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La politica di Lenin. Principi e tattica per la rivoluzione [prima parte]

21 Gennaio 2024

#centovoltelenin

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Iniziamo, con questo, la pubblicazione sul nostro sito di una serie di articoli su Lenin. Non è solo un modo di ricordare nella propaganda uno dei più grandi dirigenti marxisti della storia. È soprattutto un modo per riflettere su chi sia per noi Lenin e su come cercare di far vivere il suo insegnamento nella pratica e nell'elaborazione della nostra organizzazione.



Autonomia di classe e battaglia per l’egemonia, intransigenza dei princìpi e duttilità della tattica: sono questi gli elementi essenziali della politica di Lenin, sia sul versante russo sia sul versante internazionale. Con una precisa avvertenza: nessuno di quegli elementi è in qualche modo “isolabile”, ed anzi ognuno di essi trova il suo stesso significato proprio nella relazione dialettica con l’insieme degli altri fattori. E questa relazione a sua volta è governata dal fine: il rovesciamento della borghesia, la conquista proletaria del potere. Tenere presente questo insieme, razionalizzarlo, assimilarlo è condizione decisiva per comprendere il leninismo nella sua profondità e attualità. Rimuoverlo o disperderlo significa fare, fosse pure involontariamente, la caricatura del leninismo; e prestarsi a quelle innumerevoli e interessate deformazioni di cui è stato oggetto da parte della socialdemocrazia, dello stalinismo, del centrismo.


LUXEMBURG E LENIN NELLA BATTAGLIA INTERNAZIONALE ANTIREVISIONISTA

L’autonomia di classe del movimento operaio dalla borghesia è la base stessa del marxismo. Tutta la politica di Lenin parte dalla riaffermazione di questo principio basilare. E non in termini astratti, ma nel vivo della battaglia politica all’interno del movimento operaio internazionale e della socialdemocrazia russa.

Lungo il corso della sua evoluzione storica, già nel primissimo Novecento la II Internazionale aveva visto riaffacciarsi al proprio interno tendenze apertamente revisioniste che, mettendo in discussione la prospettiva stessa della rivoluzione socialista, attaccavano il principio dell’indipendenza politica di classe e legittimavano scelte di collaborazione con governi borghesi. Se la via “realistica” al socialismo passava ormai attraverso la progressiva modifica degli equilibri parlamentari e istituzionali, perché mai continuare ad opporre un’obiezione di principio all’ingresso di propri ministri nei governi borghesi “progressisti”? Se i socialisti fossero determinanti per una più avanzata maggioranza politica di governo, un loro disimpegno e “isolamento propagandistico” non favorirebbe forse le forze reazionarie a tutto danno del movimento operaio?

Eduard Bernstein aveva dato corposità teorica a queste sollecitazioni, ben presenti nel settore parlamentare della socialdemocrazia tedesca e nelle sue rappresentanze istituzionali regionali (lander). E il “caso Millerand” in Francia nel 1900, con l’aperto ingresso di un parlamentare socialista in un governo borghese, testimoniava che la questione era tutt’altro che una questione teorica.

Queste posizioni furono inizialmente combattute dalla maggioranza delle forze dell’Internazionale. Ma in termini e da angolazioni significativamente differenti.

Kautsky e il suo “centro” svilupparono un contrasto debole, segnato dalla preoccupazione dominante di una possibile scissione della destra parlamentare della socialdemocrazia: un contrasto che finiva col ridurre la questione, fondamentalmente, alla necessaria riaffermazione dell’autorità del partito nei confronti dei suoi gruppi parlamentari, ma che sminuiva il carattere politico e di principio del problema. Era l’esordio storico del centrismo, e il presagio della sua deriva futura.

Fu invece la sinistra rivoluzionaria dell’Internazionale, a partire da Rosa Luxemburg, a sviluppare contro il revisionismo una battaglia politica di fondo e di principio.

Riforma sociale o rivoluzione?, scritto dalla grande Rosa nel 1898 in diretta risposta a Bernstein, è sotto questo profilo un testo magistrale che demolisce l’intero impianto teorico del revisionismo e ne sviscera impietosamente le implicazioni politiche e pratiche: innanzitutto l’abbandono dell’indipendenza politica di classe a favore del ministerialismo. E non si trattava solamente di una risposta teorica. Luxemburg denunciò con vigore tutti i sintomi della cancrena che si avvicinava: dalle combinazioni governative tra socialdemocrazia tedesca e centro borghese cattolico in alcuni lander regionali, sino al voto a favore da parte di settori parlamentari socialdemocratici a stanziamenti governativi per la spesa militare. Ed estese la battaglia al terreno internazionale: contrastando con due bellissimi articoli il cosiddetto “esperimento belga”, che nel 1902-'03 aveva visto il sacrificio delle potenzialità di lotta indipendente del movimento operaio ad un inammissibile blocco politico, fosse pure transitorio, tra la socialdemocrazia belga e il liberalismo borghese in nome di una riforma (oltretutto contraddittoria) del sistema elettorale.

Fu proprio questa vigorosa battaglia contro le prime manifestazioni della deriva emergente a rivelare agli occhi di Rosa la timidezza opportunistica del centro di Kautsky, il suo rifiuto di una battaglia vera, e quindi ad affrettare la sua rottura col kautskismo nel 1908 (con lo scritto Teoria e prassi).

La tendenza bolscevica della socialdemocrazia russa fu parte della battaglia della sinistra rivoluzionaria della II Internazionale. È vero: Lenin comprenderà più tardi di Rosa la natura politica del centrismo kautskiano (e quando la comprenderà, la sua contrapposizione al centrismo kautskiano sarà semplicemente spietata). Ma la sua opposizione al revisionismo fu dall’inizio caratterizzata da un’argomentazione di principio intransigente che andava ben al di là dell’obiezione kautskiana. Valga per tutti l’articolo del 1908 dedicato interamente alla denuncia del fenomeno revisionista e alla difesa dell’indipendenza politica del proletariato internazionale:

«L’esperienza delle alleanze, degli accordi e dei blocchi col liberalismo socialriformista in Occidente e col riformismo liberale (cadetti) nella Rivoluzione russa ha dimostrato in modo convincente che questi accordi non fanno che annebbiare la coscienza delle masse, non accentuano ma attenuano l’importanza effettiva della loro lotta, legando i combattenti agli elementi più inetti alla lotta, più instabili e inclini al tradimento. Il millerandismo francese, che è l’esperienza più notevole di applicazione della tattica politica revisionista su grande scala, su scala veramente nazionale, ha dato del revisionismo un giudizio pratico che il proletariato di tutto il mondo non dimenticherà mai.»

«‘Il fine è nulla, il movimento è tutto’, queste parole alate di Bernstein esprimono meglio di lunghe dissertazioni l’essenza del revisionismo. Determinare la propria condotta caso per caso; adattarsi agli avvenimenti del giorno, alle svolte provocate da piccoli fatti politici; dimenticare gli interessi vitali del proletariato e i tratti fondamentali di tutto il regime capitalista, di tutta l’evoluzione del capitalismo; sacrificare questi interessi vitali a un vantaggio reale o supposto del momento, tale è la politica revisionista.» (Lenin, Marxismo e revisionismo, in Opere scelte, vol. II, p. 10).

E non fu un testo isolato. Basti pensare a quanto Lenin scriveva, ad esempio, già nel 1899:

«Che cosa hanno introdotto di nuovo in questa teoria i chiassosi ‘innovatori’ che hanno al presente sollevato tanto rumore, raggruppandosi attorno al socialista tedesco Bernstein? Assolutamente nulla: non hanno fatto fare un solo passo avanti alla scienza che Marx ed Engels ci hanno raccomandato di sviluppare; non hanno insegnato al proletariato nessun nuovo metodo di lotta; non hanno che ritirarsi, prendendo a prestito frammenti di teorie arretrate e predicando al proletariato non la teoria della lotta, ma la teoria dell’arrendevolezza; dell’arrendevolezza nei confronti dei peggiori nemici del proletariato, dei governi e dei partiti borghesi.» (Lenin, Il nostro programma).

Detto di passata, la riscoperta di questi articoli di Lenin è già di per sé sufficiente a smentire radicalmente la tesi tanto diffusa di una natura esclusivamente “russa” del bolscevismo, di una sua estraniazione dalla storia del movimento operaio europeo. La verità è opposta: nonostante l’indubbia specificità delle condizioni russe, nonostante le specificità delle condizioni di vita della socialdemocrazia russa del primo Novecento, condannata ripetutamente alla clandestinità, Lenin e il bolscevismo trovarono naturale partecipare attivamente alla vita dell’Internazionale e, in essa, alla battaglia per il marxismo rivoluzionario e per l’indipendenza politica di classe. Socialdemocrazia e stalinismo, per ragioni diverse, hanno cancellato questo Lenin internazionalista del primo Novecento. È bene che i marxisti rivoluzionari lo riportino oggi alla luce.
 

IL BOLSCEVISMO CONTRO L'ALLEANZA CON LA BORGHESIA LIBERALE

Ma è soprattutto nella vicenda russa che la battaglia leninista per l’autonomia del movimento operaio si dispiegò in tutta la sua ricchezza come asse centrale del bolscevismo.
Tanta parte della vulgata staliniana ha teso a ricostruire la storia del bolscevismo russo, come storia di una ricerca di blocco con la borghesia liberale in nome della necessità della “rivoluzione democratica”: una ricerca che poi sarebbe naufragata per il disimpegno della borghesia russa. Non era questo il senso – essi dicono – della vecchia parola d’ordine bolscevica della “dittatura democratica degli operai e dei contadini”?

Nulla è più lontano dalla verità.

La formula della “dittatura democratica degli operai e dei contadini”, varata da Lenin alla vigilia della rivoluzione del 1905, rivelava – è vero – un problema irrisolto (e non secondario) circa la dinamica della Rivoluzione russa e, in essa, circa il rapporto tra misure democratiche e misure socialiste, quindi tra proletariato e masse contadine. Era, per così dire, una formula “algebrica”, non priva di rischi, che solo lo sviluppo della rivoluzione del ’17 e la battaglia di Lenin avrebbero tradotto – come vedremo – in termini conseguentemente rivoluzionari.

Ma equivocare tra tale questione e il rapporto del bolscevismo con la borghesia liberale è una colossale mistificazione. Al di là delle sue contraddizioni irrisolte la formula della “dittatura democratica degli operai e dei contadini” non solo escludeva nel modo più netto ogni blocco politico con la borghesia liberale russa, ma si basava esattamente sulla rivendicazione della rottura più radicale con quella borghesia.

In definitiva, tutta la concezione leninista della Rivoluzione russa, e tutta la battaglia del bolscevismo contro il menscevismo – dal 1903-05 sino all’ottobre del ’17 – ruotano attorno a questo nodo strategico cruciale: la lotta per l’indipendenza del proletariato russo dal liberalismo borghese progressista.

La concezione menscevica della Rivoluzione russa, in incubazione dal 1902-03 ma sviluppatasi compiutamente alla vigilia del 1905, si basava su un assunto molto chiaro: la prossima Rivoluzione russa sarà una rivoluzione borghese in virtù dell’arretratezza della Russia feudale e zarista, quindi il compito della socialdemocrazia sarà quello di rispettare questa naturale tappa storica, rispettando l’egemonia borghese sulla rivoluzione, ed anzi incoraggiandola attivamente: perché solo se la borghesia si deciderà a prendere la testa della “sua” rivoluzione, superando incertezze e tentennamenti, si potrà avviare una vera modernizzazione capitalistica e occidentale della Russia, con il suo parlamento e le sue istituzioni liberali; e solo quando questo accadrà potrà iniziare la lotta della socialdemocrazia per il socialismo, che è tappa storica successiva. Questa concezione generale – che interpretava il materialismo storico in termini positivisti, secondo una visione sempre più dilagante nella II Internazionale – finiva con il teorizzare di fatto una politica di blocco con la borghesia nella “rivoluzione democratica”: quindi una sospensione della lotta contro la borghesia nel quadro di tale rivoluzione.

Ebbene: il bolscevismo si sviluppò contro questa concezione e questa politica. A partire da una concezione per molti aspetti opposta della Rivoluzione russa e della sua prospettiva. Lenin riconosceva il carattere democratico dei compiti immediati della rivoluzione (riforma agraria e Assemblea costituente). Ma non per questo riconosceva un ruolo egemone della borghesia nella rivoluzione. Al contrario. Lenin analizzava meticolosamente i mille intrecci tra zarismo e liberalismo russo, tra borghesia industriale e proprietà fondiaria, tra borghesia russa e capitale internazionale. Perciò stesso comprendeva che la borghesia russa non solo non si sarebbe posta alla testa di una rivoluzione democratica, ma temeva la rivoluzione popolare più di ogni altra cosa: il suo obbiettivo massimo era il superamento dell’autocrazia zarista in direzione di una monarchia costituzionale, ma proprio per disinnescare la miccia di una possibile esplosione rivoluzionaria antizarista. Del resto: lo stesso liberalismo borghese nella Rivoluzione francese del 1789 o nella rivoluzione inglese della metà del Seicento, o nel risorgimento nazionale italiano, non si era forse sistematicamente contrapposto alla trascrescenza popolare della rivoluzione per non mettere a rischio il proprio ruolo sociale? Il giacobinismo francese, gli indipendenti di Cromwell, il mazzinianesimo italiano, le tendenze piccolo borghesi radicali delle rivoluzioni borghesi: non si erano forse scontrate, persino al di là delle loro intenzioni iniziali, con il carattere controrivoluzionario della borghesia liberale? E se ciò era accaduto persino in epoche storiche non ancora segnate prevalentemente dalla contraddizione di classe tra capitale e lavoro e dello sviluppo del movimento operaio, quale ruolo rivoluzionario avrebbe mai potuto esercitare la borghesia russa a fronte di una classe operaia in rapida espansione e in un contesto internazionale segnato dall’ascesa sociale e politica del movimento operaio? La conclusione di Lenin era inequivoca: “La borghesia russa è e sarà controrivoluzionaria sullo stesso terreno democratico”.

Il suo modello di riferimento – diceva Lenin – sarà la “via prussiana”: un compromesso politico con lo zarismo attorno a un progetto di modernizzazione autoritaria, controllata, dall’alto, senza la partecipazione popolare e contro le rivendicazioni operaie e contadine. Per questo un’autentica rivoluzione democratica capace di realizzare in modo conseguente una radicale riforma agraria e di conquistare l’Assemblea costituente potrà essere realizzata solamente dagli operai e dai contadini russi contro la borghesia russa. La formula della “dittatura democratica operaia e contadina” rifletterà precisamente questa prospettiva di rottura col liberalismo russo in aperta contrapposizione al menscevismo.

Aggiungo che la stessa concezione leninista del partito in contrapposizione alla concezione menscevica – quale fu codificata nel II congresso del POSDR – aveva una precisa connessione con le diverse concezioni delle due tendenze circa la prospettiva della rivoluzione russa e il rapporto con la borghesia: il menscevismo ricavava dall’“inevitabile” egemonia borghese sulla rivoluzione democratica una funzione sussidiaria della socialdemocrazia russa che doveva limitarsi a rappresentare le rivendicazioni economiche degli operai lasciando “la politica” alla borghesia. Da qui anche la famosa rivendicazione avanzata da Martov di un “partito largo” cui potesse appartenere ogni scioperante. Il bolscevismo ricavava dalla necessaria egemonia operaia e contadina sulla rivoluzione, in contrapposizione alla borghesia, la necessità di un partito d’avanguardia di militanti e di quadri radicato nella classe e tra le masse, capace di esercitare un ruolo rivoluzionario indipendente ed egemone.

Infine, la diversa concezione della Rivoluzione russa in ordine al rapporto con la borghesia coinvolge l’intero confronto tra bolscevismo e menscevismo attorno alla tattica elettorale. Il menscevismo rivendicava tradizionalmente (e praticava) le alleanza politico-elettorali con il liberalismo russo, ciò che nei fatti significava l’adattamento del menscevismo alla piattaforma liberale. Il bolscevismo si oppose ai blocchi elettorali con i liberali rivendicando l’autonoma presenza della socialdemocrazia russa alle elezioni (e ammettendo invece la possibilità di accordi elettorali tecnici nelle cosiddette elezioni di secondo livello, riservate ai soli “grandi elettori”).


LA POLITICA LENINISTA NELLA RIVOLUZIONE RUSSA: L'OPPOSIZIONE DI PRINCIPIO AI GOVERNI BORGHESI

Ma fu il 1917 la cartina di tornasole decisiva della politica del bolscevismo.

A seguito della rivoluzione di febbraio, che aveva rovesciato lo zarismo sotto l’onda d’urto di una gigantesca sollevazione popolare, i dirigenti menscevichi e socialrivoluzionari – largamente maggioritari nei soviet – si predisposero a sostenere il governo borghese provvisorio, dominato dal partito borghese dei cadetti e dal partito degli ottobristi. E a partire dal maggio ’17 entrarono direttamente in un governo di coalizione con la borghesia. Non era forse borghese la Rivoluzione russa? Non erano forse democratiche le rivendicazioni centrali della rivoluzione di febbraio? Occorreva consolidare la tappa democratica della rivoluzione e l’unità democratica con la borghesia, evitando di spaventarla con rivendicazioni socialiste storicamente immature. Questa era la politica del menscevismo.

La posizione di Lenin fu esattamente opposta. In aperto contrasto con la stessa posizione contraddittoria e incerta di una parte del gruppo dirigente bolscevico, Lenin sviluppò una battaglia decisiva per affermare controcorrente l’opposizione di classe del proletariato russo nei confronti del nuovo governo borghese. È vero, affermava Lenin, le rivendicazioni di febbraio erano di carattere democratico. Ma il governo borghese scaturito da febbraio e sostenuto dal menscevismo si opponeva – non a caso – alla loro realizzazione: negava la terra ai contadini, rifiutava di convocare l’Assemblea costituente, continuava la guerra imperialista in totale contrapposizione alla rivendicazione della pace. Il problema non era premere sul governo borghese perché rispondesse alle richieste di massa. Il problema era di spiegare alle masse, sulla base della loro stessa esperienza, che nessun governo della borghesia e di coalizione con la borghesia poteva soddisfare le rivendicazioni democratiche elementari. E che solo rompendo con la borghesia e concentrando nelle proprie mani, cioè nei soviet, tutto il potere era possibile realizzare le rivendicazioni di febbraio.

Questa soluzione, a sua volta, avrebbe intrecciato inevitabilmente il completamento della rivoluzione democratica con la rivoluzione socialista, e la rivoluzione socialista russa con lo sviluppo della rivoluzione socialista internazionale. Nelle Tesi di aprile, Lenin sviluppa così sino in fondo quel principio di indipendenza dalla borghesia che già la formula della “dittatura democratica degli operai e dei contadini” conteneva; ma lo sviluppa contro le ambiguità di quella formula e in opposizione a chi si aggrappava ad essa per difendere una politica di sostegno, seppure critico, verso il governo borghese provvisorio. La vittoria di Lenin nella battaglia interna al bolscevismo su questo punto cruciale fu determinante per la stessa sorte della Rivoluzione russa.

Questa politica di indipendenza di classe fu peraltro difesa e affermata da Lenin in un altro passaggio decisivo del processo rivoluzionario del 1917: il passaggio dell’agosto. È un vero passaggio di scuola per la politica rivoluzionaria. Nell’agosto ’17 il governo borghese di Kerensky, che un mese prima aveva colpito e represso il partito bolscevico schiacciandolo nella clandestinità, fu apertamente attaccato e insidiato da destra, per opera di una controrivoluzione militare guidata da un generale zarista (Kornilov). Non si doveva dunque dismettere, fosse pure temporaneamente, l’opposizione di classe al governo Kerensky, e passare al sostegno politico del governo democratico contro la reazione zarista? Non era questa la condizione stessa della difesa della rivoluzione di febbraio dal tremendo pericolo della controrivoluzione militare?

La pressione sul bolscevismo fu fortissima e aprì brecce in settori dirigenti del partito. Ma Lenin mostrò un’intransigenza inflessibile. Certo, si doveva combattere attivamente e in prima fila la reazione controrivoluzionaria con la più ampia rivendicazione dell’unità di lotta di tutte le forze operaie e popolari. Ma questo non significava affatto sostenere politicamente Kerensky. Al contrario, occorreva dire la verità alle masse, nel momento stesso dell’unità d’azione: proprio la politica di Kerensky aveva aperto le porte a Kornilov, proprio la negazione delle rivendicazioni di febbraio e la repressione antioperaia e antibolscevica aveva allargato il margine di manovra della controrivoluzione. Dunque, la lotta per la terra, per l’armamento del popolo, per l’Assemblea costituente era più che mai attuale proprio per indebolire le basi sociali della controrivoluzione, approfondire le sue contraddizioni e sconfiggerla: ciò che implicava esattamente la continuità dell’opposizione politica al governo, non la sua rimozione:

«E anche adesso non dobbiamo sostenere il governo Kerensky. Verremmo meno ai nostri principi. Come, ci si domanderà, non si deve dunque combattere Kornilov? Certamente bisogna combatterlo. Ma non è la stessa cosa. Vi è un limite tra le due posizioni, e questo limite alcuni bolscevichi lo sorpassano, cedendo al ‘conciliatorismo’, lasciandosi trascinare dal corso degli eventi.»

«Noi facciamo e faremo la guerra a Kornilov come le truppe di Kerensky, ma non sosteniamo Kerensky, anzi smascheriamo la sua debolezza. Qui sta la differenza. È una differenza abbastanza sottile ma essenziale e che non si può dimenticare.» (Lenin, Al Comitato Centrale del POSDR, pp. 273-74).

Questa posizione di principio, che riaffermava l’opposizione comunista al governo di “centrosinistra”, non ostacolò la battaglia contro la reazione monarchica che finì sconfitta, col concorso degli stessi bolscevichi. In compenso creò le migliori condizioni perché un mese dopo il bolscevismo apparisse l’unico possibile riferimento alternativo per l’avanguardia di massa degli operai, dei contadini, dei soldati a fronte del fallimento del governo di coalizione. Era la premessa decisiva dell’Ottobre.

È appena il caso di osservare che la Rivoluzione d’ottobre si realizzò rovesciando un governo di centrosinistra, frutto di una rivoluzione democratica e sostenuto dai vecchi partiti di sinistra: è bene ricordarlo ai tanti teorizzatori di un Lenin precursore dei “fronti democratici” e dei “governi progressisti”.

La lezione della Rivoluzione russa circa la necessaria indipendenza politica dei comunisti fu estesa da Lenin alla III Internazionale Comunista. Le fondamenta programmatiche dell’Internazionale, già al primo congresso del 1919, furono al riguardo inequivocabili: il rifiuto di ogni coalizione con la borghesia, di ogni sostegno, diretto o indiretto, ai governi borghesi, fu assunto dall’intero movimento comunista internazionale delle origini come discriminante di fondo nei confronti del riformismo e del centrismo. Peraltro, proprio il rifiuto di ogni sostegno ai “propri” governi di guerra e la rivendicazione del disfattismo rivoluzionario aveva rappresentato il terreno della rottura definitiva col socialsciovinismo riformista della II Internazionale e della costituzione della III Internazionale. Successivamente, in occasione del secondo congresso dell’Internazionale, il rifiuto di ogni forma di coalizione o sostegno ai governi della borghesia, anche dei più democratici, rientrò tra le 21 condizioni formalmente poste per l’adesione all’Internazionale: e quindi rappresentò in quel contesto uno dei terreni di demarcazione di principio da ogni forma di centrismo conciliatore.

La stessa critica dell’Estremismo, malattia infantile del comunismo (su cui tornerò) – contrariamente al diffuso luogo comune seminato ad arte dallo stalinismo – non ammorbidì affatto l’intransigente opposizione ad ogni governo borghese. Al contrario, proprio nell’Estremismo è possibile cogliere, di passata, l’ampia argomentazione di Lenin in replica ai comunisti inglesi su come meglio prepararsi a rovesciare un possibile futuro governo laburista, “governo di furfanti e della borghesia”, entro la più totale indisponibilità a qualsiasi attenuazione della critica dei comunisti nei loro confronti. Così come, nel quadro della difesa della politica seguita dalla sezione tedesca (criticata invece dalla sinistra interna), Lenin non mancò di rigettare l’argomento teoricamente e politicamente sbagliato secondo cui sarebbe stato possibile entro la democrazia borghese un governo di sinistra al di sopra delle classi quale passo transitorio verso la dittatura del proletariato: no, diceva Lenin, entro la repubblica borghese ogni governo, quale che sia la sua composizione politica, altro non sarebbe di fatto che un governo della classe borghese per il quale i comunisti non possono portare alcuna responsabilità. E proprio la denuncia di ogni governo come comitato d’affari della borghesia anche nella repubblica più democratica è al centro dell’elaborazione leninista di Stato e rivoluzione, del Rinnegato Kautsky e di centinaia di articoli.

Infine, il principio della rottura con la borghesia e il rifiuto di ogni forma di governismo borghese fu riaffermato in relazione al contesto dei paesi coloniali e semicoloniali: dove il Congresso Internazionale dei popoli oppressi di Baku (1920) e le Tesi dell’Internazionale sulla questione coloniale distinguevano nettamente la possibile convergenza dei comunisti con movimenti nazionali di liberazione radicali e rivoluzionari a guida piccolo-borghese (vedi la proposta dei fronti unici antimperialisti) da ogni blocco con le forze della borghesia nazionale indigena, agenzia dell’imperialismo presso il popolo oppresso.

Su ogni terreno e da ogni versante l’antigovernismo bolscevico rappresentò il recupero più coerente della tradizione rivoluzionaria di Marx e di Engels. Solo la malafede o l’ignoranza possono negare o nascondere questa verità.
 

LA CONQUISTA DELLA MAGGIORANZA DELLA CLASSE: LA LOTTA DI LENIN CONTRO L'ESTREMISMO

E tuttavia una lettura del bolscevismo semplicemente e solo come difesa dell’autonomia di classe e intransigenza dei princìpi, pur cogliendo un elemento essenziale di verità, finirebbe anch’essa per darne un’immagine semplificata e poco formativa della politica di Lenin. Magari un’immagine cara al bordighismo e a qualche setta ultrasinistra, ma semplicemente non vera, non corrispondente alla realtà.

Per Lenin la difesa ostinata e prioritaria del principio dell’autonomia di classe e del rifiuto di ogni coalizione con la borghesia non fu mai un fine a sé, una semplice linea di confine, un puro atto di autodemarcazione. Fu sempre in funzione della prospettiva rivoluzionaria reale. Quindi fu sempre connessa e dialettizzata alla politica di conquista della maggioranza delle masse politicamente attive, che è condizione decisiva per la conquista proletaria del potere. E, a sua volta, l’azione di conquista della maggioranza è la politica tesa a strapparla all’influenza di quei partiti e direzioni (riformiste, centriste, nazionaliste borghesi o piccolo borghesi) che controllano le masse in funzione della democrazia borghese e/o imperialista: è la lotta per un’altra direzione, un’altra egemonia nella/della lotta di massa.

Questo è un punto davvero essenziale della politica di Lenin. Una lunga tradizione, particolarmente forte nel filone togliattiano dello stalinismo, ma soprattutto nella “nuova” sinistra italiana, ha teso spesso a contrapporre Gramsci e Lenin nella questione strategica dell’egemonia. Secondo questa lettura, Lenin avrebbe incarnato in buona sostanza una tradizione rivoluzionaria operaista-economicista in qualche modo espressione dell’arretratezza russa, del carattere semplificato di quella società civile e della particolare debolezza di quello Stato (il tutto secondo un inquadramento esclusivamente “russo” del fenomeno bolscevico). Viceversa, Gramsci avrebbe incarnato un marxismo creativo, vitale, occidentale, espressione della maggiore complessità della società civile europea e quindi capace di superare la vecchia rozzezza dell’operaismo e dell’economicismo russo in direzione del concetto dell’egemonia.

Questa rappresentazione è falsa da cima a fondo.

Da un lato deforma il pensiero e la politica di Gramsci per avallarne un inesistente antileninismo (tema che non rientra nell’economia di questo scritto). Dall’altro ignora soprattutto un aspetto essenziale dell’intera politica di Lenin, che è per l’appunto la battaglia per l’egemonia.
La battaglia per l’egemonia – nel pensiero e nella politica di Lenin – si pone a due livelli distinti e intrecciati: la battaglia per l’egemonia nella classe e la battaglia per l’egemonia della classe sull’insieme delle masse oppresse e sfruttate, sul blocco sociale dell’alternativa rivoluzionaria.

Sul primo terreno Lenin sviluppò una polemica costante contro le posizioni, generalmente estremiste (e spesso settarie), che si attestavano sulla pura e semplice petizione comunista e rivoluzionaria di tipo identitario senza curarsi della conquista delle masse.

Queste posizioni, apparentemente radicali, hanno, secondo Lenin, un risvolto teorico e pratico disastroso. Sul piano teorico contraddicono l’essenza stessa del marxismo come guida per l’azione rivoluzionaria, ostile per definizione alla semplice passività propagandistica. Sul piano politico sanciscono la rinuncia alla costruzione di una direzione di massa alternativa e quindi favoriscono la tenuta del controllo burocratico riformista (o centrista) nelle masse stesse. Il bolscevismo si è quindi costruito e affermato contro queste posizioni sul piano nazionale e internazionale. E nel corso di tutta la sua storia.

È relativamente nota la polemica di Lenin contro il rifiuto di lavorare nei sindacati di massa e contro il rifiuto alla partecipazione ai parlamenti borghesi. Meno nota è la natura dell’argomentazione di Lenin e il fatto che quella battaglia sia stata sviluppata nello stesso contesto russo e ben prima della precipitazione rivoluzionaria del ’17.

Dopo la sconfitta della Rivoluzione russa del 1905, e in particolare negli anni 1908-1910, Lenin fu impegnato nelle fila stesse del bolscevismo in uno scontro politico durissimo contro le tendenze dell’otzovismo e dell’ultimatismo. Queste tendenze rispondevano alla sconfitta della rivoluzione e alla diffusa demoralizzazione con una radicalizzazione formalistica delle posizioni: “Che senso ha lavorare in sindacati in larga misura controllati da Zubatov e dalla polizia zarista? Che senso ha partecipare ad elezioni truccate, entro regole elettorali vessatorie e umilianti per la socialdemocrazia russa? Che senso ha puntare a partecipare a una Duma reazionaria, puntello dello zarismo, frutto della sconfitta della rivoluzione?”

La proposta era semplice: uscita dai sindacati e boicottaggio della Duma. Una proposta che faceva proseliti nel bolscevismo perché appariva pura, intransigente, frontalmente contrapposta a quel liquidazionismo menscevico che puntava alla legalizzazione della socialdemocrazia entro una sorta di costituzionalizzazione dello zarismo. La polemica di Lenin fu durissima contro tali posizioni. E non, come potrebbe intendersi, da un versante per così dire “moderato”, di chi si preoccupa semplicemente di salvaguardare la presenza “istituzionale” del partito. Ma dal versante della prospettiva rivoluzionaria. Proprio perché la rivoluzione è stata temporaneamente sconfitta, proprio perché il movimento di massa è ripiegato, proprio perché i rivoluzionari sono più deboli e isolati tra le masse, proprio per questo il problema decisivo per i rivoluzionari non è quello di “arrendersi” al proprio isolamento, costruendovi sopra una razionalizzazione teorica e una retorica formalistica ma, all’opposto, è quello di rimontare la china utilizzando tutti i possibili canali di rapporto con le masse, anche i più distorti e deformi, anche quelli offerti dall’odiato zarismo: perché solo così è possibile utilizzare a pieno ogni spazio per sviluppare controcorrente la coscienza dei lavoratori e delle masse, contrastare la sfiducia dilagante, inserirsi in ogni contraddizione e fermento di ripresa, contrastare la presa del menscevismo liquidatore e opportunistico. Tutte condizioni decisive per favorire il rilancio rivoluzionario e, in esso, l’egemonia della socialdemocrazia rivoluzionaria.

È utile ricordare che proprio il dispiegamento di questa politica permise ai bolscevichi di conquistare alla lunga posizioni egemoni in importanti sindacati nel momento della ripresa delle lotte (1912-14) e anche di guadagnare una presenza modesta ma preziosa nella Duma, che si rivelerà efficacissima nell’agitazione disfattista contro la guerra. Non a caso nella polemica dell’Estremismo, dieci anni dopo, Lenin richiama questa esperienza del bolscevismo e la sua attualità tanto più nel contesto europeo occidentale. Perché tanto più in un contesto segnato, a differenza che in Russia, da una tradizione storica della democrazia borghese parlamentare, dalla presenza di forti e radicati sindacati di massa, sarebbe del tutto assurdo, dal punto di vista della politica rivoluzionaria, voltare le spalle per principio a questi ambiti di intervento. Tanto più in Occidente, quello sarebbe il più grande regalo alla democrazia borghese, alle burocrazie dirigenti dei sindacati, all’opportunismo riformista e centrista.

Larga parte della polemica contro l’estremismo nel 1920 si appoggia proprio sull’argomento della maggiore complessità della rivoluzione in Occidente rispetto alla vecchia Russa: e basterebbe questo riferimento semplice per smentire tutta la vulgata ricorrente sulla cosiddetta angustia nazionale del bolscevismo russo.

“Ma l’opportunismo parlamentare e sindacale, così diffuso in Occidente, non mostra forse il carattere corruttivo del parlamento e dei sindacati verso le forme del movimento operaio? Non è questa una buona ragione per tenersi fuori da quelle sedi?” Così argomentava, con sfumature interne diverse, il grosso dell’estremismo antileninista. Ma la risposta di Lenin (e di Trotsky) demistificava nel metodo l’equivoco di fondo di quella obiezione.

Certo: il parlamentarismo borghese esercita una posizione corruttrice. Così come l’ambiente della burocrazia sindacale. Più in generale, tutta la politica rivoluzionaria e tutti i rivoluzionari, quale che sia il loro ambito d’intervento, sono esposti alla pressione quotidiana della società borghese, delle sue istituzioni, delle sue agenzie nel movimento operaio. Ma pensare di ovviare a questo rischio sottraendosi alla politica di massa significava semplicemente rinunciare alla rivoluzione.

Ben altra doveva essere la risposta: quella di costruire un partito capace di ricondurre il carattere multiforme della propria politica di massa, in ogni sede del suo esercizio, ai princìpi della rivoluzione, alla tensione verso il fine. Capace di subordinare il lavoro parlamentare alla prospettiva di rovesciamento del parlamento borghese, contro ogni adattamento alle sue regole del gioco. Capace di subordinare il lavoro sindacale alle prospettive della conquista proletaria del potere, contro ogni logica di puro “sindacalismo” di sinistra. La risposta di Trotsky a Gorter, dai banchi della III Internazionale, resta da questo punto di vista esemplare. E mostra una volta di più che per il bolscevismo non esisteva alcuna questione tattica separata a sé stante (la “questione parlamentare”, la “questione sindacale”) ma diverse articolazioni tattiche di un’unica politica per la conquista del potere. E che, a sua volta, proprio l’unicità e il rigore della politica rivoluzionaria poteva governare la molteplicità della tattica evitando la deriva dell’opportunismo.


Seconda parte

Marco Ferrando

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