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Nuova pubblicazione. Ženotdel: ascesa e liquidazione di una rivoluzione nella rivoluzione

8 Marzo 2023

È disponibile il secondo numero di Classe, genere, rivoluzione, una serie di pubblicazioni tematiche a cura della Commissione donne e altre oppressioni di genere del PCL.
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Un rapporto dialettico con la storia è imprescindibile per chiunque si definisca marxista rivoluzionario, e lo è ancora di più per chiunque si definisca femminista, laddove con questo termine si indichi l’adesione a quel femminismo che ha contribuito alla Rivoluzione bolscevica, un femminismo di classe, socialista, marxista e rivoluzionario rigidamente demarcato dal femminismo borghese suffragista. Un femminismo che ancora oggi, faticosamente, si demarca dal femminismo borghese. A guardarla bene, la storia del femminismo e delle femministe nella Rivoluzione ci è utile per sciogliere anche numerosi nodi tematici, teorici e pratici odierni. Zetkin scrive:

«La visione materialista della storia non ci ha fornito - è vero - risposte pronte sulla questione femminile. Ma ci ha dato qualcosa di meglio: il metodo corretto e preciso per studiare e comprendere tale questione»

Per navigare tra questi nodi è opportuno approfondire la storia dello Ženotdel, il dipartimento per il lavoro tra le donne del Partito bolscevico negli anni immediatamente dopo la Rivoluzione d’Ottobre, forse la manifestazione concreta più completa, evidente e incisiva del femminismo marxista rivoluzionario e la strada che portò alla creazione di questo dipartimento speciale, così come la lezione che deriva dalla sua liquidazione durante la controrivoluzione stalinista.


QUALE FEMMINISMO PER LA RIVOLUZIONE?

La nascita dello Ženotdel ha avuto prodromi piuttosto lunghi, eppure la caratterizzazione dell’oppressione femminile e della sua specificità si trova sin a partire dai testi di Engels.

Oltre al successivo Origine della famiglia, la prima menzione dell’oppressione femminile nell’opera di Engels risale al 1844, con “La condizione della classe operaia in Inghilterra”, in cui veniva descritta in dettaglio la situazione delle operaie tessili inglesi e le condizioni in cui affrontavano maternità e figli.

La questione femminile venne trattata anche ne L’ideologia tedesca (1845-46) in cui, per la prima volta, si decostruisce il mito della famiglia “naturale” e “immutabile”.

«La divisione del lavoro, che implica tutte queste contraddizioni e che a sua volta è fondata sulla divisione naturale del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l’una all’altra, implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già il suo germe, la sua prima forma, nella famiglia, dove la donna e i figli sono gli schiavi dell’uomo. La schiavitù nella famiglia, che certamente è ancora molto rudimentale e allo stato latente, è la prima proprietà, che del resto in questa fase corrisponde già perfettamente alla definizione degli economisti moderni, secondo cui essa consiste nel disporre di forza-lavoro altrui».

Le donne, insomma, erano (e sono) la prima forma di proprietà privata. Erano proprietà degli uomini, proprietà che si estendeva al frutto del potere riproduttivo delle donne, i figli. Già questo elemento teorico dovrebbe farci comprendere la specificità dell’oppressione femminile e l’impossibilità di sovrapporla, inglobarla e risolverla all’interno della lotta di classe.

Un importante contributo teorico e organizzativo al femminismo marxista rivoluzionario fu quello di Clara Zetkin, instancabile nel suo lavoro di organizzazione delle masse femminili. Zetkin spesso si scontrò con i componenti più conservatori del mondo sindacale che cercavano di eliminare le donne dalla forza lavoro proponendo un “salario famigliare”. Per Zetkin, i sindacati dovevano iniziare a organizzare le donne. Il salario, infatti, era un requisito essenziale per la loro indipendenza. Nel suo discorso al Congresso fondativo della II Internazionale, nel 1889, spiegò: «Non è il lavoro delle donne in sé che, in competizione con i salari maschili, causa l’abbassamento dei salari, ma lo sfruttamento della manodopera femminile dai capitalisti che se ne appropriano».

Di nuovo, oppressione di classe e oppressione di genere sono intrecciati e interdipendenti.

Intorno al 1890 Zetkin aveva ottenuto il diritto di condurre un lavoro particolare tra le donne socialiste in concomitanza con i congressi del partito. Gli sforzi di Zetkin furono coronati dalla convocazione, nel 1907, della prima Conferenza internazionale delle Donne Socialiste (seguita da altre due nel 1910 e nel 1914) e la creazione di un Segretariato Internazionale delle Donne permanente, con lei al vertice. In Germania quindi, negli stessi anni in cui in Russia facevano capolino i movimenti femminili, grazie al proprio instancabile lavoro, aveva diviso la farina dalla crusca: da una parte il Frauenbewegung, il movimento femminile interclassista borghese, e dall’altra l’Arbeiterinnerbewegung, il movimento delle donne lavoratrici. E fu quest’ultimo ad avere un’influenza determinante in Russia.

Dal 1891 al 1896, Nadežda Konstantinovna Krupskaja impiegò il proprio straordinario talento nella formazione marxista delle lavoratrici e dei lavoratori del distretto industriale della capitale russa. Qui, insieme ai compagni, faceva visita alle fabbriche, stilando rapporti e raccogliendo informazioni che confluiranno nel primo scritto teorico esclusivamente dedicato alla questione femminile, dal punto di vista marxista, pubblicato nel 1901.

Venne scritto nel 1899, con lo pseudonimo di Sablina, mentre Krupskaja era in esilio in Siberia, a Šušenskoe, insieme al marito Lenin e ad altri compagni con cui anni prima aveva tentato di pubblicare “Raboceie Delo” (trad. La causa operaia), un giornale di agitazione e propaganda.

Il pamphlet si intitola “La donna lavoratrice”, e venne ritirato dalla circolazione già nel 1905, in seguito alla repressione che seguì alla rivoluzione di quell’anno. Venne poi ripubblicato nel 1925, con una nuova prefazione dell’autrice.

Per la prima volta si analizzava la questione femminile in termini marxisti, si descriveva la condizione delle donne proletarie sotto lo zarismo e si invitavano le donne a unirsi ai lavoratori nella lotta di classe. Krupskaja scrive: «La lavoratrice fa parte della classe lavoratrice e tutti i suoi interessi sono strettamente collegati agli interessi di tale classe».

Tuttavia, nella prefazione all’edizione del 1925, Krupskaja non poté fare a meno di notare come, vent’anni dopo e con le rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre nel mezzo, molto ci fosse ancora da fare per l’emancipazione della donna lavoratrice: «Le sezioni femminili del Partito Comunista hanno ampliato sensibilmente le loro attività e, con ogni giorno che passa, le lavoratrici e le contadine stanno acquisendo coscienza di classe, stanno guadagnando fiducia in se stesse e stanno partecipando sempre di più alla costruzione di una nuova vita. […] Ma si vede anche il rovescio della medaglia, ossia che molto resta ancora da fare e di quanta perseveranza serve per lavorare all’emancipazione completa della donna lavoratrice».

È da queste radici teoriche che nasce il femminismo marxista rivoluzionario.

Nel 1906, Aleksandra Kollontaj, allora ancora menscevica, iniziò a organizzare le lavoratrici di San Pietroburgo in gruppi di discussione socialdemocratici. Nel 1909 scrisse una delle sue opere più importanti, “Le basi sociali della questione femminile”, un’opera agile e lineare, che ricevette ampia circolazione tra le lavoratrici.

L’intento, oltre a quello di fare avanzare la coscienza di classe nella popolazione femminile, era tenere lontane le lavoratrici dalle lusinghe del femminismo borghese e suffragista.

Non sorprende che i bolscevichi si distanziassero con orrore dalla parola “femminismo”, che all’epoca designava esclusivamente il movimento suffragista borghese. Molti bolscevichi e bolsceviche eminenti, tra loro Luxemburg e Zasulich, ritenevano prematuro occuparsi della questione femminile quando in gioco c’erano le sorti delle masse, e sottolineavano il pericolo rappresentato dall’incanalare le energie nella lotta femminista, temendo che ciò avrebbe voluto dire dirottarle dalla lotta di classe, preoccupandosi delle trivialità della vita quotidiana.

Il 12° Congresso del Partito, ancora nel 1923, metteva in guardia dal pericolo delle “tendenze femministe” che “sotto la bandiera del miglioramento delle condizioni femminili potrebbero in realtà portare il contingente femminile della forza lavoro a distanziarsi dalla lotta di classe”.

Un timore, errato, che, unito alle tendenze maschiliste ancora presenti nel Partito, rese difficile l’azione delle bolsceviche e la creazione dello Ženotdel. Lenin stesso, più volte, deplorò gli atteggiamenti dei militanti che, a parole, si riempivano la bocca di emancipazione femminile, ma poi impedivano alle mogli di partecipare ai lavori del dipartimento femminile.

Kollontaj, Armand e altre bolsceviche intuirono invece una realtà fondamentale, quasi matematica: senza affrontare i problemi di oltre la metà della classe, la lotta di classe è inevitabilmente destinata al fallimento. Ciò che alcuni rivoluzionari disprezzavano come trivialità della vita quotidiana, e di cui non si vollero occupare, era in realtà precisamente la componente che la lotta di classe da sola non avrebbe potuto rovesciare, il byt, la realtà giornaliera delle masse, uno dei fattori che faranno la differenza tra una rivoluzione riuscita e la controrivoluzione stalinista.

Mentre Krupskaja lavorava al suo pamphlet nel 1899, Lenin chiese di fare una modifica alla bozza del programma del partito, aggiungendo “il raggiungimento della piena uguaglianza di diritti tra uomini e donne”, una modifica ratificata al Secondo Congresso del 1903, con l’uguaglianza dei sessi in termini di diritti civili e politici e nell’istruzione. Lo stesso congresso richiedeva inoltre l’esclusione delle lavoratrici da settori nocivi, congedo di maternità di 10 settimane, strutture per i bambini e ispettrici sui luoghi di lavoro.

Nel 1914, il movimento femminile proletario ricevette una nuova spinta con la pubblicazione del giornale “L’operaia”, redatto da Krupskaja, Kollontaj e Inessa Armand, Anna Elizarova Ul’janova (sorella di Lenin) e altre attiviste. Il giornale ebbe vita breve, alla pubblicazione (l’8 marzo 1914) a San Pietroburgo, le redattrici locali vennero tutte arrestate. La pubblicazione del giornale riprese nel 1917, con il ritorno in patria di Kollontaj, Krupskaja e Armand, e con il ripristino e la ricostituzione fulminea di un movimento femminile di massa che la guerra aveva fiaccato.

Già in questo primo numero, Krupskaja spiegava la demarcazione tra il femminismo borghese e il femminismo proletario: «Le donne della classe operaia prendono atto del fatto che la società attuale è divisa in classi. Ciascuna classe ha i suoi propri interessi, la borghesia ha i suoi e la classe operaia ne ha altri, che sono opposti tra di loro. La differenza tra donne e uomini non è così importante per le donne proletarie. Ciò che unisce le lavoratrici con i lavoratori è molto più forte di ciò che li divide».

[continua]



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