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Venti di rivolta soffiano in Karakalpakstan

28 Luglio 2022
KATRALPAMIN


Sono quasi tre settimane che il Karakalpakstan è stato scosso dalla rivolta, ora sopita ma non estinta. Si tratta del più importante moto di protesta in Uzbekistan dopo il massacro poliziesco di Andijan avvenuto nel 2005 e la seconda importante quasi-insurrezione dell’anno in Asia centrale, dopo le accese proteste in Kazakistan.

Chiaramente le notizie sono passate in sordina, a causa del generale disinteresse della stampa ma anche perché penetrare la pesante cappa posata sull’informazione e sulla libertà di parola è difficile, vista la stretta repressiva e la difficile situazione dei media, dei giornalisti e dell’opposizione in Uzbekistan.

È necessario, innanzitutto, spiegare di cosa si parla quando si discute di Karakalpakstan. Si tratta dell’unica nazione non ancora indipendente dell'ex area centro-asiatica sovietica (fatta eccezione per i Pamiri del Gorno-Badakhshan, in Tagikistan) e oggi assoggettata all'Uzbekistan. Precedentemente, questo territorio era conosciuto come Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Karakalpaka all'interno della RSS uzbeka, mentre ancor prima godeva giustamente dello status di repubblica federale a sé stante, dal 1932 al 1936, e in precedenza era stato un Oblast' autonomo nella RSS kazaka dal 1925. Con la dissoluzione dell'Unione Sovietica ha attraversato un brevissimo periodo di indipendenza politica (più de jure che non nella pratica), per poi essere riannessa all'Uzbekistan con lo status costituzionale di Repubblica autonoma a cui è garantito il diritto all'indipendenza e all’autodeterminazione (diritto costituzionale erede dei principi della prima URSS, inesistente in quasi tutto l'"occidente", dove da sempre vige l'ossessione reazionaria per la cosiddetta "unità nazionale").

I karakalpaki, i “nativi” della repubblica, sono un popolo più vicino ai kazaki che agli uzbeki, in particolare dal punto di vista linguistico (il karakalpako e il kazako, oltre che il nogai, fanno parte del sottogruppo Kipchak delle lingue turche-altaiche), e sono celebri per i particolari cappelli neri, da cui prendono il nome. Al giorno d’oggi, la demografia della repubblica è poco chiara: i Karakalpaki variano dai 700.000 al milione (senza contare un numero indefinibile di migranti in Kazakistan, ufficialmente meno di 3000, ma molto più probabilmente sono oltre i 300.000; altre migliaia si trovano tra il Kirghizistan e il Turkmenistan, ma il censimento talvolta è complicato visto che spesso adottano la cittadinanza e la nazionalità dello Stato titolare per accedere all’assistenza sociale del paese di residenza e in Uzbekistan si dichiarano uzbeki per avere meno problemi nella ricerca di lavoro), gli uzbeki sono all’incirca 700.000, i kazaki 300.000/400.000 e i restanti sono divisi tra altre minoranze, in maggioranza turkmeni, tatari e russi, per un totale di circa due milioni di abitanti, in maggioranza dislocati nelle aree rurali.

Il paese è dotato di tutti gli elementi di una nazione indipendente: letteratura nazionale (l’autore più conosciuto è il poeta Ájiniyaz), bandiera, stemma, inno, costituzione adottata nel 1993, parlamento eletto ogni cinque anni e una sorta di primo ministro (governo comunque dipendente e approvato da quello dello Stato uzbeko, che di fatto lo manovra a proprio piacimento, e sono rappresentati gli stessi identici partiti, rendendo così l'autonomia soltanto un principio di facciata). L'autonomia culturale è sulla carta ampiamente rispettata: la lingua ha lo status di ufficialità, è insegnata nelle scuole (anche ai livelli più alti), media e governo si preoccupano di fornire l’informazione e i documenti bilingui, senza particolari pressioni e forzature da parte dello Stato per una uzbekizzazione della popolazione (cose impensabili per le popolazioni più piccole di paesi come la Francia e l'Italia, per esempio, dove bretoni, sardi, friulani, occitani ecc. non hanno mai potuto godere di simili diritti e tantomeno di quello di secessione; il solo essere riconosciuti come popolazioni a sé stanti e con pari dignità di quelle più grandi è apparentemente un lusso inconcepibile).

Il territorio della Repubblica autonoma è un terzo di quello dello Stato, ma con una popolazione che è a malapena il 5% di quella dell’intero Uzbekistan. L’economia del territorio, prevalentemente desertico (l’importanza del celebre lago d’Aral è notevolmente diminuita a causa del suo quasi completo prosciugamento) e con una scarsa presenza di infrastrutture, è caratterizzata soprattutto dalle miniere e dalle risorse naturali e alcuni giacimenti di petrolio (nel 2018 sono state scoperte nuove riserve di gas che hanno reso il territorio ancor più appetibile e interessante per il governo centrale), e in misura minore l’agricoltura e l’allevamento. L’ineguale distribuzione della ricchezza e delle risorse della regione rende complicata l’autosufficienza della nazione, che difficilmente può avvenire se queste risorse non saranno rilocate, utilizzate e controllate dalla classe lavoratrice del Karakalpakstan, costretta al giorno d’oggi all’emigrazione per sfuggire alle durissime condizioni di vita e alla povertà. Per questo è necessario intraprendere un cambiamento in favore della trasformazione in senso socialista della società dell’Asia centrale, con un Karakalpakstan progressista, indipendente e possibilmente inserito nel quadro di una federazione con gli altri popoli dell’area, ispirata dagli stessi ideali emancipatori e dal diritto di autodeterminazione delle nazionalità. In ogni caso, una prossima indipendenza politica potrà tutelare il popolo karakalpako da possibili repressioni di massa da parte del governo centrale di Tashkent e dai possibili futuri tentativi di assimilazione forzata dello stesso.

Ma cosa sta accadendo in questa nazione semi-sconosciuta e desertica? Questo primo luglio, migliaia di persone hanno manifestato nelle vie della capitale, Nukus, contro il governo centrale di Tashkent e le riforme costituzionali in atto (ma anche in altre città, come Chimboy e Moʻynoq, ci sono state proteste). C’è stata una rapida escalation di violenza la stessa notte, che pare abbia portato al tentativo di occupare alcuni edifici governativi e alla brutale repressione attuata dalle forze istituzionali ha portato a 18 morti e a 243 feriti; secondo le fonti ufficiali ci sono stati anche 516 arresti [1]. A riprova di una certa intensità e supporto degli scontri, le forze governative per reprimere le proteste hanno dovuto ricorrere a forze non locali, perché diversi membri delle forze dell’ordine del Karakalpakstan si sono schierati con i manifestanti. Gli scontri con le forze governative si sono prolungati nella capitale Nukus, ma non è ci dato conoscere la situazione attuale.

Il principale motivo del contenzioso è l’avviamento di un processo di modifica di alcuni articoli della costituzione, tra cui quello che riconosce il diritto all'autonomia politica e alla secessione del Karakalpakstan tramite un referendum. Di fatto, se non ci fossero state proteste così intense, la nazione sarebbe divenuta una semplice provincia dello Stato. Ovviamente il presidente uzbeko, Shavkat Mirziyoyev, costretto ad abbandonare i suoi propositi dalla sollevazione popolare, si è lasciato andare a viscide dichiarazioni sulla fratellanza dei due popoli, ormai “divenuti uno solo”[2], che in altre parole sono un invito all’assimilazione alla maggioranza uzbeka e all’abbandono di qualsiasi rivendicazione nazionale; non ha mancato ovviamente di affermare che i fomentatori di eventuali disordini separatisti saranno severamente puniti. Nel frattempo, si è preoccupato di procedere all’applicazione dello stato d’emergenza della durata di un mese (e una forte stretta sui media e su Internet) in nome della “sicurezza dei cittadini, per la protezione dei loro diritti e libertà” e “per la restaurazione della legge e dell’ordine” (tipica fraseologia che tutti i regimi borghesi utilizzano di fronte alle rivolte antigovernative, in aggiunta alle solite lagnanze sulle violenze dei dimostranti e ad altre formule squisitamente repetita iuvant) e non sembra aver cambiato idea sul resto delle riforme costituzionali (un totale di 170 emendamenti, la maggioranza piuttosto vaga), che prevedono l’aumento degli anni previsti per la carica presidenziale da cinque a sette e, guarda un po’ che caso fortuito, l’azzeramento degli anni accumulati alla carica di presidente da parte di Mirziyoyev, già al secondo mandato (dall’ottobre 2021, quando ha sbaragliato “addirittura” quattro semi-sconosciuti candidati, anch’essi filo-governativi, mentre ai partiti d’opposizione non è stato permesso di partecipare alle elezioni con i loro candidati), permettendogli così di bypassare il limite di due cariche (dandogli mano libera per almeno altri quattordici anni). Mirziyoyev ha affermato di aver avviato un processo di costruzione di un “nuovo Uzbekistan”. Alla faccia, novità strabilianti che sanno di vecchio e di muffa autocratica.

Un famoso referendum sull’indipendenza o meno si sarebbe dovuto tenere già nel 2013, a vent’anni dall’unificazione dei due territori nel 1993, com’era previsto dall’accordo ai tempi dell’annessione, ma è ovviamente rimasto lettera morta. Nel 2021 già altri scontri erano avvenuti a causa delle pressioni da parte del governo uzbeko per una più rapida transizione della forma scritta della lingua dal cirillico all’alfabeto latino, senza aver però chiesto il consenso alla popolazione karakalpaka.

Appunto necessario: il sottoscritto già ha avuto modo di adocchiare in alcuni commenti sui social network ridicole teorie e insinuazioni su una possibile “rivoluzione colorata” in Karakalpakstan con l’obiettivo di destabilizzare l’Uzbekistan. Non per sminuire l’importanza di questo Stato, tutt’altro che risibile, ma c’è da dubitare che il principale sogno delle potenze occidentali di questi tempi sia la destabilizzazione dell’Uzbekistan. Le incredibili lagnanze sulle “rivoluzioni colorate” o “arcobaleno” sostenute da una parte dei settori della Sinistra non hanno alcuna credibilità teoretica, ma vista la popolarità di cui godono queste scempiaggini è necessario parlarne. Questo non vuol dire che i governi occidentali non colgono le opportunità di colpire avversari politici ed economici sfruttandone le rivolte interne, ma da qui ad affermare che queste insurrezioni nascano e crescano soltanto grazie ai “dollari” e agli “euro” dei servizi segreti stranieri è sintomo di estraniamento dalla realtà delle cose e di completa mancanza di analisi strutturale degli avvenimenti nel mondo che rasenta la tipica teologia dei numi tutelari del complottismo.

La maggior parte di queste rivolte “arcobaleno” è nata sull’onda della legittima insoddisfazione delle masse nei confronti dei loro governi e oppressori, promotori di politiche borghesi e/o nazionaliste, caratterizzati e appoggiati da elementi di presunta Sinistra soltanto perché ostili all’Unione Europea e agli Stati Uniti. Questa ostilità nei confronti dei governi occidentali non è certo motivo di demerito, ma è semplicemente ridicolo pensare che questi Stati, spesso estremamente reazionari, possano traghettare la rivoluzione verso il comunismo o una qualsiasi forma di progressismo. Ci si può spremere le meningi quanto si desidera, ma non sorgerà mai in nessun modo una minima intuizione che possa suggerire che l’Iran, la Bielorussia o il Kazakistan vogliano liberare il proletariato internazionale: non provano a liberare neppure il proletariato nei loro paesi. Basterebbe chiedere ai rivoluzionari di questi Stati la loro opinione, ma a quanto pare per le aree più “sovraniste” della “Sinistra” è più divertente parlare di “geopolitica” come se la lotta politica fosse una partita a Risiko, piuttosto di disquisire sul controllo operaio dei mezzi di produzione. Il vero problema delle cosiddette “rivoluzioni colorate” è che il proletariato e i movimenti rivoluzionari non sono stati in grado di cavalcare queste ondate di rivolta e di porre all’ordine del giorno l’obiettivo della costituzione di governi dei lavoratori e delle lavoratrici; cioè, il movimento rivoluzionario non è stato capace di egemonizzare queste proteste e insurrezioni, lasciando libero campo ai settori borghesi.

Perché non c’è un tentativo di “rivoluzione colorata” innescato dall’estero nel territorio uzbeko? Innanzitutto, per tutti i motivi di cui sopra: le proteste in Karakalpakstan sono scaturite successivamente a un tentativo di reprimere il diritto a esistere come entità politica di un’intera nazione (con la scusa di poterla “integrare”), non perché gli influencer statunitensi hanno cominciato a pubblicare video su Tik Tok e Instagram chiedendo l’indipendenza del Karakalpakstan o perché qualche sorta di George Soros ha scoperto un posticino nel cuore e nel portafoglio per i piccoli popoli dell’Asia centrale. Inoltre, non c’è bisogno di essere accecati dalla presunta “propaganda americana” per desiderare il crollo di un governo come quello dell’Uzbekistan responsabile della repressione dei diritti fondamentali, della persecuzione delle minoranze religiose, di torture e violenze nei confronti dei suoi stessi cittadini, della violenza e repressione nei confronti della comunità LGBTQ+ (esemplare l’articolo 120 del codice criminale del 1994 della Repubblica dell’Uzbekistan che “punisce i rapporti omosessuali con una pena di 3 anni”) e di politiche di carattere patriarcale.

Il partito di governo, lo stesso ovviamente del primo ministro Abdulla Aripov e del presidente Shavkat Mirziyoyev, è il Partito Liberale Democratico dell'Uzbekistan, ovviamente reazionario e antisocialista. È nato come creatura personale di Islom Karimov, ultimo presidente della RSS uzbeka e capo regime dell'Uzbekistan post-indipendenza: il suo periodo di “regno” è famoso per l’uso della tortura e dell'omicidio istituzionalizzati e per, diciamo, una "scarsa simpatia" nei confronti degli oppositori politici. È stato un governo, quello di Aripov, sopravvissuto grazie ai brogli elettorali e alla corruzione diffusa dalla dissoluzione dell'URSS fino alla sua morte nel 2016, quando è stato sostituito dal nuovo “sovrano illuminato”, Mirziyoyev, che ha avviato qualche riforma e apertura e ha smantellato la prigione di Jaslyk nel settembre 2019, che costituiva il principale rapporto tra Aripov e il Karakalpakstan, prigione celebre per essere stato un centro di detenzione per gli attivisti per i diritti umani e gli oppositori, sottoposti a terribili torture al suo interno.

In secondo luogo, a sfatare questo emergente mito rivoluzionario cromatico, la collaborazione dello Stato uzbeko con i governi occidentali. L’Uzbekistan, infatti, è l’unico dell’area che non fa parte dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, che raccoglie i più stretti alleati della Russia (o in altre parole, le nazioni sostanzialmente trattate come sudditi dall’imperialismo russo, come l’Armenia) e che è intervenuta nella repressione delle proteste in Kazakistan di quest’anno. È vero che pur non avendo stretto accordi militari specifici con la Russia è comunque un paese a essa legato, ma sono innegabili le relazioni amichevoli con gli Stati Uniti, l’Unione Europea (che ogni tanto esprime qualche lagnanza pro forma sulla corruzione o la mancanza di diritti civili) e la Cina.

È vero anche che c’è stato uno strappo dopo il 2005 tra il regime di allora e l’occidente, a scapito dei precedenti ottimi rapporti con gli Stati Uniti, in quanto il paese ospitava un contingente americano durante l'invasione dell'Afghanistan ed era un alleato nella "Guerra al terrorismo islamico", ma questo strappo pare essere stato efficacemente ricucito. Il 5 luglio, infatti, il Dipartimento di Stato statunitense ha pubblicato un comunicato di Ned Price, rappresentante del dipartimento, che afferma, dopo una classica, blanda e inutile dichiarazione a favore di una risoluzione pacifica del conflitto, di sostenere l'integrità territoriale dell'Uzbekistan. Peraltro, nel comunicato è presente un'altra formula assai ambigua: "We support Uzbekistan’s efforts to implement democratic reforms" [3]. Quali riforme democratiche? Certo, per quanto riguarda il piano della democrazia formale sembrano esserci stati dei miglioramenti rispetto ai tempi di Karimov (non ci voleva granché, e in ogni caso si parla di un restringimento dei fenomeni repressivi sulla libertà di culto e il rilascio di alcune decine di prigionieri politici), ma forse non è chiaro al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti che la direzione appena intrapresa dal governo uzbeko non è quella delle riforme democratiche, ma semmai quella del rafforzamento dell'autocrazia. O più probabilmente il Dipartimento di Stato ne è conscio ed è semplicemente poco interessato a questi fatti fintanto che i rapporti con il paese saranno buoni. In ogni caso, non si trovano motivazioni per cui i paesi occidentali dovrebbero tentare un rivolgimento politico in un paese come l'Uzbekistan, quando questi ha un regime non particolarmente ostile nei confronti dei loro interessi.

In ogni caso già si parla dei possibili "oscuri agitatori separatisti al soldo dell'occidente", definizione ridicola che già il sottoscritto ha dovuto leggere in alcuni sagaci commenti e nei media filogovernativi, che accusano “malevoli” forze straniere di aver causato i disordini con l’intenzione di provocare scontri interetnici e di attaccare l’integrità territoriale dell’Uzbekistan utilizzando il Karakalpakstan come trampolino di lancio per delle terribili cospirazioni; questa logica ritiene per questo necessario abolire lo statuto di autonomia (ricordiamo: più di facciata che reale) in nome di questi presunti fatti, peccato che siano palesemente i provvedimenti legislativi ad averli scatenati e ad aver creato le premesse per una rivolta nazionale di cui precedentemente non c’era neppure l’ombra. È così che questi stessi media colgono l’ispirazione per gettare fango sulle politiche leniniane che implicavano il riconoscimento e l’autonomia delle nazionalità dell’ex impero degli Zar, politiche attaccate di recente dal reazionario Vladimir Putin, beniamino di una discutibile parte della “Sinistra” lo considera un “denazificatore”, ama gli “uomini forti” e ha messo le lotte progressiste sotto a un tappeto come se fosse polvere. D’altronde, è un grande classico, in Uzbekistan come altrove, che invece di riconoscere il fallimento delle proprie politiche capitaliste, nazionaliste e autoritarie questo genere di governi punti il dito a destra e a manca, con un range che va dagli americani ai russi ai terroristi islamisti e, in particolare, a dei generici e vaghi comunisti.

I candidati al ruolo di agenti al soldo dello straniero, o, meglio, in parole più realistiche, i gruppi indipendentisti, sono poco significativi. Uno, il Free Karakalpakstan National Revival Party, ha sempre avuto una presenza soprattutto su Internet e sicuramente non può essere considerato un movimento significativo all'interno della popolazione; l'altro, l'Alga Karakalpakstan (movimento responsabile di una sorta di governo del Karakalpakstan in esilio e guidato da un ex membro della borghesia dell'Uzbekistan, Aman Sagidullaev, accusato di aver sottratto un milione di dollari da un'azienda di trattori; non è chiaro se si tratti della verità, visto che risiede in Kirghizistan e che le accuse sono state fatte soltanto dopo l'avviamento del suo attivismo indipendentista: in ogni caso, non sembra essere il genere di persona capace di avere una grande presa nei karakalpaki disoccupati e/o sfruttati), ha i propri militanti sotto il costante rischio di incorrere nella dura repressione. Sostenere il referendum (obiettivo principale di questi gruppi; peraltro, dovrebbe essere svolto previa accettazione dell'Uzbekistan, e difficilmente ci si può aspettare dell'onestà in questo settore da parte di un governo autoritario, borghese, corrotto e nazionalista) per l'eventuale indipendenza, promesso dal governo alla vigilia dell'unione tra le due nazioni, significa incorrere nella ferocia della repressione istituzionale.

La verità è che i sentimenti indipendentisti, diffusi a quanto pare soprattutto all'interno delle frange giovanili, nascono soprattutto in risposta alle inconcludenti politiche dello Stato uzbeko, incapace di risolvere i problemi sanitari, la disoccupazione e i disastri ambientali del Karakalpakstan. I fondi stanziati dallo Stato per lo sviluppo della repubblica sembrano essere più interessati a renderla dipendente dal governo centrale che a svilupparne il potenziale.

Chiaramente, i media al soldo delle istituzioni uzbeke affermano che anche i rappresentanti dei poteri legislativi del Karakalpakstan approvano e domandano una ridefinizione dei rapporti per rendere la repubblica una parte indivisibile dell’Uzbekistan: peccato solo che dei fantocci messi lì dal governo non possono essere considerati in nessun modo rappresentativi dei voleri delle masse karakalpake, semmai possono essere considerati i megafoni e gli sgherri locali della cricca governativa di Tashkent.

Inoltre, ancora una volta, per concludere, un messaggio ai rivoluzionari affetti dal terrore atavico del separatismo e con il dogma ben poco rivoluzionario dell’unità a tutti i costi: compito dei marxisti rivoluzionari è sì ricercare l’unità della lotta del proletariato al di là di tutti i confini, ma quest’unità non deve andare a discapito delle piccole nazionalità e a favore dello sciovinismo di quelle numericamente più grandi o culturalmente più influenti.

L’obiettivo dev’essere dunque la rivendicazione dell’autodeterminazione e dell’indipendenza politica di un Karakalpakstan operaio e multietnico, capace di lavorare con tutte le altre nazionalità della regione alla costruzione di una federazione socialista, per combattere lo sciovinismo nazionalista in tutte le sue forme, cosa che può avvenire soltanto se queste nazioni hanno gli stessi diritti e responsabilità al momento della costituzione di una simile federazione. Non cesseranno mai le baruffe etniche fintanto che ogni singolo popolo non abbia ricevuto riconoscimento politico e amministrativo, che si traduce in poche e pratiche parole nell’indipendenza politica. Soluzioni intermedie non sono una garanzia sul lungo termine: il caso del Karakalpakstan ne è un esempio lampante, visto che formalmente è autonomo e gode dei diritti nazionali, ma di fatto è assoggettato allo sciovinismo del governo uzbeko che da un momento all’altro può spazzare via questi diritti nazionali.

Internazionalismo non è l’ostilità contro la separazione e l’indipendenza politica dei popoli in cerca della propria libertà statale, ma è il sostegno nelle loro battaglie contro la loro borghesia nazionale e contro lo sciovinismo che li vorrebbe forzati all’interno di confini politici e culturali che non hanno scelto.

Altrimenti se ci disgustano a tal punto i reclami da parte dei popoli più piccoli in cerca di uno statuto al pari di quelli numericamente maggiori tanto vale richiedere l’annessione immediata dell’Italia a un qualunque altro paese e ci sarebbe maggiore “unità”. È una tesi ridicola da avallare, così come è ridicolo avallare i proclami anti-indipendentisti che solitamente piacciono tanto ai riformisti ultrà dell’”unità nazionale” e della “patria una e indivisibile”.



NOTE

1 - https://www.aljazeera.com/news/2022/7/4/what-we-know-about-protests-in-uzbekistans-karakalpakstan-region
2 -https://www.specialeurasia.com/2022/07/02/karakalpakstan-riots-uzbekistan/
3 - https://www.state.gov/protests-in-the-karakalpakstan-autonomous-region-in-uzbekistan/

Alessio Ecoretti

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