Dalle sezioni del PCL

In memoria di Felice Del Vecchio

Dal sogno giovanile del "socialismo contadino" alla scoperta del marxismo rivoluzionario

1 Aprile 2024

Scrittore premiato a Viareggio, molisano d'adozione. Il suo impegno tra i paesini rurali del Molise nel dopoguerra

DELVECCHIO_FRONT

DELVECCHIO



Il 24 febbraio scorso all'età di 95 anni è scomparso a Milano Felice Del Vecchio, scrittore e intellettuale premiato a Viareggio.
Nato ai confini del Molise, a Castiglione Messer Marino, da famiglia contadina, visse la sua infanzia nel Molise rurale, tra Roccavivara e Trivento, e parte della sua gioventù a Campobasso.

Con lui avemmo l’onore ed il piacere negli anni ’90 di avere contatti epistolari e telefonici, qualcuno in presenza nel Molise, purtroppo brevi e pochi, vista la distanza con Milano. Conserviamo con cura una sua lettera manoscritta che ci inviò nel 1996 da Milano unitamente a dei suoi brevi saggi dattiloscritti forse inediti, per noi rimasti preziosi. [La lettera e i due saggi sono allegati in versione originale in fondo a questa pagina, con le annotazioni del destinatario. Speriamo di darli alle stampe in un prossimo futuro, insieme ad altri suoi scritti].

Scoprimmo così la sua straordinaria storia personale, peraltro ben riportata nello scritto del 1992 dal titolo Incontro con Felice Del Vecchio dello studioso Giovanni Mascia. Una storia dalla quale, oltre ai ricordi sotto il profilo dell’affetto umano, promanano aspetti pedagogici soprattutto per le nuove generazioni, e significativi pezzi di storia della nostra terra.


DAL SOGNO INGENUO DEL "SOCIALISMO CONTADINO" ALLA PRIMA SCOPERTA DEL MARXISMO

Pur vivendo l’infanzia con uno zio parroco – che pure lo difese con affetto dagli attacchi della curia clerico-fascista a fronte della sua critica e della sua attività controcorrente – aveva maturato sin da giovanissimo l’ingenuo sogno che chiamava “socialismo contadino”, intravisto in un senso di uguaglianza vissuto e percepito nella sua comunità rurale.
Poi, sempre in giovane età, tra i tanti libri ai quali si dedicava nella Biblioteca “Albino” di Campobasso, lesse il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels (in appendice a un libro di Croce sfuggito alla censura fascista), che gli aprì altri orizzonti con la scoperta dell’essenza del marxismo, quello vero e libero dalle mistificazioni borghesi, riformiste e staliniste. Così divenne comunista, e diede una prima sistemazione teorica e pratica alla sua anima istintivamente socialista.


L’IMPEGNO NELLE LOTTE SOCIALI E NEL PCI DEL MOLISE, DURANTE IL PRIMO DOPOGUERRA

Tra stenti e povertà, ottenuta la borsa di studio dalla Provincia di Campobasso per la Normale di Pisa, divenne molto apprezzato in quella città dagli operai, che lo volevano fortemente in ogni fabbrica come oratore del PCI, per via della efficace semplicità con cui sapeva esporre concetti anche complicati, ereditata da quell’abitudine comunicativa che aveva assorbito dalla realtà contadina molisana.

Ed infatti furono gli operai di Pisa a regalargli quel cappotto che non poteva permettersi a dimostrazione del loro affetto, episodio che rimase impresso per sempre nella sua memoria.
Poi l’eco delle lotte contadine del Sud, e per prendervi parte tornò nel Molise, rinunciando alla carriera accademica che pure aveva innanzi. Il suo intenso impegno tra la popolazione molisana quale attivista del PCI si dispiegò dagli anni ’50, sempre in mezzo a stenti col modesto compenso del partito, nell’area di Campobasso (dove inizialmente fu aiutato dall’intellettuale De Filippis, originario di Macchiagodena, che lui definiva «tra l’anarchico e il comunista»), nel Basso Molise, sino a Isernia ai tempi del deputato comunista Giulio Tedeschi.

La sua attività si incentrava sulle lotte per la terra a chi la lavora, sullo sviluppo industriale e agricolo nel Meridione inteso ad evitare l’emigrazione per fame. Un’emigrazione che – lui denunciava – impoveriva in tutti i sensi il Molise, funzionale solo agli extraprofitti dei capitalisti del Nord, e perciò favorita dalla DC anche molisana quale partito della classe dominante.

Ricorda di quei tempi un risvolto: mentre quelli che definiva «i carrieristi» del PCI molisano venivano inviati nei centri più grossi, e dunque più facili per l’oratore, anche come apripista per le cariche parlamentari, lui veniva inviato nei paesini più sperduti, tra il Basso Molise, l’area campobassana e l’isernino, dove era tutto molto più difficile sotto il profilo della comunicazione. Ma non per lui: il suo pregresso rapporto col mondo contadino locale lo aveva dotato, come detto, della capacità di comunicare con efficacissima semplicità concetti difficili e controcorrente, anche alle realtà dei paesini rurali molisani.
E infatti non mancarono gli apprezzamenti positivi dei suoi comizi di paese. Realtà molto disagiate in cui doveva prospettare difficili e complesse alternative di riscatto sociale ed economico, di «risveglio contadino», come diceva, nel legame tra la lotta quotidiana e la prospettiva della società socialista più libera e più giusta.

Nel Basso Molise avvertì che le lotte contadine contro il latifondo di quegli anni avevano caratteristiche e condizioni diverse da quelle della Puglia, in tal guisa da costituirne “la coda”: uno spunto interessante per la storia della nostra terra, meritevole di una specifica analisi che dovremo fare in separata sede.


LA FASE DEL “RIFLUSSO”

Successivamente dovette prendere atto della sconfitta di quelle lotte: l’ondata migratoria investì anche il “suo” Molise nella persistenza del divario tra Nord e Sud d’Italia, rimanendo più aperta che mai la “questione meridionale” già affrontata da Gramsci, e alla quale aveva dedicato degli studi. Tema che oggi si ripresenta con il prospettato aggravio della “secessione dei ricchi” nota come autonomia differenziata.
Proprio in questo svuotamento ulteriore della nostra regione, conseguente all’emigrazione del dopoguerra, Felice individuò una delle cause per cui dal Molise, dopo gli anni ’50 e ’60, non sono più emerse generazioni di scrittori come quelle della sua epoca, essendo stato lui in buona compagnia con Iovine, Rimanelli, Incoronato, tanto per citare alcuni autorevoli esempi.

Nel contempo iniziò ad intuire – anche dal Molise – l’involuzione burocratica volta alla collaborazione di classe che la dirigenza del PCI aveva subito nella fase successiva a quella di Gramsci e Bordiga, cioè dalla segreteria Togliatti in poi.
Sebbene ciò non avesse minimamente e logicamente scalfito le sue convinzioni comuniste, ritenne – giustamente – che nella detta dirigenza del PCI era assente quella «carica rivoluzionaria che avrebbe dovuto avere» .

È in fondo quello che ora per allora rileva anche Marco Ferrando nel suo saggio storico Stalin e il PCI. Tra mito e realtà. Si tratta della cesura netta tra il Partito Comunista d’Italia fondato da Gramsci e Bordiga, nato sull’onda del marxismo rivoluzionario di Lenin e di Trotsky – sia pure con le differenziazioni con il bordighismo – e il PCI stalinizzato da Togliatti in poi.
Felice Del Vecchio stava vivendo il suo contrasto col secondo. La logica di Yalta imposta da Stalin, anche in funzione delle esigenze di autoconservazione della sua privilegiata cricca burocratica, mandava alla dirigenza del PCI togliattiano il compito di boicottare ogni aspirazione comunista e rivoluzionaria delle proprie avanguardie e della sua base, delle masse sfruttate in Occidente e della stessa Resistenza antifascista; essa ben si combinava con la collaborazione di classe e l’entrata nei governi borghesi (per non parlare d’altro).
L’usa e getta che fece De Gasperi del PCI di Togliatti sotto l’egida americana non fermò l’involuzione, sino alla deriva finale del compromesso storico di Berlinguer e alla dissoluzione del PCI nel PDS-PD quale espressione diretta del grande capitale italiano.

La stessa burocrazia stalinista e post-stalinista dell’URSS è finita trasformandosi in quella cricca capitalistica di oligarchi e magnati che si spartirono privatamente i beni già collettivizzati, come lo stesso Felice colse più tardi.
Dall’altro lato c’era però la grande forza di milioni di lavoratori e di oppressi, di intellettuali, di artisti, raccolti intorno al PCI e al marxismo, come fosse un “paese nel paese”, che aspiravano realmente al socialismo quale società più libera e più giusta, ed era questo il mondo a cui apparteneva Felice. Molti rimasero ingabbiati dal falso mito staliniano per poi disilludersi, sostanzialmente ingannati ed ignari dei crimini anticomunisti e controrivoluzionari della burocrazia stalinista e post-stalinista contro il movimento operaio internazionale; tutto ciò che aveva distrutto ogni forma di democrazia operaia, ogni prospettiva mondiale di lotta e di trasformazione socialista, schiacciando la base stessa della Rivoluzione d’ottobre ed annientando la migliore avanguardia che a quella rivoluzione aveva dato vita, in proiezione europea e mondiale.

Ma non lo fu Felice Del Vecchio, che subì quel riflusso temporaneo senza cadere in quella gabbia. Aveva di nuovo intuito bene. Aveva compreso quella involuzione anche se le condizioni date, tanto più nel Molise, non ne favorivano compiutamente la comprensione delle radici storiche nel termidoro stalinista: d’altro lato i vertici del PCI occultavano o calunniavano l’antistalinismo, sotto l’egida del Cremlino.

Non aveva ancora scoperto come affrontare quella «disillusione»: Felice, insomma, aveva sentito il suono della campana, ma ancora doveva scoprire da dove veniva, quel suono. Ed invero col senno di poi individuò la causa di quella sua relativa impasse ben sintetizzata nella sua espressione: «Trotsky aveva capito come stavano le cose, ma io non ero mica Trotsky!».

Tutto questo, però, non prima di essere abusivamente arrestato a 23-24 anni per un suo comizio a Gambatesa contro la legge truffa del 1953, illecitamente vietato, dal titolo “Truffa a Roma e truffa a Gambatesa”. In quel comizio oltre alla legge truffa voleva denunciare l’altra truffa perpetrata da un ex carabiniere in pensione colluso con la lista avversaria ed infiltrato nella lista del PCI di Gambatesa.

Dunque riflusso ma non rassegnazione definitiva, e tanto meno reazione “da destra” allo stalinismo, cioè approdo alle illusioni del «riformismo senza riforme», o al liberalismo progressista, all’assuefazione e alla subalternità rispetto al capitalismo. Certo, decise di mettersi un po’ da parte per capire meglio, ed avvertì un certo suo malessere individuale. Ma la sua levatura lo preservò dalla trappola tesa dalla propaganda borghese incentrata sulla confusione tra gli opposti, cioè tra comunismo e stalinismo, come ancora oggi accade.

Il bello della sua personalità è che, anche da questo momento relativamente negativo rispetto alle sue aspirazioni socialiste, trasse qualcosa di eccezionale dal punto di vista letterario: la sua pregiata opera La chiesa di Canneto, ambientata nella valle molisana del Trigno, premiata a Viareggio ed elogiata da Italo Calvino ed altri letterati, considerata sulla scia del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Quest’opera per Felice rifletteva la fine del suo sogno giovanile, cioè del tentativo della “rinascita contadina” al Sud e nel Molise, dell’ingenuo sogno del «socialismo contadino», come lui lo definiva, combinato con la narrazione della realtà rurale di quella zona del Molise.


L’APPRODO AL MARXISMO RIVOLUZIONARIO

Sicché man mano seguì l’approdo al marxismo rivoluzionario di Lenin, Trotsky, Gramsci, Rosa Luxemburg, e degli altri grandi dirigenti del movimento operaio internazionale. Era in fondo il ritrovare tutto quello che aveva cercato di attuare da giovane comunista nel Molise del dopoguerra. Una maturazione segnata dal suo percorso: «dal mondo contadino al mondo industriale sino agli orizzonti internazionali», come si riporta bene nell’incontro citato con lo studioso Giovanni Mascia.
Ne sono una pregiata testimonianza le illuminanti analisi sui primi congressi del Partito della Rifondazione Comunista (PRC), che ci inviò come detto nel 1996 in allegato alla sua lettera manoscritta, quando eravamo la “sinistra interna molisana del PRC” (il PCL non era ancora sorto), esprimendo il suo pregiato apprezzamento positivo verso gli interventi del delegato molisano (l’attuale coordinatore molisano del PCL), peraltro a dimostrazione del suo legame indissolubile col Molise.

Ci contattò avendo appreso con piacere che anche dal Molise c’era chi si contrapponeva alle posizioni della maggioranza dirigente del PRC, le quali, sia pure in varie forme, erano in sostanziale continuità con quelle del disciolto PCI togliattiano poi berlingueriano (Garavini, Bertinotti, Cossutta, Diliberto e via dicendo), e si concretavano nell’appoggio alle coalizioni del centrosinistra, portatrici di politiche confindustriali, antisociali ed antioperaie, sia nel governo centrale sia nelle giunte locali, peraltro facendo da apripista alla vittoria delle destre.

Nella sua lettera inviataci nel 1996, infatti, elogiava gli interventi dell’attuale coordinatore del Partito Comunista dei Lavoratori in Molise, che all’epoca era delegato al Comitato Politico Nazionale del PRC, intesi a riaggregare e unire intorno ad una piattaforma anticapitalista le classi lavoratrici e sfruttate, italiane e migranti, legando le lotte quotidiane e parziali alla prospettiva del governo dei lavoratori, a porre la questione del programma transitorio e del passaggio delle leve della ricchezza dalla minoranza di capitalisti e banchieri alle classi lavoratrici, al loro Stato, per la pianificazione collettiva della produzione e della distribuzione secondo le regole della democrazia operaia e socialista, riprendendo anche il tema della democrazia consiliare di gramsciana memoria.
Notò con estremo favore che anche dal Molise esisteva chi si richiamava alla teoria ed alla pratica del marxismo rivoluzionario, quasi che fosse una sorta di proiezione del suo passato impegno comunista nella nostra regione.

Questi i due brevi ma preziosi saggi dattiloscritti (pensiamo inediti) che ci inviò nel 1996 in allegato a quella sua lettera, contenenti le sue analisi su tale dibattito congressuale del PRC dell’epoca, e sui quali peraltro chiese una nostra valutazione ed una collaborazione: l’uno intitolato Comunismo "fondato" o comunismo "rifondato"?, del 1994, l’altro del 1995 intitolato Una nota, dedicato alla scissione della destra interna al PRC dell'area di Garavini e Crucianelli in appoggio al governo Dini, confindustriale e dei banchieri.
Saggi che ci furono e ci sono utilissimi nel Molise: illustrazione davvero piacevole da leggere poiché, guarda un po’, elaborata a mo’ di narrativa. Oltre alla lucidità delle sue argomentazioni, si evidenziano due aspetti particolari. La ricostruzione delle posizioni del congresso dell’epoca (quelle di Garavini-Crucianelli e di Bertinotti-Cossutta) e da lui non condivise, veniva descritta con una tale onestà intellettuale che sembrava stessero parlando direttamente i loro portatori, aiutando così a comprenderne al meglio le ragioni sostanziali – errate che fossero – da cui dette tesi prendevano piede. Così ovviamente per le opposte tesi della minoranza della sinistra interna, che invece sposava in pieno.
L’altro aspetto di rilievo era l'efficacia con cui la sua scrittura agevolava nella comprensione della sostanza e del cuore delle problematiche trattate, un metodo davvero geniale nella semplificazione comunicativa di temi molto complessi, anche sotto il profilo delle loro radici storiche. E non ci pare un caso, visto il suo vissuto di cui si è detto: l’assorbimento di quella forma comunicativa diretta e semplificata in cui si era formato e temprato tra i contadini dei piccoli paesini molisani e gli operai di Pisa, contestualmente all’alta qualità della sua scrittura.

In essi smontava le tesi della maggioranza del PRC che riproponevano il vecchio “riformismo senza riforme”, per dirla con Rosa Luxemburg. Poneva in evidenza la questione dei margini redistributivi sempre minori con la fine della fase di espansione economica postbellica, che rendevano ancora più involute e illusorie le proposte riformiste. Ad oggi infatti il termine “riforme” è finito nell’identificarsi con privatizzazioni, autonomia scolastica, federalismo liberista, tagli salariali ed ai servizi pubblici essenziali, nei quali si sono corresponsabilizzati gli stessi dirigenti della sinistra cosiddetta radicale.

Si ha un esempio della sua elegante efficacia esplicativa nella parte in cui compara le posizioni riformiste all’interno del PRC dell’epoca: quella della “destra” (prima Garavini-Crucianelli, poi Cossutta-Diliberto) e quella del “centro” (tesi di maggioranza all’epoca Bertinotti). Della prima descriveva il carattere di aperta resa al capitalismo, sul presupposto della impraticabilità di politiche anticapitalistiche e dunque del poter agire solo come sinistra in un «governo confindustriale buono», o «meno cattivo»; della seconda evidenziava il massimalismo verbale antagonista ma in realtà contraddittorio e inconseguente.
La tesi della destra interna «ha finito per rendere esplicito e coerente quel che era implicito e incoerente nelle tesi di Bertinotti», chiosava Felice del Vecchio, con la sua consueta genialità esemplificativa, cogliendo a pieno nel segno.

Cercheremo di riprodurre questi suoi due brevi saggi dattiloscritti che ci inoltrò nel 1996, attualissimi: di scrittori ed intellettuali di questa levatura ne nascono raramente, tanto più se pensiamo al nostro Molise attuale.
Di qui un grande rammarico: quello di non avere avuto la possibilità di maggiori legami, contatti e collaborazioni con il caro Felice, a causa della distanza geografica ed altre vicissitudini. Avremmo di certo arricchito il nostro patrimonio di cultura e strumenti di analisi, a partire dalla storia più diretta delle lotte sociali nel Molise della sua epoca, memoria preziosa per affrontare le questioni dell’oggi.
I due brevi saggi dattiloscritti e probabilmente inediti ai quali abbiamo prima accennato e che abbiamo avuto la fortuna di ricevere direttamente da lui [vedi in fondo a questa pagina], insieme alla sua storia, rimangono un prezioso insegnamento per l’attualità, che perciò continueremo a riprodurre e diffondere. Soprattutto per le generazioni a venire, per tutti quelli che vorranno spezzare l’ingannevole confusione tra stalinismo e comunismo, che non vogliono arrendersi all’ineluttabilità delle ingiustizie e delle miserie del capitalismo e che, prima o poi, saranno chiamati a scegliere tra barbarie e socialismo.

Tiziano Di Clemente, coordinatore PCL Molise

CONDIVIDI

FONTE

ALLEGATI