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L'assedio di Gaza è lo specchio del sionismo

Non c'è soluzione della questione palestinese senza chiamare in causa lo Stato d'Israele

23 Ottobre 2023
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A Gaza siamo in presenza di un assedio disumano a due milioni di palestinesi, un crimine di massa silenzioso che si aggiunge alle vittime dei bombardamenti su case, scuole, chiese e ospedali. Tale è la privazione di acqua, cibo, medicinali, elettricità, benzina, quella che moltiplica i morti ogni giorno, ogni ora, nelle corsie d'ospedale, nelle case, sotto le tende, tutte già bombardate. Quella che persino l'Organizzazione Mondiale della Sanità si vede costretta a denunciare.

Ogni persona dotata di un minimo senso di umanità dovrebbe provare ribrezzo per questo cinismo criminale, esibito agli occhi del mondo con la più indifferente arroganza.

Il punto è che lo Stato d'Israele si fa forte del sostegno delle potenze “democratiche” d'Occidente. Un sostegno politico, economico, militare. Lo stesso sostegno che già viene offerto alla prossima annunciata invasione di terra. Lo stesso sostegno di cui Israele ha goduto nei 75 anni di occupazione della Palestina.

Lo Stato d'Israele non si tocca”. Questa è la sintesi della diplomazia mondiale, ma anche della pubblica informazione. Uno stuolo infinito di intellettuali e commentatori di estrazione liberale o addirittura “democratica” fanno a gara nel presentarsi ovunque come tutori dello Stato sionista. Tutti i sepolcri imbiancati che ogni giorno recitano il rosario sulle vittime israeliane del 7 ottobre tacciono sul crimine immensamente più grande che si sta consumando contro i civili palestinesi in queste ore sotto gli occhi dell'umanità intera. Noi abbiamo denunciato da sempre la natura reazionaria di Hamas e le sue azioni contro i civili. Ma un conto è criticare Hamas dentro il campo della resistenza palestinese, un altro è usare cinicamente l'azione di Hamas per coprire i crimini del sionismo contro i palestinesi e la loro resistenza. Crimini storici e crimini in corso. In ogni caso crimini incomparabilmente più numerosi, prolungati, efferati. O qualcuno vuol dire che incendiare villaggi, torturare prigionieri, deportare settecentomila palestinesi come nella Nakba del 1948, con uno strascico di orrori senza fine, sarebbe legittima difesa umanitaria?

La verità è che lo scempio di Gaza è un tragico fascio di luce sulla natura reale d'Israele. “Grande democrazia del Medio Oriente”? È uno Stato che non ha Costituzione, che non riconosce i propri confini orientali, che nega a due milioni di propri cittadini arabi l'uguaglianza elementare dei diritti nel nome dello Stato dei soli ebrei, che promuove e protegge la colonizzazione dei territori occupati col carico di distruzioni, umiliazioni, assassinii che la colonizzazione comporta ogni giorno... Sarebbe questa la democrazia?

Difendiamo Israele perché gli ebrei sono state vittima dell'Olocausto”. Ma perché l'infinito orrore dell'Olocausto nazista contro gli ebrei, il peggio della storia intera del Novecento, senza paragone alcuno, dovrebbe legittimare la pulizia etnica contro i palestinesi, la loro storica deportazione e oppressione? Semmai dovrebbe essere una ragione in più per rifiutare ogni oppressione e persecuzione. Perché nessun popolo può essere libero se ne opprime un altro. Eppure la più sconcia assimilazione di antisionismo e antisemitismo è assunta come clava nel dibattito pubblico, come forma di intimidazione verso il sostegno alla Palestina, come scudo protettivo dei crimini d'Israele.

Due popoli, due Stati” concedono al più i benpensanti. Curioso. Dopo essere stata osannata per mezzo secolo dalle sinistre riformiste di tutto il mondo, la formula “due popoli, due Stati” è oggi talmente vuota e ipocrita da essere assunta in prima persona da tutti i peggiori sostenitori della guerra d'Israele contro Gaza. Dall'immancabile imperialismo USA sino a Giorgia Meloni. Passando per quei regimi arabi che per mezzo secolo hanno scaricato i palestinesi quando non li hanno direttamente repressi e ammazzati (Settembre nero in Giordania, 1970). E per i nuovi imperialismi russo e cinese che cercano nuovi clienti tra questi stessi regimi sfruttando la crisi dell'egemonia americana.

Di grazia, dove dovrebbe situarsi uno Stato palestinese a fianco dell'intoccabile Israele? Basta porre questa domanda elementare per diradare la nuvola di fumo. La risposta sta nei famosi accordi di Oslo: accordi truffa che in cambio del riconoscimento dello Stato sionista relegavano i palestinesi in piccoli bantustan senza futuro, territori occupati e colonizzati dallo Stato sionista con la complicità crescente della stessa leadership palestinese.
Oggi peraltro la Cisgiordania è occupata da settecentomila coloni israeliani, armati dalla testa ai piedi, che scorrazzano impuniti e protetti dalle truppe, e Gaza è sotto un assedio genocida. Dunque chiediamo nuovamente: dove dovrebbe situarsi un fantomatico Stato palestinese rispettoso dello Stato d'Israele? I sei milioni di palestinesi dei campi profughi, i quattro milioni di palestinesi di Cisgiordania, i due milioni di palestinesi di Gaza, i due milioni di arabi israeliani, una netta maggioranza della popolazione di Palestina (e ancor più, in proiezione demografica) in quale sgabuzzino dovrebbe rassegnarsi a vivere?

La verità è che ogni soluzione della questione palestinese passa per il diritto al ritorno. E ogni diritto al ritorno mette in discussione l'esistenza dell'attuale Stato d'Israele. Non degli ebrei naturalmente, ma dello Stato sionista. Di uno Stato coloniale nato dall'espulsione di un altro popolo.
Solo una Palestina libera dal sionismo, una Palestina laica, una Palestina socialista, può realizzare l'autodeterminazione del popolo palestinese, riconoscendo i diritti nazionali della minoranza ebraica. Solo una simile soluzione consentirebbe la pacifica convivenza di arabi ed ebrei.

Ma questo significherebbe cancellare l'attuale geografia del Medio Oriente” protestano in nome del realismo non pochi progressisti. Sì, significherebbe esattamente questo. Significherebbe cancellare quello che le potenze imperialiste e lo Stato sionista hanno disegnato con riga e compasso in terra araba, con tanto di guerre d'invasione e di massacri. Significherebbe mettere in discussione gli stessi corrotti regimi arabi. Significherebbe saldare la rivoluzione palestinese con una rivoluzione nazionale araba, in direzione di una federazione socialista araba e del Medio Oriente.

Le grandi mobilitazioni delle masse arabe in questi giorni, in Algeria, in Egitto, in Tunisia, e soprattutto in Giordania e in Iraq, ci dicono che la grande maggioranza della popolazione araba, al di là degli attuali confini, vive la questione palestinese come una propria ragione di liberazione e di riscatto. Non a caso proprio il timore di una grande rivolta araba agita le cancellerie di tutto il mondo, e tutte le borghesie del Medio Oriente.

Sviluppare ed estendere la ribellione araba a fianco del popolo palestinese, guadagnarla ad una prospettiva antimperialista e antisionista, è il compito dei marxisti rivoluzionari palestinesi e arabi. In alternativa ad ogni fondamentalismo panislamista, ad ogni conciliazione col sionismo, a ogni forma di subordinazione agli imperialismi, vecchi e nuovi che siano.

Marco Ferrando

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