, ma come detto hanno avuto vita difficile) come l’Istiqlal, perseguito e messo fuorilegge dagli inglesi. Nel 1936 si arriva a uno sciopero generale dei palestinesi contro il mandato britannico e l’occupazione sionista, sciopero che si trasforma in un’insurrezione repressa da britannici e sionisti, durata comunque fino al 1939 e capace di spingere la popolazione a creare istituzioni parallele e in antitesi a quelle del regime.
In questo periodo, il liberale bielorusso Chaim Weizmann (futuro primo presidente israeliano e mente del partito dei Sionisti Generali, partito predecessore del Likud), presentando il dossier dell’Organizzazione Sionista Mondiale, si impegna in un vivace discorso dove reclama l’attuazione degli accordi di Balfour da parte dei britannici e in curiose affermazioni come “Vogliamo costruire nella Terra d’Israele qualcosa che sia tanto ebraico quanto l’Inghilterra è inglese”, e affermando che il nazionalismo arabo è “un’ideologia presa in prestito dall’Europa e che non ha posto in Palestina”.

Già, evidentemente quel posto doveva spettare al nazionalismo colonialista sionista, che come ben si sa è un’ideologia che trae le sue origini dalle isole Palau. Per l'appunto, poi, alcune delle forze sioniste, i militanti dell’Irgun e dell’Haganah, in questo periodo, si uniranno alla repressione della grande rivolta anticoloniale araba, formando speciali corpi polizieschi approvati dalle autorità. La repressione è feroce, tra esecuzioni sommarie, multe collettive, stupri e raid punitivi contro i villaggi arabi, mentre l’Irgun, con l’approvazione del leader revisionista Žabotinskij s’impegna in attentati contro mercati e spazi affollati, assassinando peraltro per errore anche ebrei.

Le élites arabe, con tutti i loro limiti e dipendenze feudali, non erano tecnicamente contrarie alla presenza della popolazione ebraica in Palestina, e solitamente erano a favore di una qualche forma di autonomia nei confronti della minoranza, o quantomeno del suo riconoscimento. A discapito di ciò, talvolta si sente parlare della collaborazione tra palestinesi e nazisti: ciò è effettivamente avvenuto, anche se certo non si può affermare che un intero popolo fosse filonazista. Molti tendono a dimenticare che all’interno delle nazioni, anche quelle più compatte dal punto di vista ideologico, esistono sfumature e dissidenze rispetto alle posizioni maggioritarie all’interno delle élite. La sfumatura in questo caso era rappresentata dal reazionario e feudale mufti di Gerusalemme, designato dagli inglesi, Amin al-Husseini, che si alleò ai nazisti più per calcolo politico che per reale aderenza all’ideologia fascista, cui finì comunque per adeguarsi. Non è un fenomeno poi così eccezionale o bizzarro: in numerosi popoli oppressi dalle potenze coloniali, o dall’Unione Sovietica stalinizzata, si sono verificati casi di collusione col nazismo, con l’intento di approfittare delle ostilità belliche per liberare la propria nazione. Questo è valso per i circassi, per i bretoni, per gli armeni, per i fiamminghi del Westhoek in Francia, per i popoli del subcontinente indiano e tanti altri ancora. Francamente, è da ritenersi molto stupido l'affibbiare patentini di fascismo ai palestinesi o ad altri popoli per questo motivo: primo, perché non dobbiamo dimenticarci che anche se ovviamente queste formazioni filofasciste vanno combattute e denunciate, la loro nascita è frutto e causa della mancata risoluzione in positivo della questione nazionale in quei territori; secondo, perché condannare un popolo e il suo diritto all'autodeterminazione sulla base di alcuni, o anche tutti, i partiti e movimenti alla testa della rivolta è puerile, visto che il diritto alla liberazione nazionale prescinde da Hamas per i palestinesi, dagli islamisti del Califfato per i ceceni, dalla brigata Azov per gli ucraini o dagli sciovinisti nazionalisti per gli armeni. Una nazione, intesa come comunità dotata di un determinato territorio, lingua e cultura, ha diritto all’esistenza a prescindere dal fatto che le sue élite politiche abbiano tendenze reazionarie.

In ogni caso, c’è stato un altro tipo di filonazisti assai peculiari e perlopiù dimenticati: parliamo di una parte del movimento sionista! Certo, alcuni gruppi sionisti fascisti, come il Brit Ha'Birionim, erano ostili alle politiche antisemite hitleriane; altri gruppi ostili al sionismo, invece, già nel 1933 fraternizzavano con i nazisti (in particolare le associazioni piccolo-borghesi reazionarie Verband nationaldeutscher Juden e Der deutsche Vortrupp), mentre altri stringevano accordi con essi, come l’accordo dell’Haavara, che coinvolgeva l’Agenzia Ebraica, la Federazione sionista tedesca, la Banca anglo-palestinese e le autorità della Germania nazista (l'accordo prevedeva lo spostamento di parte della popolazione ebraica benestante in Palestina, con i loro beni che venivano convertiti in prodotti industriali d’esportazione in Palestina).
Persino nel pieno svolgimento del genocidio degli Ebrei, gruppi come il Lehi (più famoso col nome di Banda Stern) hanno proposto ai nazisti di combattere attivamente al loro fianco in cambio del sostegno tedesco alla formazione di uno Stato ebraico totalitario connesso con il Reich tedesco.
Questo riguardava un’infima minoranza di chi aderiva alla fede ebraica nel suo complesso, ma nello specifico ha riguardato importanti dirigenti del movimento sionista (che ricordiamo non essere sostenuto dalla popolazione ebraica in toto). Alcuni sternisti sono diventati dirigenti israeliani, come Menahem Begin e Itzak Shamir, entrambi giunti a ottenere il ruolo di primo ministro (Begin è stato persino insignito del Nobel per la Pace). Impara l’arte e mettila da parte, insomma. Altri, come Chaim Weizmann, futuro presidente israeliano e coautore della dichiarazione di Balfour, si è discostato da questi figuri, ma non per particolari scrupoli progressisti, bensì perché il Regno Unito stava porgendo la Palestina su un piatto d’argento ai sionisti.

I britannici fiuteranno serie grane, perché le violenze e la colonizzazione sionista cominciavano a suscitare grossi problemi e intense agitazioni tra i palestinesi, capaci di innescare una scintilla di rivolta su larga scala, e così istituiscono la Commissione Peel e ipotizzano la spartizione del territorio tra sionisti e palestinesi, piano poi ripreso dalle Nazioni Unite.
La collaborazione degli arabi, peraltro, è fondamentale nel corso del secondo conflitto mondiale, sicuramente più utile di quella dei sionisti. Verranno addirittura negati i piani di spartizione e di affiancamento del colonialismo sionista per contribuire a far gravitare gli arabi nella propria sfera militare. Il Congresso Sionista risponde nel 1942 ponendosi sotto la tutela degli Stati Uniti e reclamando l’esecuzione del proprio progetto e l’immigrazione illimitata in Palestina.

Ciò effettivamente avrà luogo col finire della Seconda guerra mondiale, anche facendo perno sulla tragedia della Shoah per coprire le azioni armate dei coloni in Palestina. Come accennato in precedenza, nel 1921 era stato fondato il gruppo paramilitare dell’Haganah, addestrato dagli inglesi, da cui successivamente sono sorti i reazionari Irgun nel 1931 (come scissione pilotata da Avraham Tehomi, causata dalla “moderazione” dimostrata nei confronti degli arabi; il nome completo era Irgun Zvai Leumi. La giovanile sionista espressione della destra revisionista di Žabotinskij, il Betar, si assocerà al movimento nel 1935) e la Banda Stern nel 1939 (Lehi, scissionisti dell’Irgun perché in disaccordo con la collaborazione con gli imperialisti britannici avviata da questi.
Con la fine del periodo filonazista cominceranno a sviluppare delle analisi più spinte verso la sinistra e l'antimperialismo, avvicinandosi anche all'Unione Sovietica stalinista – senza comunque giungere alle logiche conseguenze cui questo percorso li avrebbe dovuti condurre, cioè la rinuncia al sionismo e la lotta anticapitalista a fianco degli arabi – e ricercando al contempo le simpatie francesi), che attaccheranno chiunque: musulmani, cristiani e anche diversi ebrei. Il fondatore della Banda Stern, Avraham Stern, verrà ucciso dai britannici in virtù delle sue collaborazioni equivoche e perché responsabile dell’assassinio del ministro inglese Moyne al Cairo nel 1944. A succedergli sarà un altro militante di origini polacche, Icchak Jaziernicki, detto Shamir, futuro primo ministro negli anni Ottanta.
La banda, insieme all’Irgun, guidato dal bielorusso e futuro capo del governo israeliano nel 1977, Menachem Begin, scatena una violentissima campagna contro i palestinesi. Questo spingerà la Gran Bretagna a emanare un ennesimo libro bianco sul tema nel 1946, e verrà persino redatta una lettera siglata da Hannah Arendt, da Einstein e da altri intellettuali ebrei per denunciare questo gruppo di terroristi fascisti. Gli interventi, però, in difesa dei palestinesi latitano, e gli stati imperialisti sostengono i coloni, che tramite i loro gruppi paramilitari attaccheranno e distruggeranno impuniti interi villaggi palestinesi e accampamenti di beduini, portando a un’escalation delle politiche di pulizia etnica e massacro.
Questo porta alla formazione di comitati di autodifesa palestinesi, repressi dagli inglesi e poco coordinati, in quanto le avanguardie erano state annichilite dalla repressione.

Viene proposta dalle Nazioni Unite, sulla base della precedente Commissione Peel, la spartizione della Palestina, ovviamente rifiutata dai palestinesi – peraltro non direttamente coinvolti in queste speculazioni – in quanto determinava la cessione di oltre metà del territorio a una popolazione di bellicosi occupanti che continuavano a essere una minoranza, anche se consistente. I sionisti invece accettarono, in quanto lo ritennero il primo passo per accaparrarsi l’intero paese, com’era stato stabilito dal Congresso Sionista del 1942.
I palestinesi presentarono all’ONU la proposta di uno stato laico e multinazionale, respinta dai coloni.

È un’immagine un po’ diversa da quella propagata dai media negli ultimi decenni, che vede i palestinesi sempre e pur sempre come terroristi ed estremisti religiosi e gli israeliani come una popolazione laica sotto assedio e in preda al terrore e al rischio di subire uno sterminio di massa.

Il Partito Laburista britannico nel 1944 invece non esita a mostrare in che miserabili condizioni politiche versi la socialdemocrazia: i laburisti rivendicano sostanzialmente una soluzione vicina al programma dei sionisti negli anni Venti, cioè incoraggiare la popolazione araba ad andarsene importando per converso popolazione ebraica, auspicando persino l’allargamento del territorio da destinarsi ai sionisti. Le loro posizioni cambieranno in parte, dovendo fronteggiare l’insoddisfazione delle masse arabe e il terrorismo sionista. Il Regno Unito, d’altronde, a fronte della disgregazione del suo impero, non era intenzionato ad abbandonare il dominio di quest’area strategica del Medio Oriente.

L’Haganah lanciò un vero e proprio piano di sterminio chiamato “Piano”, che intendeva “dearabizzare” il più possibile in vista della creazione dello stato d’Israele, annientando sistematicamente tutti i villaggi arabi "ostili". Fu adottato ufficialmente nel 1948 (ma il futuro viceministro Yigael Yadin iniziò a lavorarci nel 1944); teorizzò l’espansione dello stato sionista al di là della partizione proposta e la distruzione di tutti i villaggi palestinesi che avrebbero resistito a questo piano.

I piani di pulizia etnica sono iniziati prima della guerra mondiale, e questo è bene ricordarlo, perché la situazione di conflitto verrà utilizzata come giustificazione di questi crimini e della Nakba, mentre nella realtà dei fatti centinaia di migliaia di palestinesi erano già stati espulsi prima della fine del mandato britannico.

Le milizie armate assassineranno brutalmente tutti i 250 abitanti di Deir Yassin, vicino Gerusalemme, il 9 aprile 1948, e utilizzarono l’avvenimento per instillare il terrore nella popolazione palestinese, con l'obiettivo di spingerla alla fuga.

Il 29 novembre del 1947 l’ONU con la famigerata Risoluzione 181, ha deliberato ufficialmente la spartizione della Palestina in due stati, e il 14 maggio 1948 i britannici hanno posto fine al mandato in Palestina. Ben Gurion ha dichiarato immediatamente lo Stato d’Israele, privo di confini chiaramente indicati. Stati Uniti e Unione Sovietica, principali potenze del momento, lo riconoscono. Questa è la causa principe della Nakba e del conseguente esilio di qualcosa come 800.000 persone: il definitivo tracollo del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e il disastro del riconoscimento ufficiale del colonialismo sionista. I terroristi dell’Haganah divengono l’esercito sionista, mentre il 15 maggio i vicini stati arabi entrano in Palestina con l’intento di fronteggiarlo.
Da notare che l’entrata in campo di questi eserciti avviene successivamente alle aggressioni sioniste, mentre molto spesso la propaganda israeliana sostiene il contrario: infatti in quel momento i sionisti avevano già iniziato a espellere i palestinesi e avevano distrutto numerosi villaggi. I paesi arabi sono intervenuti tardi e con scarsa convinzione, spinti più dagli interessi delle rispettive borghesie e aristocrazie che da moti idealistici o solidali. Ovvero erano tra loro in concorrenza, interessati ad annettere territori e affiliati alle ex potenze colonialiste. Gli storici seri che hanno analizzato il conflitto, inoltre, hanno affermato che l’Haganah ha fatto uso di un numero nettamente superiore di soldati rispetto a quelli dei paesi arabi e ai combattenti palestinesi (inizialmente qualcosa come 42.000 militari sionisti a fronte di soltanto 28.000 avversari, saliti poi a 65.000 contro 40.000 e nell'ultima fase i militari israeliani diveranno oltre 100.000).

Un’altra menzogna è quella che i paesi arabi vicini avrebbero aggredito Israele nel 1948 con l’intento di eliminare tutti gli ebrei, quando nella realtà dei fatti ciò non è mai stato parte della loro agenda, che puntava appunto alla mera espansione territoriale, agendo infatti quasi soltanto nei territori attribuiti ai palestinesi dalla spartizione, motivo peraltro della loro divisione (con tanto di collaborazioni tra il monarca giordano e Israele sottobanco e a scapito degli altri "contendenti"). Questi stati peraltro hanno tentato di evitare la guerra in diversi modi, anche su pressione degli Stati Uniti, ma Ben Gurion era ben cosciente che l’accettazione di una spartizione non sanguinosa del territorio avrebbe comportato il possibile ritorno dei rifugiati, ed era cosciente della possibile conquista tramite le azioni belliche di più territori di quelli assegnati ufficialmente.

A causa di questa guerra e della pulizia etnica che continuerà negli anni successivi si genereranno 800 mila profughi, cui Israele non ha ancora permesso di tornare, e che sono tuttora sparsi nel mondo. L’80% della popolazione nativa viene espulsa dal territorio conquistato da Israele, entro una cosiddetta linea verde, mentre Gaza e Cisgiordania sono ora governate da Egitto e Giordania.
I non espulsi passeranno i decenni successivi sotto la legge marziale in “riserve indiane” circondate da guardie e filo spinato.

Non è sufficiente. Lo stato sionista emana anche una “legge sulla proprietà degli assenti”, che formalizza il furto di tutti i beni e proprietà dei rifugiati (qualcosa come quasi 750.000 acri agricoli, 73.000 case, 7800 laboratori e 6 milioni di sterline). Beni e proprietà che permettono la sopravvivenza dello stato e case che vengono occupate dai sionisti. In fin dei conti, non c’era nessuno a contestare queste acquisizioni di proprietà. Anche perché chi cercava di tornare finiva fucilato.

Il conflitto sarà anche un terreno di scontro per gli interessi delle cosiddette grandi potenze: gli inglesi hanno, di fatto, utilizzato a proprio uso e consumo gli eserciti dei paesi arabi, mentre gli statunitensi hanno sostenuto il neonato regime, approfittando della situazione come di un'occasione per scacciare le forze britanniche e rimpiazzarne il ruolo di egemonia nella regione (ma bisogna affermare che le opinioni all’interno della borghesia statunitense erano talvolta divergenti, con i lobbisti del petrolio e dell’aviazione a favore degli arabi. Ciò giustifica gli occasionali tentennamenti e incertezze nordamericane, come la presa di posizione a favore della tutela dell’ONU su questo territorio).

Particolare invece il caso dell’Unione Sovietica diretta da Stalin, che, in un’ennesima giravolta opportunista del regime, passerà a sostenere incondizionatamente lo stato israeliano a partire dal 1947, mentre prima di questa data prevaleva l’ostilità nei confronti dei sionisti, visti come agenti dell’imperialismo britannico. La soluzione proposta dall’URSS sarà quella di uno stato democratico bi-nazionale o, in alternativa, la spartizione in due diversi stati. Quest’ultima sarà adottata dall’ONU il 29 novembre 1947, e le sue nefaste conseguenze sul posizionamento della sinistra continuano ancora oggi.
Le azioni successive (la consegna delle armi ceche, il riconoscimento de jure del regime, primo stato a farlo, il supporto diplomatico incondizionato) saranno fondamentali a garantire la sopravvivenza d'Israele, e avverranno sulla scorta di questo posizionamento errato, dettato molto probabilmente anche dall’intenzione di cacciare gli imperialisti britannici (sottovalutando il ruolo di quelli statunitensi) e da qualche vana speranza nei confronti dei dirigenti laburisti sionisti (ennesima prova degli orrori a cui può portare il campismo, l’ignoranza nei confronti delle questioni nazionali e coloniali e l’indecente idea che il socialismo debba essere applicato a discapito dell’autodeterminazione dei popoli, come nella Cina maoista impegnata nell’occupazione e nella colonizzazione dell’Uigur, del Tibet e della Mongolia Interna).
Le tesi staliniste, ripetute ossequiosamente dal partito comunista locale, contribuiranno a togliere fiducia in esso da parte delle masse palestinesi (sarà persino ostile nei confronti del ritorno dei profughi, come il Napam, altra formazione presunta rivoluzionaria, per poi mutare posizione in favore del “ritorno degli arabi pacifici”).

Negli Stati Uniti, i fondi privati destinati al sostegno del nascente stato d’Israele (all’acquisto delle armi ceche per armarlo, in realtà) potevano essere detratti dalle imposte a titolo di opere di beneficenza, mentre prestiti per ingenti somme verranno trasferiti allo stato sionista.
Sul piano regionale, l’opportunismo dei governi, anche arabi, lo misuriamo sulla base dei colloqui tra Abdullah di Giordania e Ben Gurion nel bel mezzo del conflitto. In fin dei conti, ai monarchi giordani interessava annettere nuovi territori, non certo proteggere i diritti del popolo palestinese.

L’inerzia delle Nazioni Unite, invece, non cessa neppure dopo il 17 settembre 1948, quando viene assassinato dalla Banda Stern Folke Bernadotte, rappresentante ONU che aveva proposto la spartizione della Palestina in due stati. Nel frattempo, i sionisti si danno al saccheggio e alla distruzione dei villaggi palestinesi abbandonati dai profughi, per impedirne il ritorno, e successivamente verrà anche legalizzato l’esproprio delle terre, dei beni e delle proprietà immobili a favore dei kibbutz, del Fondo nazionale ebraico, dell’Agenzia ebraica e di società private come la Pardess (e non sarà difficile rimpiazzare la popolazione esodata, in quanto tra il 1948 e il 1951 687.000 persone si trasferiranno nel neonato stato: in parte costituiranno colonie nei punti strategici per consolidare il controllo sulle terre occupate grazie al successivo mantenimento dello status quo).

Le dirigenze israeliane in questo periodo tenteranno di giustificare l’esodo della popolazione palestinese accampando la motivazione che si sarebbe trattato di uno scambio di popolazioni – tesi reazionaria che faceva perno sulla migrazione forzata di milioni di tedeschi dall’Europa orientale, come se questa fosse una cosa giusta – quando nella realtà dei fatti la maggioranza degli ebrei cacciati da paesi musulmani è avvenuta indipendentemente dal conflitto che ha visto Israele protagonista. L’Alleanza Israelita Universale, poi, ha lavorato alacremente per cooptare nelle élites coloniali la popolazione ebraica dei paesi del nord Africa e per separarla dalle masse.
L’ONU si limita alla Risoluzione 194, che dispone il ritorno dei profughi palestinesi e pone Gerusalemme sotto la propria egida, risoluzione ovviamente rimasta perlopiù lettera morta. Israele entrerà a fare parte dell'ONU l’11 maggio 1949, con l’impegno di applicare le risoluzioni e mostrandosi accomodante fino all’ufficializzazione dell’ingresso, per poi passare subito dopo alla più risoluta rigidità.


ANNI '50

Il ritorno della popolazione palestinese è sistematicamente negato, come alla Conferenza di Parigi del 1951. Viene negato anche quello più limitato, così che i profughi devono alloggiare in luoghi di fortuna. Secondo le dirigenze ebraiche, il loro ritorno equivarrebbe a un “suicidio” del regime, e d’altronde non è del tutto errato: equivale a riconoscere che Israele è uno stato costruito sul furto di terre abitate da un altro popolo. A una ristretta minoranza verrà concesso di riunirsi alla propria famiglia, nel tentativo di placare la popolazione palestinese presente nel neonato stato sionista, ma la maggioranza di chi aveva famiglia dall’altro lato del nuovo confine è comunque rimpatriata illegalmente, visto che si trattava in una buona parte di profughi interni al territorio israeliano, e che i criteri erano estremamente ristretti (fondamentalmente contava il luogo di residenza del padre), tanto da aver persino comportato lo spostamento di una parte della popolazione dall’altro lato. Per il resto, si è operata la deportazione di numerosi altri individui, anche coloro che avevano figli sul lato israeliano della frontiera, e si sono applicate sanzioni collettive ai villaggi che “osavano” ospitare dei “clandestini”. Tutte misure difese virulentemente dal “socialista” Ben Gurion, mentre il Mapam proponeva di risolvere il problema aumentando le colonie sulla frontiera, ribadendo il loro uso militare e di presidio.

C’è una piccola apertura, avvenuta su pressione statunitense, che dopo anni di negoziati consente a 6000 palestinesi, una minoranza infima, di recuperare il denaro depositato presso i propri conti bancari. Per converso, la Barclays Bank ha concesso un cospicuo prestito al governo israeliano, timorosa di ricadute finanziarie. I cittadini tedeschi espulsi durante la Seconda guerra mondiale dalla Palestina vengono invece indennizzati, mentre i beni immobili sottratti ai palestinesi costituiscono valori per cifre per l’epoca astronomiche.

Nel 1953, la Germania dell’Ovest, in nome delle presunte riparazioni verso le vittime del nazismo, versa quasi tre miliardi e mezzo di marchi nelle casse israeliane (nulla è stato versato invece nei confronti delle popolazioni gitane, di altri popoli occupati, e nulla ovviamente è stato riservato a chi in Israele non ci è andato pur essendo ebreo). Si tratta di una scusa (e bisogna ricordare che numerosi membri dell’apparato dello stato erano precedentemente inquadrati nelle strutture naziste): l’interesse reale è politico, e per Israele la conquista della simpatia della Germania federale è un importante tassello per inserirsi nelle più ampie grazie dell’Europa occidentale. Ulteriori crediti saranno ottenuti da Ben Gurion nel 1960, con la scusa che nello Stato tedesco si stava diffondendo l’antisemitismo. Allo stesso tempo, l’entità sionista ottiene delle nuove forniture di guerra, e in cambio pretende che Israele non si serva del processo Eichmann per mettere in stato d’accusa la Germania ovest, e la rinuncia alla convocazione dottor Globke, segretario di Stato alla cancelleria, come testimone. Sarà soltanto il primo tassello di una lunga storia di supporto economico, militare e strategico a Israele.

Il 1956 è una data chiave: Israele dimostra tutta la sua vicinanza alle potenze coloniali. A seguito della nazionalizzazione del Canale di Suez da parte del presidente egiziano Nasser, attacca l'Egitto insieme a Francia e Regno Unito, i cui interessi imperialistici erano messi in discussione. Vincono, ma sono costretti a ritirarsi a causa della pressione internazionale, in particolare degli Stati Uniti (non interessati a un ritorno sulla scena delle vecchie potenze coloniali), subendo una sconfitta politica non da poco e rinforzando per contraltare Nasser. Non contenti, i sionisti continuarono però le provocazioni contro gli egiziani sui confini.

Nel frattempo, si rinsalda il tenore ideologico del sionismo: Israele è uno stato ebraico per decreto, come testimoniano la “Legge del ritorno” e la “Legge della nazionalità”, che peraltro stabiliscono delle discriminazioni sulla base dell’appartenenza nazionale. Ma va molto al di là: l’obiettivo dello stato sionista è quello di costruire lo Stato degli ebrei di tutto il mondo, uno stato sionista, e cerca di imprimere quest’influenza ideologica alle comunità ebraiche del globo.
Essendo intenzionato a introdurre sempre più larghi strati di popolazione ebraica, lo stato sionista non può che essere ostile nei confronti del ritorno dei profughi palestinesi. I matrimoni tra ebrei e arabi sono sostanzialmente vietati (non per legge, ma perché il matrimonio civile è inesistente nello stato sionista, e le autorità religiose non sono assolutamente intenzionate a permettere matrimoni misti), e la minoranza araba è mantenuta in una condizione di segregazione e di esclusione, anche economica.
Lo stato israeliano, nel frattempo, sopravvive in questo decennio grazie alle somme astronomiche che gli vengono comminate dall’estero: miliardi di dollari, senza cui non sarebbe mai stato capace di reggersi in piedi. Questi investimenti non sono fonte di nessun guadagno da un punto di vista capitalista per chi li effettua: sono perdite sui bilanci. Altroché miracolo dell’economia israeliana, costantemente colpita dall’inflazione e con centinaia di milioni di dollari riservati alle spese militari.

Interessante notare come, inoltre, sebbene molti dei sionisti fossero tecnicamente laici e persino, nominalmente se non altro, socialisti, tra i miti fondativi dello stato si trovino concetti come “popolo eletto” (concezione eminentemente razzista) e “terra promessa”. Ma non è poi così bizzarro: rimosse queste due importanti clausole, che legittimità resta al sionismo? Ed è per questo che non stupisce che sia stato proprio il Mapai socialdemocratico, soprattutto nella persona di Ben Gurion, a far approvare i corsi obbligatori di religione, tanto per limitarsi a un esempio di sostegno all’oscurantismo religioso da parte dei socialdemocratici e persino da parte di presunti “marxisti”, in nome della difesa e della coesione dello stato, tra cui l’ampliamento del potere dei tribunali rabbinici, le osservanze alimentari d’origine religiosa e i giorni festivi. È uno dei motivi per cui lo stato non ha adottato una Costituzione, che andrebbe altrimenti a scontrarsi con il potere religioso, cui è sostanzialmente sottoposto. Le elucubrazioni teologiche sul passato storico, d’altronde, non hanno fatto altro che preparare il terreno alle giustificazioni per l’espansione territoriale nei confronti dei vicini, e difatti il “laico” Ben Gurion nel 1956 ha rivendicato apertamente il Sinai e Gaza, in barba alle convenzioni dell’armistizio del 1949, anche se URSS e Stati Uniti lo convinceranno a lasciare perdere.


ANNI '60

Governo e gruppi sionisti ribadiscono le proprie intime relazioni di collaborazione nel 1960 in una riunione comune. Le entrate delle organizzazioni sioniste (l’Agenzia Ebraica e l’Organizzazione Sionista Mondiale) equivalgono a quasi mezzo milione di dollari nella prima parte del decennio, e provengono in larga misura dagli Stati Uniti, permettendo intense attività propagandistiche e finalizzate alla sistemazione degli immigrati in Israele, oltre a ingenti finanziamenti. Il Fondo Nazionale Ebraico, legato allo Stato sionista, riceve prestiti da grandi banche estere ed esclude sistematicamente la manodopera palestinese; considerando che gran parte delle terre sono da esso amministrate (soprattutto quelle espropriate ai nativi), non gli risulta difficile.

La resistenza palestinese nel frattempo è cambiata, passando dalla dipendenza da gruppi aristocratici e feudali a una maggiore dipendenza dagli stati arabi. Nel 1964, le diverse forze si uniscono nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), capeggiata da Al Fatah e patrocinata dalla Lega Araba: è ovviamente subito designata come organizzazione terroristica da Israele, Stati Uniti e alleati vari. Nel 1963, invece, due mozioni delle Nazioni Unite dell’11 novembre e del 3 dicembre stabiliscono che si devono compiere maggiori sforzi a favore dei profughi palestinesi, il cui numero non è mai stato calcolato con precisione. Le stime riguardanti gli anni Cinquanta passano con disinvoltura dai 550.000 ai 933.000, mentre secondo l’UNRWA al 30 giugno del 1966 i profughi erano 1.318.000, ma è una stima considerata nettamente al ribasso e che esclude quasi metà dei profughi in Giordania, i figli di profughi nati dopo il 1951, gli adulti privi di attestati di proprietà e pertanto impossibilitati a dimostrare di provenire dai territori occupati, gli abitanti di frontiera con campi situati in territori non posseduti da Israele ma le case sì, i gruppi di nomadi.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, la crisi economica causata dalla drastica diminuzione delle entrate dall’estero (Stati Uniti e Germania Ovest in particolare), porta i dirigenti israeliani a calare di netto i salari e tagliare sui diritti del proletariato, provocando vaste ondate di scioperi nel 1966. Le politiche antioperaie del governo lo portano a invitare il Mapam, partito teoricamente socialista, nella coalizione di governo (non sarà certo l’ultima volta che questo partito farà da spalla di sinistra alla destra, rifiutando nel frattempo la collaborazione con i comunisti in quanto non sionisti).
La sinistra sionista partecipa attivamente all’austerità, avallando l’aumento astronomico della disoccupazione e le leggi contro il proletariato. Nulla di nuovo, d’altronde, per un partito come il Mapam che ha sempre anteposto il nazionalismo sionista alle conquiste dei lavoratori, con la scusa delle “tappe” (pronunciandosi nel frattempo contro l’esclusione del governo razzista del Sudafrica dall’ONU e contro le rivoluzioni anticolonialiste): fondare Israele prima (mantenendo un atteggiamento sciovinista eguale a quello della destra nei confronti dei palestinesi) e il socialismo soltanto poi, con la pacifica estensione dei kibbutz. Non ha funzionato, come sappiamo. Invece sappiamo che un diversivo efficace, capace di smobilitare buona parte dei disoccupati, è entrato ben presto in gioco a distrarre l’attenzione dall’austerità: la guerra.

Il 5 giugno del 1967 avviene un nuovo e distruttivo attacco israeliano a sorpresa contro l’Egitto (che in quel periodo era pure impegnato in mediazioni che coinvolgevano anche gli Stati Uniti, che resteranno basiti). Vengono coinvolte anche Siria e Giordania. Il conflitto permetterà l’occupazione della Cisgiordania, della Striscia di Gaza, del Sinai egiziano e delle alture siriane del Golan. Nella narrazione sionista ciò è considerato un’azione di difesa preventiva: anche i crimini contro i palestinesi sono stati considerati una forma di autodifesa, ergo, oltre al discutibile messaggio secondo cui attaccare per primi è un’autodifesa e non un’aggressione, queste affermazioni valgono meno di zero, e infatti le intimazioni dell’ONU a ritirarsi dai territori occupati saranno vane.
A questa nuova guerra seguono ulteriori pulizie etniche contro i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, con centinaia di migliaia di nuovi rifugiati, e oltre 100.000 siriani delle alture del Golan che si vedono le loro cittadine distrutte dagli invasori e la loro terra occupata. Gli abitanti dei nuovi territori occupati vengono sottoposti alla legge marziale, rimossa appena un anno prima ai palestinesi entro la linea verde.

Anche a seguito di alcuni successi della guerriglia palestinese, Arafat, uno dei principali leader palestinesi del momento, lancia pubblicamente l’idea di uno stato palestinese e di uno stato israeliano separati: una posizione opportunista e di retroguardia, che capitola dinanzi alla legittimazione dello stato colonialista sionista. I regimi e le monarchie arabe invece sono preoccupati dalle posizioni progressiste e rivoluzionarie delle avanguardie palestinesi, che avrebbero potuto innescare dei processi di lotta di classe anche nei loro paesi. Si arriva a un’offensiva contro i campi profughi palestinesi lanciata dal re giordano Hussein col sostegno dello stato sionista, conosciuta come Settembre nero, che darà il nome all’omonima organizzazione. L’OLP dovrà ritirarsi dalla Giordania e trasferire i suoi quadri in Libano come conseguenza dei massacri, che coinvolgeranno migliaia di palestinesi assassinati dalle milizie della monarchia reazionaria giordana.

Dopo le nuove occupazioni avvenute nel 1967, viene partorito il piano Allon, che prevede l'occupazione permanente di buona parte della Cisgiordania tramite installazioni militari e insediamenti (il resto l'avrebbe dovuto ricevere il reame giordano), con centri abitati palestinesi dotati di un'autonomia soltanto nominale. In questo momento inizia la crescente occupazione coloniale anche di questo territorio, di Gaza, delle alture del Golan e – ma soltanto inizialmente – del Sinai, tramite l’insediamento di centinaia di migliaia coloni (che sono sempre e soltanto ebrei israeliani) in oltre duecento insediamenti. Queste installazioni, peraltro, si sono moltiplicate ancora più velocemente durante i famosi negoziati di pace: i sionisti sapevano, d'altronde, che i palestinesi non avrebbero osato metterli a rischio, per quanto precari.
Dopo la guerra, per risolvere la crisi economica, lo stato israeliano farà appello alla grande finanza capitalista internazionale, che accorrerà in suo soccorso – rendendo Israele succube – ma a condizione di smantellare il settore cooperativo e della liberalizzazione di ampi settori dell’economia.


ANNI '70

Nel 1973 l’Egitto guidato da Sadat e la Siria attaccano Israele con l’intenzione di riprendersi i territori strappati, dando inizio alla Guerra del Kippur, in cui battono ripetutamente i sionisti, che riescono però a resistere grazie al supporto statunitense e al successivo cessate il fuoco imposto dalle Nazioni Unite. Israele si ritirerà e smantellerà le sue colonie, così, dal Sinai, a seguito degli accordi di Camp David. Ma questo comporterà anche il riconoscimento dello stato israeliano da parte del reazionario Sadat nel 1979, diventando così l'Egitto il primo Stato arabo a farlo.
Sono previsti anche degli accordi per riconoscere i diritti del popolo palestinese, cui si prospettavano vaghe forme di autonomia. Queste politiche si concretizzano nei negoziati segreti tra OLP e Israele. Le alture del Golan siriane invece sono ancora oggi occupate e colonizzate dai sionisti, con gli oltre 100.000 rifugiati che, al solito, sono sparsi nel resto della Siria e non hanno diritto al ritorno in patria. Continuano, nel frattempo, le politiche razziste ed espropriatrici contro i palestinesi, che divengono manodopera sfruttata a basso costo per gli israeliani.

L’OLP, intanto, viene riconosciuta ed entra a far parte delle Nazioni Unite.
Nel 1976 fascistoidi militanti cristiani maroniti del Fronte Libanese, i Guardiani del Cedro, i militanti della Falange Libanese (il cui fondatore Pierre Gemayel era stato un simpatizzante nazista) e altri gruppi che saranno sempre filoisraeliani e che collaboreranno attivamente con le forze d’occupazione sioniste attuano la strage di 1500 (alcuni affermano 2000) profughi palestinesi al campo di Tal al Zaatar.


[continua]


Prima parte

Terza parte

Alessio Ecoretti

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