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Non è il nostro Stato, non è il nostro lutto

Per una analisi di classe della parabola del berlusconismo, fuori da ogni lettura liberale e giustizialista

15 Giugno 2023

Non ci meravigliano i funerali di Stato e il lutto nazionale per Berlusconi. Quello che a noi interessa è un bilancio di verità sulla storia del berlusconismo e delle sue resurrezioni

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Il governo a guida postfascista di Giorgia Meloni ha tributato un'autentica celebrazione alla memoria di Berlusconi. Come neppure alla regina Elisabetta. Molte le ragioni di questa scelta politica: un ringraziamento all'uomo che sdoganò la famiglia missina nel lontano 1994; un tributo a Forza Italia quale partito della maggioranza alla vigilia delle elezioni europee; e soprattutto una prenotazione del suo elettorato in (prevedibile) uscita dopo la morte del mitico Cavaliere. In altri termini, un investimento sul proprio futuro.
Questa celebrazione a reti unificate, senza precedenti istituzionali, trova peraltro un riscontro nel senso comune di una parte dell'opinione popolare, in particolare piccolo-borghese. Un capitalista di grande successo nei diversi campi della sua attività è oggetto fisiologico dell'invidia ammirata del piccolo-borghese, una proiezione spesso inconfessata dei suoi sogni e delle sue frustrazioni. Uno dei segreti del fascino berlusconiano.
La morte di Berlusconi ha fatto da stura a questa parte del sentimento pubblico con un carico suggestivo di nostalgia e incantamento.

Più complesso il posizionamento del cosiddetto campo avverso al berlusconismo, sia quello borghese liberale (PD) che quello di matrice giustizialista.
Il primo ha oscillato tra un imbarazzata reverenza istituzionale per i funerali di Stato e i dubbi manifesti sugli “eccessi” del cerimoniale.
Il secondo ha rispolverato il proprio armamentario tradizionale contro la indubbia delinquenza di Berlusconi in fatto di evasione fiscale, di relazioni mafiose, di leggi ad personam, di onnipotenza televisiva, attribuendo il successo dell'uomo alla potenza dei suoi mezzi economici e alla spregiudicatezza impunita del loro utilizzo. Tutti elementi veri, intendiamoci, ma parziali. Perché ciò che rimuovono è l'aspetto essenziale: la dinamica di classe che ha sospinto il fenomeno Berlusconi.

L'ascesa e durata del fenomeno Berlusconi vanno ricondotte alle responsabilità decisive delle forze egemoni dell'antiberlusconismo: le responsabilità del liberalismo borghese progressista (PDS, DS, PD), come in parte di quello giustizialista. Sono loro che hanno spianato la strada prima allo sfondamento politico del Cavaliere negli anni '90, poi alle sue ripetute resurrezioni. Col contributo decisivo, ogni volta, dei gruppi dirigenti della sinistra politica, inclusa quella cosiddetta radicale.

Vediamo allora di ricapitolare questa dinamica.

Il PCI venne sciolto dopo il crollo del Muro di Berlino perché il suo gruppo dirigente, nel nuovo contesto, vide sgombra la via per il proprio ingresso al governo del capitalismo italiano. I governi Amato (1992) e Ciampi (1993) tennero a battesimo il nuovo Partito Democratico della Sinistra (PDS), coinvolgendolo indirettamente nel primo attacco alle pensioni, nel prelievo notturno dai conti correnti, nel patto di concertazione contro i salari, nella distruzione della scala mobile. Ciò che scatenò nel 1992 l'autunno dei bulloni contro una burocrazia sindacale complice della svendita. La sinistra si identificò con l'establishment nel momento stesso in cui il crollo dei vecchi partiti borghesi della prima Repubblica (DC, PSI), trascinato da Tangentopoli, creava un'enorme vuoto di rappresentanza politica. La distruzione del sistema elettorale proporzionale, voluta dal PDS in funzione della propria ambizione di governo, fece il resto.

Certo, Berlusconi si buttò nell'arena politica per tutelare i propri interessi aziendali. Ma poté farlo ed avere successo proprio perché i liberalprogressisti gli avevano spianato la strada, consentendo a un grande capitalista senza scrupoli di presentarsi paradossalmente come "l'uomo nuovo", dentro un sistema elettorale ideale per la sua scalata.
Peraltro vale la pena ricordare ai giustizialisti che Berlusconi usò nel 1992 la stessa inchiesta di Mani Pulite per salire in groppa alla domanda di cambiamento, e alla fine intestarsela. Un'operazione populista consentita dal disarmo parallelo del movimento operaio. L'ingresso della neonata Rifondazione Comunista nel Polo dei progressisti occhettiano-ciampista (1994) avallò questo disarmo.

Il primo governo Berlusconi, 1994, intraprese da subito un attacco frontale al sistema pensionistico, sulla scia delle misure di Amato. Ne scaturì un duro scontro sociale dall'esito incerto. Gianni Agnelli coniò la famosa espressione: "Se Berlusconi vince, vince per tutti; se perde, perde da solo”. Era un affidamento alla prova di forza intentata dal Cavaliere, ma senza identificazione nelle sue fortune.
I sindacati, sfidati frontalmente, promossero lo sciopero generale. Lo sciopero registrò una partecipazione enorme. Il governo fece marcia indietro e la dissociazione della Lega di Bossi lo affondò precocemente.
Ma il nuovo governo Dini, 1995, nato dall'inedita alleanza tra PDS e Lega (“costola della sinistra” la definì D'Alema) esordì proprio con il varo della riforma contributiva della previdenza pubblica, quella contro cui i lavoratori avevano scioperato. La CGIL di Sergio Cofferati coprì il governo con tanto di brogli nelle assemblee operaie per far passare l'accordo. Un disastro.

La legislatura di centrosinistra (1996-2001), coi governi Prodi, D'Alema, Amato, completò su tutta la linea l'opera di restaurazione antioperaia: lavoro interinale, privatizzazioni, tagli sociali a sanità e istruzione, parità tra scuola pubblica e privata, bombardamento di Belgrado, riforma costituzionale filoleghista (articolo V). Era la linea del grande capitale italiano, vero mandante del centrosinistra dopo la breve parentesi berlusconiana del 1994. L'ingresso di Rifondazione nella maggioranza del governo Prodi, e poi del Partito dei Comunisti Italiani di Cossutta e Rizzo nei governi D'Alema e Amato, coprirono a sinistra questa politica. La grande delusione operaia e popolare che ne scaturì sospinse nel 2001 il ritorno di Berlusconi al governo.

La nuova legislatura Berlusconi (2001-2006) preservò e appesantì le misure antioperaie del centrosinistra. In particolare col varo della legge 30 (legge Maroni), che estese a dismisura la precarizzazione del lavoro, con un nuovo intervento sulle pensioni, e con l'attacco all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Parallelamente, il sostegno e la partecipazione italiana alle missioni militari imperialiste in Afghanistan e in Iraq, e già prima lo scontro frontale col movimento no global nelle giornate di Genova 2001, concorsero a segnare una linea di frattura tra il governo e un vasto sentimento popolare.
Fu una stagione intensa di movimenti: il movimento operaio con la grande piazza CGIL di San Giovanni a Roma a difesa dell'articolo 18 che costrinse Berlusconi a un passo indietro; il movimento contro la guerra, il più grande nell'Europa capitalista; persino un movimento democratico (i “girotondi” di Nanni Moretti), che fiancheggiava criticamente il centrosinistra in opposizione a Berlusconi. Ma a partire dal 2004, un nuovo accordo tra i DS e Rifondazione Comunista mise la sordina alla mobilitazione sociale per preparare la comune alternanza di governo. Alleanza che per pochi voti, nel 2006, aprì la nuova stagione dell'Ulivo e dell'Unione.

Il nuovo governo di centrosinistra (2006-2008), con la presenza ministeriale di Rifondazione, mantenne tutte le misure antioperaie varate da Berlusconi. Vi aggiunse un intervento a favore della previdenza integrativa col coinvolgimento del TFR, l'aumento delle spese militari e del finanziamento delle missioni, una straordinaria detassazione dei profitti di banche e imprese (con l'IRES che passò dal 34% al 27,5% nella sola finanziaria del 2007). Un programma contro i lavoratori combinato con la promozione dei massimi responsabili della repressione del G8 di Genova ( De Gennaro). Una doccia gelida per tutti i movimenti che si erano battuti negli anni precedenti per la cacciata di Berlusconi. Un autentico tradimento di aspettative e interessi, come tale avvertito da grandi masse, fonte di disincanto e passivizzazione. La caduta precoce del secondo governo Prodi, per l'eterogeneità di una maggioranza che andava da Turigliatto a Mastella, segnò la disfatta dell'Unione e in particolare di Rifondazione, che ne uscì distrutta. Ancora una volta fu Berlusconi, nelle elezioni del 2008, a capitalizzare la disfatta della sinistra.

Il terzo governo Berlusconi (2008-2011), ancora una volta resuscitato dai liberali, preservò tutte le misure già varate dal centrosinistra, aggiungendovi un attacco pesantissimo alla scuola pubblica, con la riforma Gelmini e i suoi 8 miliardi di tagli. Una riforma mantenuta da tutti i governi successivi. Ma la grande crisi capitalistica iniziata nel 2008, e precipitata in Italia nel 2010-2011, portò ad una conclusione traumatica l'esperienza di governo, con l'avvento del governo Monti e le sue terapie d'urto contro i lavoratori, votate insieme da centrodestra – Meloni inclusa – e centrosinistra.
Fu l'inizio dello sfaldamento del bipolarismo italiano, e l'irruzione di un lungo ciclo populista, segnato prima dal M5S di Grillo, poi dall'ascesa di Salvini, infine dal trionfo di Giorgia Meloni. Un ciclo che si è combinato con un riflusso prolungato del movimento operaio, senza pari in Europa per profondità e durata, e una penetrazione di suggestioni reazionarie in vasti settori di salariati.
Il ripiegamento della sinistra “radicale” nei blocchi giustizialisti con Di Pietro e Ingroia, con l'abbandono della centralità del lavoro, lasciò campo libero a questa deriva. In ogni caso fu incapace di contrastarla.

Quanto alla stella di Berlusconi, aveva iniziato a declinare già nel 2011. L'egemonia berlusconiana sul centrodestra si esaurì a metà del decennio, a vantaggio di Salvini e Meloni.
La rapida consumazione della parentesi di unità nazionale a guida Draghi, col pieno coinvolgimento del PD ("l'agenda Draghi”) ha preparato lo sbocco annunciato di un governo a guida postfascista, il più a destra dell'Italia repubblicana.
Forza Italia è sopravvissuta a questo ciclone, e oggi partecipa al governo. Sopravviverà alla morte di Berlusconi? Vedremo presto il dipanarsi della sua crisi annunciata e/o della sua possibile deflagrazione. Non è di questo che qui ci occupiamo.

Ciò che qui vogliamo evidenziare è che, ieri come oggi, le fortune del centrodestra e ora della destra non sono mai state il portato di una forza intrinseca, ma del lungo corso della politica delle sinistre, del loro accodamento a forze estranee alle ragioni del lavoro o apertamente avversarie del lavoro.
La destra raccoglie quello che la sinistra semina.

Solo una ripresa della lotta di classe, solo una egemonia della classe operaia nella stessa battaglia democratica contro la destra, possono disgregare il blocco sociale reazionario, cambiare i rapporti di forza, dischiudere una vera alternativa. Ciò che richiede lo sviluppo di un partito indipendente della classe lavoratrice attorno a un programma anticapitalista: una sinistra rivoluzionaria.

Non ci meravigliano i funerali di Stato e il lutto nazionale per Berlusconi. Di certo non è il nostro Stato e non è il nostro lutto. Ci interessa un bilancio di verità sulla storia del berlusconismo e delle sue ripetute resurrezioni. Ci interessa una svolta della nostra classe, per una alternativa di società e di potere. Per una Repubblica dei lavoratori e delle lavoratrici, l'unica che possa fondarsi sul lavoro, l'unica che possa recidere le basi materiali della reazione.

Partito Comunista dei Lavoratori

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