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La crisi del governo Draghi

15 Luglio 2022

L'instabilità politica italiana smentisce le teorie di “un regime di Draghi”, e ripropone la necessità di un'alternativa di classe

draghi


Avremo modo di seguire nei prossimi giorni lo svolgimento della crisi politica italiana. Ma il fatto centrale è il crollo dell'equilibrio di unità nazionale attorno all'attuale Presidenza del Consiglio. La principale forza parlamentare emersa dalle elezioni politiche del 2018, il M5S, versava da tempo in crisi profonda, priva ormai di una ragione pubblica riconoscibile e di un asse di comando interno stabilizzato. La scissione di Di Maio, effetto e concausa di questa crisi, ha sospinto come riflesso condizionato una reazione autoconservativa del M5S “contro” Draghi e a sostegno di Conte, a sua volta sempre più incerto fra la difesa di una propria immagine istituzionale di ex premier e la pressione maggioritaria delle truppe parlamentari residue per la ricollocazione all'opposizione; tra un consolidamento del polo di centrosinistra attorno al PD (il “campo largo” di Letta), e la tentazione di uno scavalco del PD a “sinistra” nella rappresentanza (recitata) delle ragioni del lavoro.

La “non fiducia” al governo Draghi al Senato sul Decreto Aiuti, combinata con la dichiarazione di una immutata disponibilità alla fiducia futura, mirava a un bizantino punto di equilibrio tra smarcamento politico e continuità di governo. Ma con riserve e intenzioni di segno diverso. Conte puntava a conservare il consenso interno dei gruppi parlamentari con un atto simbolico di differenziazione ma senza rompere con l'esecutivo. Una parte importante dei gruppi parlamentari puntava invece ad una dissociazione dal governo che desse via libera alla campagna elettorale del M5S nel presupposto che Draghi restasse in ogni caso in carica, disponendo di una sua maggioranza alle Camere.

Ma i calcoli si sono rivelati sbagliati, e la crisi è finita in un vicolo cieco.
Già frustrato per la mancata ascesa alla Presidenza della Repubblica, Mario Draghi aveva da tempo accumulato una manifesta insofferenza per la maggioranza che lo sosteneva, i suoi crescenti conflitti interni, le impuntature negoziali incrociate, l'annuncio di possibili rotture sulla prossima Legge di stabilità. Una insofferenza marcata in particolare verso il M5S e verso la Lega.
Parallelamente l'intero scenario mondiale riduceva su ogni versante lo spazio negoziale e di mediazione: con l'irruzione della guerra in Ucraina, l'arresto della ripresa economica continentale, l'esplodere dell'inflazione, il cambio di rotta di tutte le banche centrali, l'impossibilità di ricorrere a nuovi scostamenti di bilancio per finanziare le misure emergenziali.

Il combinarsi del nuovo quadro mondiale con il logoramento dell'unità nazionale ha innescato la miccia della deflagrazione. Il M5S ha esibito il proprio cahier de doléance, cambiando di volta in volta il terreno del contendere. Prima indossando i panni di un'improbabile pacifismo (dopo aver accresciuto le spese militari nei due governi Conte); poi rivendicando l'intangibilità del reddito di cittadinanza (di cui già aveva accettato l'ulteriore peggioramento); poi sollevando la richiesta del salario minimo per legge (in realtà depositata già da tre anni, con disponibilità negoziali al ribasso.); infine impugnando il termovalorizzatore di Roma (ma chiedendo di scorporarlo dal Decreto Aiuti per farlo passare senza vincolarlo alla fiducia). Draghi ha prima mimato una disponibilità all'ascolto, senza prendere alcun impegno, poi ha rifiutato lo scorporo del Decreto. La richiesta del voto di fiducia al Senato ha nei fatti sfidato il M5S chiedendogli un gesto di subordinazione, ciò che Conte non poteva offrirgli se non al prezzo di una sconfessione dei gruppi e del proprio suicidio.

Draghi ha ottenuto il voto scontato della maggioranza parlamentare. La stessa defezione del M5S nel voto di fiducia sul Decreto non è (ancora) una rottura della maggioranza politica di governo, secondo le stesse dichiarazioni formali dei pentastellati.

Il punto è che Draghi non sembra disponibile a continuare, sottoponendosi ad un ulteriore logoramento. Avallare la demarcazione del M5S significherebbe incoraggiare quella speculare della Lega su cartelle esattoriali, scostamenti di bilancio... Come gestire in questo quadro una legge di stabilità già di per sé particolarmente impervia? Da qui la sentenza di morte della maggioranza (“la maggioranza di governo di unità nazionale non c'è più”) e l'annuncio delle proprie dimissioni. Né Draghi appare disponibile a maggioranze diverse da quella di unità nazionale, con M5S o Lega all'opposizione in campagna elettorale contro di lui.

Il Presidente della Repubblica, da lord protettore del governo, supplica Draghi di restare e di provare a ricomporre i cocci, nel nome dell'immancabile interesse superiore del Paese. Il PD, e le forze politiche più organicamente legate al capitale finanziario, agiscono e agiranno nella medesima direzione. Nella Lega i governatori del Nord non fanno mistero del proprio sostegno a Draghi contro il cosiddetto salto nel buio, anche perché il progetto di autonomia differenziata è sulla rotta d'arrivo, e non vogliono rinunciare a un sostanzioso malloppo. Di certo gli chiede di restare Confindustria, che attende un taglio del cuneo fiscale, a carico dell'erario pubblico (cioè del lavoro) per disinnescare le rivendicazioni salariali, e che non vuole mettere a rischio la prossima tranche del PNRR con la relativa pioggia di miliardi ai padroni. Naturalmente la Conferenza Episcopale Italiana non fa mancare la propria preghiera devota.

Ma ricomporre i cocci appare difficile. Draghi non sembra disponibile a immolarsi, avendo a disposizione altri possibili incarichi risarcitori di natura internazionale (in sede UE o NATO), e forse volendosi preservare come riserva della Repubblica per il dopo voto anche sul piano interno. Salvini è sotto la pressione di Meloni, che nell'ultimo anno è cresciuta quasi interamente a sue spese. Di certo vuole scrollarsi di dosso la memoria disastrosa (per lui) del Papeete Beach del 2019, ma non al prezzo della rinuncia a una propria campagna elettorale sulla legge finanziaria, una rinuncia che di fatto gli sarebbe richiesta, dopo quanto è successo, nel caso di una ricomposizione della maggioranza di unità nazionale attorno a Draghi. Quanto al M5S, è ancora lontano dall'aver concluso le proprie convulsioni.

Molte sono dunque le incognite e variabili immediate. In caso di dimissioni irrevocabili di Draghi, Mattarella potrebbe tentare la soluzione di un governo tecnico (Massimo Franco?) per fare la prossima legge di stabilità e mettere al sicuro il PNRR. Ma si tratterebbe di un governo di fine legislatura o di un governo di traghettamento per elezioni in autunno? In ogni caso, il governo dovrebbe disporre di una maggioranza parlamentare. Quale, se l'unità nazionale è in frantumi? E in alternativa quali forze politiche a pochi mesi dal voto si caricherebbero sulle spalle gli oneri della legge finanziaria lasciando ai rivali il ruolo di opposizione? Elezioni politiche a fine settembre/ottobre sono dunque ad oggi il possibile sbocco obbligato di un gioco sfuggito di mano. Con ulteriori incognite. Quale legge elettorale le incardinerebbe? Quale governo farebbe la nuova finanziaria, e in quali tempi? Il rischio di un esercizio provvisorio diverrebbe a quel punto concreto. Peraltro già nei prossimi giorni una nuova eventuale caduta delle Borse e impennata dei tassi di interesse potrebbe introdurre una ulteriore drammatizzazione della crisi politica in corso.

L'intero scenario dimostra in ogni caso una volta di più la cronicità di fondo della crisi politica italiana. Molti a sinistra nell'ultimo anno e mezzo (PRC e PaP in testa) avevano presentato il governo Draghi come l'avvento di un “regime”. Un regime durevole sostanzialmente bonapartista, imposto dall'alto (o dalla BCE, o dagli USA, o dalla finanza mondiale, a seconda delle più fantasiose versioni), in ogni caso capace di subordinare a sé un quadro politico parlamentare ormai disciplinato e asservito.

Cosa resta di questa rappresentazione immaginifica e antimarxista? Nulla. I fatti dimostrano uno scenario opposto. L'assenza di un baricentro politico e istituzionale della borghesia, la crisi verticale dei vecchi poli borghesi di alternanza di centrosinistra e centrodestra a partire dal 2011-2013, la crisi dei successivi soggetti populisti emersi dalle elezioni del 2018, a partire dalla decomposizione politica e parlamentare del grillismo, il susseguirsi di formule politiche e di governo instabili e di breve durata.

Il governo Draghi, nato come effetto di questa crisi generale, aveva il compito di tamponarla: innanzitutto gestendo la ripresa capitalista, grazie ai fondi del Recovery fund, e in secondo luogo dando tempo ai partiti borghesi di riorganizzare il sistema politico istituzionale in vista delle elezioni del 2023. Ma il risultato è stato fallimentare su entrambi i versanti. La ripresa capitalista ha ceduto il passo a una nuova crisi, e soprattutto il sistema politico continua a versare in uno stato caotico. Tanto più dopo la resa di Draghi, che prima ha fallito la scalata al Quirinale e poi si è dimesso da Presidente del Consiglio. Altro che “regime draghiano”!

In questa rappresentazione ingigantita e caricaturale dell'avversario non si esprime solamente un errore d'analisi, ma una forma di apologia capovolta del capitalismo, un feticismo involontario della politica borghese, sempre dipinta tendenzialmente come onnipotente, capace di organici disegni orditi da entità superiori. Per cui l'unico ruolo della sinistra è o fare diga di opposizione democratica (spesso rimuovendo la centralità di classe) e/o cercare di contenere il danno con cicliche compromissioni di governo (Prodi, Tsipras, Sanchez, Boric...), che in realtà sono contro i lavoratori e procurano disastri. Mai di ricondurre l'opposizione di classe a una prospettiva di (“impossibile”) rivoluzione.

In realtà proprio la crisi italiana dimostra quanto sia fragile la politica borghese e i suoi assetti. Il vero problema, tanto più oggi, non è la forza della borghesia, ma la debolezza del movimento operaio. Più precisamente, la debolezza del movimento operaio è il vero punto di forza della borghesia. Ciò che davvero fa scandalo nello scenario italiano è la funzione scendiletto delle burocrazie sindacali, che fanno anticamera di fronte a ogni governo, offrendo a ognuno il proprio ruolo “responsabile” di pacificatore sociale, per di più prendendo schiaffi da tutti. Ciò che davvero fa scandalo è l'assenza di una piattaforma generale di lotta che punti a unificare milioni di salariati, ad aggregare attorno ad essi la maggioranza della società, a indicare l'unica vera alternativa possibile: quella di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Eppure, un'irruzione dell'azione di massa contro l'economia di guerra, per il blocco delle bollette e dei prezzi alimentari; per un forte aumento generale dei salari di almeno 300 euro netti mensili; per una scala mobile dei salari; per la requisizione integrale dei sovraprofitti dei grandi monopoli energetici e la loro nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio; per una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, per investire nella sanità, nelle energie rinnovabili, nella rete idrica, nel risanamento ambientale... traccerebbe la vera linea di confine tra blocchi sociali contrapposti, metterebbe a nudo le finzioni populiste, aprirebbe dal basso un nuovo scenario politico. È lo spettro della ribellione sociale d'autunno, quella che i padroni temono, assieme a tutti i loro partiti; quella che le burocrazie sindacali evocano per vendere ai padroni il proprio ruolo di pompieri; quella che le sinistre rimuovono, per non contrapporsi alle burocrazie sindacali limitandosi a criticare i padroni.

Eppure questa è l'unica possibile ventata di aria fresca.
Come riconosceva Rino Formica, ministro PSI della Prima Repubblica, la politica borghese “è sangue e merda”. Solo la classe operaia può spazzarla via con un'azione rivoluzionaria. Non solo è necessario, è anche possibile. Costruire controcorrente questa consapevolezza è la nostra politica quotidiana.

Marco Ferrando

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