Prima pagina
Il colonialismo sionista nella storia e le oppressioni nello stato israeliano (I)
26 Settembre 2024
Prima parte
Cartolina celebrativa della Dichiarazione Balfour
«[...] lo Stato ebraico israeliano non può sopravvivere nella sua forma attuale, se non continuando a negare il problema palestinese. Rimettere in causa la struttura segregazionista d'Israele equivale a porre il problema più vasto della balcanizzazione attuale del mondo arabo. Il vano tentativo incessantemente rinnovato di imporre ad esso lo status quo israeliano, fondato sul disprezzo dei diritti nazionali degli arabi palestinesi, dà origine a una tensione permanente. In simili condizioni i dirigenti possono avvalersi degli imperativi della «sicurezza» dello Stato per rifiutare questo ritorno. Di fronte all'opinione pubblica mondiale la discriminazione sistematica verso la minoranza araba d'Israele è giustificata da questa preoccupazione di sicurezza. Ed è vero, senza dubbio, che Israele non potrà vivere in pace con i suoi vicini finché non avrà reso giustizia alle rivendicazioni della nazione palestinese.»
(Nathan Weinstock, Storia del sionismo, vol. II, p. 23)
XIX SECOLO. ORIGINI DEL SIONISIMO
Cos'è il sionismo? È un prodotto dell'imperialismo e del nazionalismo diffuso in Europa nel XIX secolo, che preconizza la soluzione del cosiddetto "problema ebraico" (o, con le parole di Abraham Leon, della classe-nazione ebraica) inserendolo sulla scia dell'espansione coloniale europea. Nasce come risposta all'antisemitismo moderno (in particolare nell'Europa dell'est, da cui proviene buona parte dei sionisti) e all'espulsione della piccola borghesia ebraica dalle proprie attività e dal profitto capitalistico (infatti, per esempio, la comunità di fede ebraica presente in Palestina all'epoca non è affatto sionista), desiderosa di acquisire un proprio posto al sole.
È un’ideologia dal carattere fortemente nazionalista, che teorizza l’occupazione di una terra in una qualche colonia occupata da uno Stato europeo. Inizialmente, i teorici pensarono all’Uganda, all’Argentina o addirittura all'America settentrionale, come proponeva Leo Pinsker, tra i primi teorici sionisti, e soltanto successivamente prese piede l’idea di spostare la popolazione dalla Palestina per rimpiazzarla con genti di fede ebraica.
A dispetto della fondazione estremamente recente, l'ideologia sionista dichiara di voler risolvere uno stato di cose antico di duemila anni, ovvero la dispersione del popolo d'Israele a seguito della caduta di Gerusalemme nel 70 d.C.
Ovviamente sono distorsioni piuttosto crasse (e pure ignoranti, visto che denotano una mistificazione e un appiattimento della storia ebraica che rasenta il ridicolo, se pensiamo che a un problema così antico si è trovata una "soluzione" con un paio di millenni di ritardo), e la storia dell'ebraismo non è riducibile a un'interrotta sequela di persecuzioni sempre identiche nella forma: sarebbe assurdo credere che questa popolazione potrebbe ancora oggi esistere a fronte di ininterrotte politiche assimilazioniste e stragiste, ed è una visione palesemente influenzata dalla realtà contemporanea.
Gli interessi della diaspora ebrea nel corso della storia sono stati molto diversi, e la teoria sionista "dell'odio in ogni luogo e in ogni dove" verso questo popolo è un dogma antistorico, alla luce della diversità di condizioni e di collocamento. Quest'ideologia, di fatto, è il parto della piccola borghesia ebraica strangolata dalla fine del feudalesimo e dalle criticità del capitalismo: di fatto, è una teoria che implica l'inserimento in questo sistema di sfruttamento, responsabile dello stesso antisemitismo, anziché la sua distruzione.
I primi rudimenti di colonialismo e occupazione europea in Palestina avvengono, in realtà, già nella prima metà dell’Ottocento, con la fondazione di istituti e chiese legate a varie branche del cristianesimo (protestanti, ortodossi, cattolici) che sotto alla mistica presunzione di facciata nascondono la portata ben più rilevante degli interessi dei paesi di provenienza. Anche alcune delle principali associazioni ebraiche dei paesi imperialisti partecipano attivamente all’espansione coloniale dei rispettivi stati, con la falsa scusa di aiutare i confratelli sottoposti agli ottomani. Questi gruppi saranno i primi a portare un’influenza capitalista strutturata e forte, proprio tramite le chiese cristiane e il clero, dando inizio all’acquisto di importanti immobili e all'investimento di grandi quantità di capitali, riuscendo così ad assumere manodopera locale e più tardi a dedicarsi a vere e proprie speculazioni immobiliari nelle città più grandi. Dal 1867 al 1907, però, saranno numerosi coloni tedeschi appartenenti alla setta dei Templari a portare a una nuova fase di espansione capitalistica e coloniale, utilizzando sempre i palestinesi come manodopera.
In pratica, è stata la colonizzazione di carattere cristiano ad aver gettato le basi su cui è poi maturato il sionismo, provvedendo alle infrastrutture per le comunicazioni e ai mezzi necessari allo sviluppo e al controllo del territorio, fondando di fatto un mercato agricolo capitalista, essendo il territorio ancora soggetto a norme di carattere feudale. Ciò detto, è doveroso affermare che l’impero ottomano si stava inserendo in questo periodo nell’economia basata sul capitale e allo sfruttamento del lavoro contadino con fini capitalistici e d’esproprio, proletarizzando di fatto i lavoratori della terra, innestando l’economia monetaria (prima anche le imposte potevano essere pagate in beni) e distruggendo la proprietà collettiva della terra, promuovendo anche l’usura, le imposte più devastanti, la sovrappopolazione nelle campagne, l’indebitamento – che si protraeva anche alle generazioni successive – e la stagnazione della produzione. I contadini cedono dunque al più presto le loro terre, e si crea una classe di contadini non possidenti e ipersfruttati, con il governo ottomano che emette delle riforme atte alla confisca delle terre ritenute incolte (spesso a torto, ma d’altronde l’obiettivo era proprio quello di annientare la proprietà collettiva, che era quasi la totalità della terra coltivata in Palestina). Unitamente agli albori del colonialismo in questo territorio, questi fatti porteranno nel 1860-70 alla nascita di una classe di piccoli proprietari e all’acquisto di terra da parte dei coloni, precedentemente inalienabile, secondo il sistema delle coltivazioni comuni. I lotti diventano molto piccoli, mentre il loro valore aumenta, con i contadini che devono inoltre necessariamente chiedere in prestito i capitali e cadere così nelle mani degli usurai, che non conferiscono con le proprietà collettive.
Il primo vero e proprio teorico sionista di una qualche qualità è stato Moses Hess, un tempo amico di Marx, da cui verrà però respinto in virtù delle posizioni politiche che assumerà. Hess Inizialmente sosteneva che l'emancipazione degli ebrei sarebbe avvenuta col tramite dell'assimilazione all'interno delle popolazioni dominanti, per poi cambiare vedute repentinamente e dare inizio alle sue pubblicazioni sioniste negli anni Sessanta dell'800. Per meglio chiarire la qualità delle sue formulazioni, c’è da dire che è fortemente influenzato anche da un opuscolo che teorizzava la "ricostituzione della nazionalità ebraica" sulla scorta dell'imperialismo francese guidato da Napoleone III in Oriente. Sostanzialmente, teorizzava l'occupazione della Palestina tramite coloni armati, e come accessorio della colonizzazione europea. Queste tesi inizialmente non avranno particolare successo, ma la situazione cambierà quando i pogrom antisemiti in Russia mieteranno un grandissimo numero di vittime, portando acqua al mulino delle associazioni sioniste conosciute come Hovevei Zion e Bilu.
Un altro importante teorico e fondatore di Hovevei Zion è stato Leo Pinsker. A favore dell'assimilazione, finirà per cambiare idea di fronte ai pogrom nell'impero zarista e alle forti discriminazioni antiebraiche in questo stato. Pubblicò nel 1882 un volume, Autoemancipazione, dove espresse le sue idee a favore della colonizzazione ebraica di un territorio.
Anche Theodor Herzl, il campione del movimento sionista, era inizialmente scettico nei riguardi di quest’ideologia, ma il caso Dreyfus lo porterà a pubblicare il libro Der Judenstaat [Lo Stato ebraico], che teorizzava la risoluzione del problema dell'antisemitismo soltanto con la costituzione di uno Stato ebraico abile ad accogliere i perseguitati. Il suo modello sono le compagnie inglesi dedite alla colonizzazione, e lo Stato che verrà a formarsi sarà, a suo dire, un «avamposto contro l'Asia» e «un'avanguardia della civiltà contro la barbarie». Il suo impegno per questa causa sarà immane, ma le opposizioni all'interno delle comunità ebraiche sono innumerevoli, e pochi sono disposti a imbarcarsi per davvero in quest'avventura. Arriverà anche ad avere colloqui con governanti di vario tipo, dal Kaiser al sultano Abdul Hamid II (lo stesso dei massacri hamidiani contro gli armeni), da Vittorio Emanuele a Chamberlain, persino con ministri del regime inveteratamente antisemita dello zar, come Witte e von Plehve, ma senza ottenere frutti rilevanti. In ogni caso, le potenze coloniali non sembrano intenzionate a sobbarcarsi seriamente l’impegno, per il momento, ed Herzl allora fonda il Jewish Colonial Trust nel 1899, per cercare di raccogliere due milioni di sterline con l’obiettivo di finanziare la colonizzazione, ma in tre anni non arriverà a raccogliere nemmeno il 10% della quota. Nel 1901 viene creato il Fondo Nazionale ebraico per acquistare terre da colonizzare, ente ancora oggi attivo e di grande influenza.
Prima ancora, comunque, Herzl ha promosso il primo congresso sionista di Basilea nel 1897, che ha riunito 208 delegati da tutta Europa. Il programma stilato prevedeva l’istituzione di uno Stato ebraico in Palestina, obiettivo da porre subito in moto tramite l’insediamento di coloni. Già c’erano stati dei precursori impegnati in simili imprese, di scarsa rilevanza e solitamente confluiti successivamente nel Congresso Sionista.
Sin d’allora viene affrontato un punto decisamente significativo della questione: la popolazione nativa. Al di là delle proposte, tutte vertono su un obiettivo comune: rimuoverla. E meno male che dalla propaganda ufficiale veniva considerato un territorio disabitato. Non v’è nessun dubbio da parte dei teorici sionisti che questo sia un colonialismo d’occupazione, e lo stesso Herzl lo riconosce con franchezza nei suoi scritti. Viene riconosciuto anche che la prima necessità del colonialismo è di disporre di una forza armata capace di occupare il territorio senza essere respinta.
Nel corso dell’Ottocento vengono fondate piccole colonie, ma è nel 1882 che prendono vita le prime vere e proprie colonie agricole, portando alla prima ondata di colonizzazione ebraica con persone provenienti dalla Romania e dalla Russia, sostenute dai circoli Hovevei Zion in Europa orientale, ma i risultati sono disastrosi, e sono presto obbligati a chiedere aiuto all’esterno, che verrà fornito dal barone Edmond Rothschild. Costui fino al 1900 si erge a nume tutelare di queste colonie, estremamente dipendenti dall’esterno, e finanzia diciannove colonie, abitate da quasi cinquemila persone. Ciò corrisponde però a un investimento: impianta in queste colonie un’amministrazione burocratica che le irreggimenta in strutture coloniali, con gli abitanti obbligati per statuto a ubbidire all’amministrazione e a lavorare con tutte le loro forze. Insubordinazioni e rivolte verranno represse dagli amministratori designati, e in un caso i coloni cercheranno di contattare persino i consolati della Francia e della Russia zarista per ottenere una qualche protezione. Si verificheranno interventi di truppe ed espulsioni, minacciando anche il blocco dei finanziamenti. Saranno poi obbligati a non far parte di nessuna organizzazione non autorizzata da Rothschild. Non esattamente un quadro idilliaco.
Il barone cederà le colonie al Jewish Colonization Association, appartenente al barone Maurice de Hirsch, meno dispotico. L’azione coloniale di Rothschild, in ogni caso, darà solide basi all’occupazione sionista successiva, anche se a lui interessavano le colonie per lo più in funzione degli interessi francesi. La JCA proseguirà nella pianificazione e nell’espansione della colonizzazione, facendo perno sul capitale privato utilizzato nello sfruttamento della manodopera locale.
Prenderanno forma anche i cosiddetti sionisti di sinistra, che manterranno una caratteristica fondamentale: l’ostilità nei confronti della solidarietà di classe e la quasi totale rinuncia alla lotta di classe. Questo perché, tanto, si sarebbero dovuti impegnare successivamente per una futura Palestina ebraica, considerato un obiettivo ben più alto dell’emancipazione immediata dei lavoratori.
Un elemento d'interesse rispetto ad altri fenomeni colonialistici è stata la creazione di una classe operaia sionista, dedita alla formazione di un'economia autarchica. In fin dei conti, mentre i colonialismi classici occupavano i territori per lo più per sfruttarli e per rapinarli delle loro risorse, quello sionista intendeva espellere i nativi e crearci un paese prima inesistente. Ma una nazione ha bisogno di una classe produttrice. Per questo i coloni se la prenderanno con diversi proprietari terrieri ebraici in Palestina: costoro erano interessati più all'impiego di manodopera a basso costo (i palestinesi) che all'impiego di una manodopera abituata a standard di vita diversi, più costosa e meno abile, come quella dei coloni. Su questo si fonderà l'ideologia della "conquista del lavoro", su cui si baseranno le azioni della cosiddetta sinistra sionista, che si occuperà prevalentemente di cacciare i lavoratori arabi dalle colonie agricole piuttosto che lottare per i diritti degli sfruttati.
ANNI '10
Considerando che gran parte della massa dei palestinesi è stata spodestata delle sue proprietà con l’indebitamento e con le requisizioni, e che ovviamente non sono assolutamente in grado di contrastare i potenti acquirenti sionisti, è facile per i coloni scacciarli progressivamente dalle loro terre. E ciò smentisce platealmente le baggianate che attribuirebbero la responsabilità ai palestinesi della cessione volontaria della loro stessa terra in quanto “avrebbero venduto loro stessi le terre per profitto”.
Le potenze europee, compresa la Russia zarista, sostengono attivamente gli insediamenti, in quanto, come detto, ciò è funzionale agli interessi capitalistici e coloniali nella zona e nel Sinai. I moventi mistici, che fanno parte del bagaglio ideologico colonialista, sono mere coperture: ciò rende il fenomeno sionista su questo versante una forma di colonialismo abbastanza tradizionale, anche se oggettivamente con degli aspetti originali. Il filosionismo delle dirigenze britanniche, d’altronde, non era poi così romantico come traspariva dalle dichiarazioni programmatiche ideali: Balfour stesso, infatti, era stato impegnato in una campagna nel 1905 per impedire l’accesso sul suolo britannico agli ebrei perseguitati dell’Europa orientale, e questo è soltanto un esempio del malcelato antisemitismo di molti filosionisti.
Nel corso del primo conflitto mondiale, con le forze britanniche si schierano anche alcuni reggimenti di ebrei sionisti, alcuni peraltro legati all’esponente dell’estrema destra sionista Vladimir Žabotinskij e a Iosif Trumpeldor, altro importante militante sionista russo, che fondano la Legione Ebraica, con l’obiettivo di impiegarla al fianco dei britannici, appoggiati anche dai sionisti laburisti a dispetto della natura palesemente reazionaria del progetto. Sono almeno cinquemila i soldati a entrare in campo con queste ambizioni, ed è esistita anche una piccola rete di spionaggio da parte di coloni ultranazionalisti, il Nili. Queste forze, nelle intenzioni di alcuni, avrebbero dovuto costituire gli albori della base militare del futuro esercito dello Stato ebraico, ed erano composte da zelanti nazionalisti, che in buona parte si uniranno alle forze armate sioniste dell'Haganah.
A dimostrazione dell'oscillante attitudine dei sionisti, c'è da ricordare che inizialmente la leadership del movimento (compreso il "socialista" Ben Gurion) tentò di costituire delle forze all'interno delle truppe ottomane e dichiarò di supportare il regime, che in tutta risposta diede iniziò alla deportazione di parte della popolazione sionista e alla persecuzione politica del movimento. Movimento che, bisogna inoltre ricordare, fu in larga parte indifferente dinanzi al genocidio degli armeni (con le dovute eccezioni costituite da singoli e dal piccolo gruppo del Nili. Oltretutto, lo Stato d'Israele ancora oggi non lo riconosce ufficialmente). Il Congresso Sionista, invece, si trova a districarsi tra posizioni molto diverse al suo interno, con una maggioranza relativa a favore della Germania e una posizione ufficiale neutralista.
Con la deflagrazione dell’Impero Ottomano, le potenze imperialiste europee intendono spartirsi l’area, a dispetto delle promesse britanniche del 1916 rivolte ai popoli arabi, cui avrebbero dovuto garantire l’indipendenza in cambio del loro aiuto nella guerra. Ciò viene stabilito dagli accordi segreti di Sykes-Picot, che dividono il territorio mediorientale tra Francia e Regno Unito. Grazie alla Rivoluzione bolscevica, questi accordi che riguardavano anche il regime zarista verranno alla luce e saranno denunciati pubblicamente. Verranno ugualmente realizzati, con la cessione della Palestina al Regno Unito, di cui diverrà un protettorato.
È con l’aiuto degli occupanti britannici, impegnati nella pesante repressione dei movimenti palestinesi, che i sionisti già in quel periodo organizzano un proto-Stato, l’Yishuv. Ed è sempre causa loro e della divisione delle dirigenze arabe se i sionisti riescono a espandersi a sufficienza da gettare le premesse per la colonizzazione successiva. Ed è sempre colpa loro se le masse dei palestinesi non sono riuscite a fondare delle organizzazioni in grado di fronteggiarla, essendo destinate all’immediata repressione.
L’Yishuv, che in potenza poteva costituire un’organizzazione anticolonialista, pur manifestando la sua ostilità contro la dominazione britannica, come afferma Weinstock si è posto ai «margini della rivoluzione coloniale piuttosto che nel suo solco diretto come, per esempio, la sollevazione degli arabi palestinesi nel 1936-1939» (Storia del sionismo, vol I, pag. 209). È, infatti, come lo scontro anglo-boero, una rivolta di coloni contro la metropoli.
Per questo i sionisti guardarono con soddisfazione alla nascita del protettorato inglese sulla Palestina, soprattutto in seguito alla cosiddetta Dichiarazione di Balfour del 2 novembre 1917, stretti dall’omonimo lord con il potente barone Rothschild, referente delle associazioni sioniste, con tanto di lettera regia che relegava la Palestina a “patria degli ebrei”. Questo avviene, peraltro, ancora prima che la Palestina sia effettivamente occupata dal generale britannico Allenby. Ovviamente non era certo per simpatia verso i perseguitati ebrei che gli inglesi hanno fatto ciò, piuttosto è stato inteso come un buon metodo per realizzare i propri interessi nell’area.
Il fatto di essere un’insignificante minoranza ha spinto i sionisti a inventare dei miti fondativi come “Israele ha fatto fiorire il deserto” e “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”, che si svilupperanno in analisi razziste di vario genere, tipiche dei colonialisti di ogni epoca e continente. In nessuna di queste formulazioni viene mai considerata l’eventuale coesistenza con i nativi o all’interno della società nativa, che nel migliore dei casi si ritiene verrà assimilata. Anche per questo gli ebrei che anche solo oseranno lavorare o dare lavoro ai palestinesi finiranno anch’essi nelle mire dei sionisti e della loro violenza.
Con il termine del mandato, i sionisti non hanno in mano che il 5-6% della terra, e sono un terzo degli abitanti, senza essere la maggioranza in nessun territorio, anche se già in questo periodo iniziano le speculazioni sui due famigerati Stati in cui dividere la Palestina. Il primo piano di una cosiddetta “spartizione” resta quello dell’Organizzazione Sionista Mondiale del 1919, che proponeva uno Stato sionista includente non solo Palestina e Cisgiordania, ma anche parti di Libano e Siria: ovvero teorizzavano uno Stato controllato dal 2-3% della popolazione che non poteva accampare su quei territori nessun tipo di pretesa, neppure “nativistica”.
ANNI '20
Negli anni '20 i sionisti diventano sempre più pervasivi nel territorio palestinese, pur non essendo la Palestina la prima scelta dell’emigrazione ebraica. Buona parte di essi arriva in Palestina tra il 1924 e il 1939: in larga misura quelli che rivendicavano un posizionamento sionista e la spartizione poi avanzata nel 1947 abitavano da pochissimo in Palestina, anche se questo piano assegnava loro il 56% della terra. Non la possiamo definire una gran sorpresa se, com’è giusto, i palestinesi hanno rifiutato l'ipotesi di spartizione: prevedeva sostanzialmente l’accettazione della propria colonizzazione, anche se un cospicuo numero di propagandisti ritiene ciò un segnale della irrazionale intransigenza dei palestinesi e afferma che in questo modo essi abbiano rifiutato la pace, a differenza dell’Yishud che avrebbe accettato il piano. A parte il fatto che andava tutto a suo vantaggio, al di là delle dichiarazioni estemporanee buone per l’opinione pubblica nelle sue assemblee interne, ciò veniva considerato soltanto il primo step per organizzarsi e poi occupare anche il resto della Palestina, come hanno anche precisato leader sionisti come Ben Gurion.
L’obiettivo in questa fase è quello di creare una forza armata potente, senza cui non può sussistere l’occupazione coloniale. Inoltre, molto probabilmente non sarebbe mai esistito ugualmente uno Stato palestinese, neppure mutilato, visto che i sionisti non avrebbero mai accettato fino in fondo questo piano di spartizione delle Nazioni Unite, un piano tra l’altro che sul piano giuridico poteva valere al massimo come una raccomandazione. L’unica utilità di questo maneggio è stata quella di conferire una certa legittimazione ai sionisti nel formare il proprio Stato coloniale.
I coloni danno vita a una forza paramilitare chiamata Haganà [Difesa]. Cercano di organizzare anche l’acquisto di terre su vasta scala, fallendo. Ci riusciranno più tardi, quando i palestinesi saranno sostanzialmente obbligati a venderle e ne verrà vietata la vendita ai palestinesi; e qui facciamo cadere un’altra ridicola argomentazione sionista, secondo cui le terre sono state ottenute pacificamente e con indennizzi ingenti.
Gli inglesi piazzano nella posizione di Alto Commissario britannico per la Palestina un sionista, Herbert Samuel, e viene concesso ai coloni di formare un governo. I britannici, comunque, qualche inquietudine la dimostrano, affermando ora che la Palestina non può essere interamente ebraica, a seguito degli scontri tra palestinesi e sionisti a Giaffa nel 1921 e a quelli del 1929 seguiti a provocazioni sioniste sulla Spianata delle Moschee. Quest’ultimo avvenimento porta gli inglesi a emanare un provvedimento per limitare l’immigrazione sionista, ma la pressione dei coloni lo fa subito revocare.
Le élites palestinesi, invece, hanno proposto più volte tra gli anni Venti e Quaranta la creazione di uno Stato unitario con tanto di rappresentanza ai coloni: due proposte anche troppo accomodanti, visto che parliamo di una violenta minoranza coloniale arrivata in tempi, allora, recentissimi. In entrambi i casi i leader sionisti hanno rifiutato, essendo un’idea decisamente estranea alla concezione suprematista dei sionisti.
[continua]