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Il Sol dell'avvenire di Nanni Moretti

Una critica sbagliata

3 Giugno 2023
soldellavvenire


Il compagno Salvo Lo Galbo, che è e resta il miglior e più colto critico cinematografico e musicale tra i nostri militanti, ha scritto una critica sull’ultimo film di Nanni Moretti “Il Sol dell’avvenire”, che è stata pubblicata sull’ultimo numero del nostro giornale Unità di Classe (maggio 2023).
Non condivido tale critica, anzi la trovo sbagliata, e per quanto ne so le valutazioni sul film che mi portano a scrivere questa controcritica sono condivise dalla stragrande maggioranza dei compagni e delle compagne del PCL che hanno visto il film.

Che ci siano delle opinioni differenti, non solo su alcuni aspetti politici particolari, ma ancora di più e più nettamente sulle questioni artistiche e altre, in seno ad un partito rivoluzionario, è del tutto legittimo e anche logico. Solo lo stalinismo, come la Chiesa nei secoli scorsi, pretendeva l’unanimità su tali questioni, con Stalin che nella sua mostruosa paranoia burocratica giungeva a far uccidere i dissidenti non solo scientifici, ma anche artistici.
Quindi spazio alle posizioni, credo essenzialmente personali, del compagno Lo Galbo, ma anche a quelle mie, e come detto, della stragrande maggioranza dei compagni e compagne del PCL.

Se si trattasse di un film qualsiasi (che del resto, per ragioni di limiti di spazio, non affronteremmo nella nostra stampa), non avrebbe probabilmente senso questa risposta critica. Ma “Il Sol dell’avvenire” è un film che, sia pure nelle caratteristiche del cinema morettiano, ha una valenza politica, che è stata colta ovviamente da tutti. E su questo il mio giudizio è nettamente diverso da quello del mio carissimo fraterno compagno e amico Salvo.

Lo Galbo avanza, per sintetizzare al massimo, sostanzialmente due pesanti critiche a Moretti. La prima è quella di essere «egotista smoderato», «ipernarcisista», «onanista», di una «megalomania aggravata dalla senilità», e di esprimerlo nei suoi film che apparrebbero «alla serie Z dei film di concetto» (le valutazioni diciamo “dirompenti” su Nanni e la sua produzione continuano a lungo e sono tutte di questo tipo). In questo quadro fa riferimento allo spettro dei grandi del cinema italiano degli anni in cui Moretti era agli esordi, citando Vancini, Rosi e Petri, contrapposti al piccolo-borghese da sinistra al caviale Moretti.

Ora, in tutto questo siamo principalmente (ma non esclusivamente, però) sul piano della critica artistica, quindi un problema particolare. Per quanto mi riguarda, io credo che dire che Moretti sia una persona autocentrata – almeno dal punto cinematografico, per il resto non lo conosco e non ho mai parlato di lui con nessuno che lo conosca – sia assolutamente corretto. Il suo cinema è così. Può piacerti o puoi odiarlo, ma è la sua impronta. Personalmente, io sono a metà tra chi lo considera un genio del Cinema e chi non lo apprezza (normalmente con meno vigore di Salvo). Ho amato i suoi primi film, in particolare Ecce Bombo, che descriveva con leggerezza e ironia un momento di grande crisi di passaggio della generazione del ‘68 dopo la sconfitta del ’76 e il circo insensato del ’77. Meno mi sono piaciuti sui film successivi, quando è sceso (secondo alcuni invece è salito) sul terreno dell’intimismo drammatico. Ad ogni modo, è questione di gusti e non può determinare il giudizio sul significato e l’immagine politica de “Il Sol dell’avvenire”.

Sviante è poi il riferimento al grande cinema storico degli anni del centrosinistra democristiano e “socialista”. È tutta un’altra cosa e certo non regge il paragone con i migliori maestri dell’epoca (anche se personalmente io ho sempre considerato Elio Petri terribilmente noioso e sì veramente falsante ed intellettualistico), in particolare con Rosi, autore tra l’altro di capolavori come “Salvatore Giuliano” e “Le mani sulla città”.
Ad ogni modo, se vogliamo parlare di posizioni politiche, Rosi è sempre stato socialista e incurante della svolta craxiana, membro dell’assemblea nazionale del PSI, fino alla ignominiosa caduta del Bonaparte di Hammamet. Quindi qui al caviale possiamo aggiungere anche champagne, escort e mazzette, con cui personalmente Rosi non c’entrava, ma che copriva con la sua presenza in quella fogna politico-criminale. Mentre Moretti produceva, ed era il principale attore, un ottimo film di denuncia del craxismo come “Il portaborse”, in un momento in cui la sua critica al “crapa pelata degli anni ‘80” già gli era costata l’esclusione improvvisa del suo già programmato “Palombella rossa” dal concorso del Festival del cinema di Venezia del 1989, su decisione unilaterale del direttore craxiano dello stesso.

Ma il punto più importante della mia controcritica è quello direttamente politico. Lo Galbo rimprovera a Moretti il suo sostegno (molto contraddittorio, in realtà) al PDS e all’Ulivo, e cita come fatto essenziale una frase pronunciata nel 2002, cioè: “Parlateci voi con Rifondazione Comunista! Io non ci riesco, è più forte di me”. Certo brutta frase. Moretti ad ogni modo ne aveva pronunciato altre due di segno un po' diverso, che hanno fatto un po’ di storia nella sinistra italiana quell'anno e qualche anno prima. Sono state “Con dirigenti come questi (del centrosinistra, ndr) non vinceremo mai” e poi “D’Alema, di' qualcosa, di' una cosa di sinistra”.

Nel 2002 c’è stata la brutta frase riferita a Rifondazione. Tutta colpa sua, però? Non proprio. Nel 1998 Bertinotti aveva ritirato la fiducia al governo Prodi, provocandone la caduta. Questo dopo aver sostenuto un governo che è stato, almeno fino ad ora, il peggiore sul piano sociale della storia della Repubblica, e che tra le tante schifezze ha creato la precarietà istituzionalizzata con il pacchetto Treu, la riduzione delle tasse ai ricchi e l’aumento ai poveri, il massimo di privatizzazioni, ed è anche stato l’unico governo che ha avuto la faccia tosta criminale di instaurare il famigerato blocco navale contro gli immigrati, con conseguente affondamento di una nave e strage di più di cento albanesi nel Canale d’Otranto.
È chiaro che molti non riuscirono a capire la svolta di Bertinotti. Altri pensarono che Bertinotti fosse stato spinto a modificare il suo atteggiamento dalla mancanza di una svolta a sinistra del governo; insomma dopo aver accettato molto aveva deciso, per sia pur contraddittoria coerenza politica, di andare alla rottura con Prodi. Gli opportunisti illusi di Sinistra Critica (antesignana delle attuali Sinistra Anticapitalista, Communia e RiMake) si schierarono subito su questa ipotesi, diventando incondizionati e acritici sostenitori del segretario di Rifondazione. Noi e pochi altri capivamo benissimo che non di questo si trattava. Un brillante giornalista del Manifesto, Andrea Bianchi, scrisse sul suo giornale un articolo di una pagina intera intitolato “Il Dalemone di Bertinotti”. In esso rivelava (e nessuna smentita fu prodotta) che si trattava in realtà di una manovra di Bertinotti, concordata con il furbone malandrino D’Alema per portare il PRC in un nuovo governo di centrosinistra diretto appunto da D’Alema. Sei mesi di opposizione. Un debole Prodi tenuto in piedi dai voti della piccola UDEUR di Cossiga e Mastella. Poi Prodi in Europa, come in effetti avvenne. Candidatura D’Alema con rottura con l’UDEUR e apertura a sinistra verso Rifondazione, che avrebbe “con senso di responsabilità” deciso di entrare al governo “spostato a sinistra”, come effettivamente fece nel 2006.

Il “Dalemone” andò in soffitta perché, cosciente dell’imbroglio, Cossiga rifiutò i suoi voti a Prodi, per darli poi al “più a sinistra” D’Alema, che raggiungeva così il suo obiettivo con mezzo anno di anticipo. E Cossutta e Diliberto realizzarono la scissione di Rifondazione per avere la loro soddisfazione governativa e non restare come i portaborse del Fausto.
Questi dovette fare buona faccia a cattiva sorte, e anche per controbilanciare l’opposizione interna di sinistra (nell’anno successivo realizzammo la massima percentuale di voti nel congresso, cioè il 17%) dovette spostare la sceneggiata a sinistra, e di molto, tra gli applausi beoti dei sinistri cosiddetti critici di Turigliatto & company. Parlò addirittura di rivoluzione, e soprattutto dal 2000 creò il concetto delle “due destre” (chi lo coniò fu in effetti la ex giornalista del manifesto e sua fedelissima Rina Gagliardi). Concetto cioè che affermava che la politica italiana era dominata da due destre, quella berlusconiana e quella ulivista, sovrapponibili l’una all’altra e ugualmente nemiche.

Ora, come già detto, dal punto di vista sociale il peggior governo era stato il centrosinistra appoggiato dal PRC, e quindi qualche elemento di realtà era presente in questa definizione. Ma un concetto così netto, che sembrava non tenere conto delle basi elettorali delle due coalizioni era schematico, per di più non accompagnato da alcun elemento di autocritica sul passato appoggio. Inoltre era accompagnata da una ricerca, ove possibile, di governo locale con il centrosinistra. Un guazzabuglio indigesto che era incomprensibile per chi non capiva che i dirigenti riformisti sono – con poche eccezioni, tra cui certamente non il buon Bertinotti, principe tra tali personaggi – degli imbroglioni totali, il cui vero obbiettivo è solo andare al governo, facendo qualche modesta riforma progressiva, se possibile, facendo mitragliare i lavoratori se necessario, per quel loro obiettivo.

La frase di Moretti era quindi certamente espressione del suo riformismo moderato, ma aveva, per uno che politico non lo è mai stato veramente, in quel quadro di politica di Rifondazione (i cui dettagli forse presentiamo poco, noi stessi, ai nostri giovani militanti e dirigenti come l’ottimo compagno Lo Galbo) una qualche base di giustificazione. La politica di Rifondazione a pochi anni prima della sua vergognosa esperienza governista, aperta con una svolta di 180 gradi nel 2003, appariva effettivamente incomprensibile.

Ecco, dunque, io credo che il secondo grave errore del testo del compagno Lo Galbo è quello di trattare Moretti come se avessimo a che fare con un dirigente politico, che dovrebbe trarre (cosa che nessun dirigente riformista fa) un bilancio della sua politica passata. Ma Moretti ha sì avuto un qualche ruolo intellettuale e di compagno critico del centrosinistra, ma non è mai stato un dirigente politico.
Il giovane Nanni inizia a militare a sinistra nel ‘68 nel movimento degli studenti romano. Poi fu aderente nei primi anni ’70 del gruppo Soviet, creato attorno all’omonima rivista dai fratelli Flores D’Arcais, già militanti della Quarta Internazionale (Segretariato Unificato) e da alcuni critici della stessa, come l’editore Savelli. Era un gruppo di cui era dirigente anche il fratello di Moretti, e vagamente trotskista, almeno sul piano ideologico. Gruppo però che dopo poco tempo si sciolse.

In ogni modo crediamo che ogni forma di impegno politico diretto di Nanni Moretti si fosse concluso già al momento del successo di “Ecce Bombo” nel 1978 e del suo diventare con ciò un regista famoso. In ogni caso, rimase più o meno criticamente vicino alla sinistra riformista, contro il craxismo prima e contro il berlusconismo poi. In questo quadro certamente appoggiò l’ulivismo, senza cogliere per niente il suo carattere borghese e antioperaio; ma partecipò con ruolo centrale al movimento dei girotondi nel 2002-2003, movimento certo democraticista e piccolo-borghese, ma anche critico da sinistra dei dirigenti liberali del centrosinistra, in primis D’Alema, a cui cercò di contrapporre come nuovo leader del centrosinistra il “laburista” Cofferati, che dopo aver illuso i girotondini e tra loro Moretti, li lasciò in braghe di tela, andando, d’accordo col Baffetto”, a fare con risultati disastrosi il sindaco di Bologna.

Poi, per Moretti, prevalentemente film intimistici e il quasi silenzio politico. Oggi il regista riappare all’improvviso con un film che ha carattere politico, sempre nell’ambito del personalismo morettiano.

Quale il massaggio politico che giunge allo spettatore interessato da “Il Sol dell’avvenire”?
A noi sembra che giunto a settant'anni e avendo subito tradimenti e legnate dalla storia, Moretti voglia un po’ tornare all’origine. Al suo comunismo antistalinista di cinquant'anni fa. Straccia il ritratto del dittatore Stalin, lasciando quello di Lenin, perché se anche nel 1956 il ritratto del tiranno era ancora nelle sezioni del PCI e la trama del film che finge di girare è ambientato in quell’anno, nella sua sezione non vuole nemmeno vederlo. E poi dà un'importante lezione, quando afferma che sì la storia si può fare anche con i se (noi diremmo che se non impariamo dalla storia, e quindi da quello che fu fatto di sbagliato, saremo costretti a ripeterla). E ci dice che se il PCI avesse rotto allora con l’URSS stalinista, avremmo potuto conquistare il sol dell’avvenire e realizzare non il progresso sociale e civile d’Italia, come dicono i riformisti e progressisti vari, ma la realizzazione delle idee di Marx ed Engels, ergo il socialismo.

Ma, a mio parere, c’è di più; perché mostrando una folla festante che marcia con le bandiere rosse e il grande ritratto di Trotsky, Moretti sembra dire che c’è ancora speranza e che le masse, se sapranno riappropriarsi delle vere idee (noi diremmo programma) comuniste, esemplificate dal ritratto del grande compagno di Lenin (e di Rosa Luxemburg, che viene ricordata con l’etichetta di una bottiglia; ci sono proprio tutti, i cinque grandi del comunismo rivoluzionario), il sol dell’avvenire potrà ancora, un domani, essere conquistato.

Mi sbaglio, mi lascio forse trascinare dall’entusiasmo (ripeto che cinematograficamente non considero il film un capolavoro, anche se molto buono nell’ambito del morettismo)? Forse che il Nanni ha voluto solo fare un esercizio di stile e ironia politica per attrarre più spettatori al botteghino? Nessuno di noi è nella testa del regista; però io non lo credo proprio.
Ma aggiungo: e anche se fosse?

Come dice un aforisma, in politica ciò che appare è. In generale questo è negativo. Ancora oggi, per fare un solo esempio, nella grande maggioranza del popolo di sinistra la figura di Enrico Berlinguer è visto come un esempio di coerenza e onestà nella difesa dei lavoratori e delle tradizioni migliori del movimento operaio. Noi sappiamo che il suo compromesso storico con la Democrazia Cristiana fu un'opzione il cui solo scopo era quello di soddisfare la volontà dei burocrati del PCI di andare al governo per conto della borghesia, sacrificando ad essa l’ascesa della classe operaia negli anni ’70 e persino i sui modesti interessi contrattuali (linea dei sacrifici).
Eppure questo burocrate riformista e traditore aveva e ha una popolarità enorme, perché appariva diverso e opposto a quello che era. In questo caso, invece, se io mi sbagliassi e avessi equivocato le buone intenzioni di Moretti, poco cambierebbe, perché come lo ho capito io e la stragrande maggioranza dei compagni del PCL, lo ha capito la stragrande maggioranza dei suoi spettatori. E se questi non sono milioni di metalmeccanici, sono certamente centinaia di migliaia di studenti, insegnanti, impiegati e anche operai (se domani, come probabile, il film passerà in TV, saranno qualche milione), certamente di sinistra, in cui resterà il messaggio che lo stalinismo ha distrutto le possibilità rivoluzionarie, e che però il sol dell’avvenire si può ancora conquistare con Trotsky e le sue idee alla testa.

Non ne saranno tutti conquistati, né il nostro partito vedrà per questo migliaia di nuove iscrizioni, ma certamente un piccolo aiuto – in questo paese in cui, in particolare oggi, lo stalinismo-putinismo resta più o meno coerentemente e coscientemente nella testa della maggioranza dei militanti di sinistra – ce lo può dare, soprattutto se sapremo sfruttarlo e non partire da questioni politicamente secondarie, come il valore artistico del cinema di Moretti o la sua coerenza politica personale. Grazie Nanni.


Franco Grisolia




Riportiamo di seguito la recensione di Salvo Lo Galbo cui si riferisce l'articolo.


«MORETTI NON SI FA COI SE»; E CHI L’HA DETTO?


E se non fosse vero che, con «Tre piani», Nanni Moretti ci avesse dichiarato l’avvenuto trapasso eidetico e l’ingresso nello stadio della decomposizione intellettuale? E se non fosse da seguire il proposito che quanti di noi si diedero, dopo il penultimo latrocinio di cassa, di non guardare più un suo film in sala? E se non fosse detto che, lontano decenni dalla polemica alterdalemista, e dopo aver virato per il registro intimista che gli diede effettivamente acclamata nuova linfa, per un film che s’annuncia anche o anzitutto politico, in Moretti l’antica velleità politica non potrebbe sopravvivere che tramite l’a lui facile autocitazionismo per cui insomma finiremmo col pagarne nuovamente tutti i film già visti? E se non fosse che, anche soprassedendo su un egotismo già smodato per natura e per di più entrato in quella fase senile in cui tutti i difetti si accentuano, Moretti è proprio l’ultimo a cui si potrebbe condonare un vizio simile perché, ipernarcisista per poetica, il ricorso a tanta egoreferenzialità finirebbe per saturare un autocompiacimento, già megalomane fin dagli esordi, in una overdose di onanismo d’autore? E se non fosse vero che le nostre aspettative di pagare per (ri)tormentarci, assistendo alle petulanti, sconclusionate e inconcludenti querimonie, ai suoi vaniloqui, alla serie Z del cinema «di concetto» (ne esistesse una classificazione, Moretti sarebbe l’istitutore del suo ultimo gradino: pastura ideale per Netflix, altroché!) contro quel partito cui i Cacciari di tutte le barbe furono e restano interni mentre gli rimproverano tutto e il suo contrario; se non fosse, si diceva, che tali aspettative supereranno il nostro pessimismo proprio perché abbiamo a che fare con un bilancio storico che ardisce di partire nientemeno che dal ‘56 e, perciò, tanto più aggiungeremmo, al fastidio per una qualità artistica disfatta, il fastidio «morale» (della serie: Te ne accorgi solo adesso?)? Se non fosse che ci contorceremmo al malizioso sospetto che Moretti lamenti nel 2023 il «coraggio» (!) della liberazione da Mosca che mancò al PCI di Togliatti (e Supernanni non lo trovò nemmeno per dissociarsi dalla svolta della Bolognina!) solo perché, a un trentennio dalla fine di PCI e URSS, forse non ha più un accidenti da perdere? Se non fosse detto che guarderemmo un film sul coraggio, sulla coerenza, sul vero socialismo che, proprio per il fatto stesso che esista ed esista solo oggi, testimonia della imperdonabile mancanza di coraggio, coerenza e vero socialismo del suo medesimo autore? E se non fosse vero che, leggendo d’una sorta di celebrazione di Trotsky in questa sua ultima fatica (che è soprattutto la nostra), dovremmo restar perplessità giacché nel corso del film, in realtà, nulla c’è che vada a fondo, che morda la sostanza, che afferri alla radice il problema «stalinismo» e che dunque autorizzi a un riferimento di tale peso, per cui davvero occorre – in rispetto della parabola umana ancorché politica di Trotsky e dei trotskisti – una responsabilità, un «parlare di cose che si sanno» (tanto per la citazione), la cui deficienza Moretti denuncia da sempre nell’universo-mondo, proprio mentre se ne macchia in prima persona? Se non fosse che, a non mettersi …non si pretende sul terreno del trotskismo militante, ma almeno di un antistalinismo ragionato, il rischio è che l’innalzamento del volto di Trotsky per mano di un uomo che non è solo un artista ma un personaggio politico (i girotondi, i suoi comizi dai palchi de L’Ulivo, la responsabilità simbolica nell’aver pubblicamente sfiduciato la sinistra dell’ex PCI costituitasi nel PRC in favore della metamorfosi liberale di PDS-DS-PD, che oggi fa piangere solo coccodrilli pari suoi) finisca per consolidare la fede in una sorta di «stalinismo di sinistra» di considerevoli settori d’avanguardia, perfino d’ultima generazione, che lo abbracciano per reazione alla demonizzazione liberale del «socialismo reale» che, in Italia e nel mondo, corre da trent’anni ad opera di liquidatori e/o nemici di classe? Se non fosse, in soldoni, che un Moretti – con tutto il passato e il presente politico di Moretti –, in parata sotto la gigantografia di Trotsky, nuoccia più che giovare all’antistalinismo di sinistra che tanta fatica fa, nella Italia della Costituzione di Togliatti, a farsi conoscere, comprendere, credere e a rimettersi in marcia? Se non fosse che questo rischio diviene una certezza dal momento che il contenuto di classe del ‘56 ungherese è inciso nella Storia da quel solo soggetto sociale che dovrebbe dar senso a ogni «sinistra», ma che nella aristocratica «sinistra secondo Nanni» è un non-pervenuto totale, cioè la classe lavoratrice? Se non fosse insomma che, con la leggerezza felliniana (ne avessi!), tu non puoi approcciarti a fatti di tale enormità, all’esigenza di un bilancio storico-politico scottante ancor oggi, o che ancora, forse e più verosimilmente, sei precisamente tu, tu Nanni Moretti, che non riusciresti ad andare a fondo nemmeno se della tua cinepresa s’impossessasse lo spettro d’un Vancini, d’un Rosi, d’un Petri, tanto irreparabilmente patinato, superficiale, piccolo-borghese è il tuo cinema, esattissimo emblema della sinistra al caviale? Se non fosse che vedere sfilare il corteo della futura umanità verso l’«utopia di Marx ed Engels», con alla testa l’uomo del «Parlateci voi con Rifondazione Comunista! Io non riesco, è più forte di me!» (era il 2002; grazie, Nanni!), rivolto alla timida, moderata, inutile «burocràzia» per la quale «non vinceremo mai» – né è dato capire cosa voglia vincere Moretti! – fa davvero, ma davvero, ma davvero davvero rabbia, e verrebbe da balzare in piedi e bestemmiarlo come Cioni Mario (quello sì un compagno)? Se la realtà non si fa coi se – nessuna illuminazione neanche in ciò: è bastato ricalcare un «Buongiorno notte» –, la finzione sì.
Se tutto ciò non fosse, infatti, avremmo scritto di un film che non è «Il sol dell’avvenire».



Salvo Lo Galbo

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