Interventi

Considerazioni sulla narrazione delle questioni operaie e di classe nei media padronali italiani

7 Luglio 2022
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L’informazione italiana è di fatto in mano al capitale: la Repubblica, L'Espresso, HuffPost Italia, la Stampa, il Secolo XIX, Limes, e altre testate minori sono controllate dal gruppo GEDI, controllato dalla Giano Holding, controllata a sua volta dall’olandese EXOR, in mano alla famiglia Agnelli; RCS MediaGroup controlla invece il Corriere della Sera, il Corriere del Mezzogiorno, il Corriere di Verona tra gli altri e l’azionista di maggioranza era fino al 2015, ancora, Giovanni Agnelli & C. S.a.p.a, mentre oggi parrebbe essere Urbano Cairo, il quale detiene anche le quote di maggioranza del canale televisivo La7 [1].

È evidente che pochi quotidiani, e nessuno dei succitati, sia in mano a gruppi editoriali puri, ma tutti in mano a gruppi editoriali controllati da capitalisti che si occupano in generale di tutto fuorché di media e giornalismo.
Ciò vale a dire che il capitale nostrano dirige la narrazione dei fatti italiani e del mondo, con un punto di vista che diventa totalizzante e fuorviante rispetto alle possibili letture dei fatti sociali e – talvolta – della cronaca. Non stupisce allora che, anche nell’ultimo anno, la linea editoriale totalitaria della stampa nazionale nei confronti dei fatti che riguardano la nostra classe sia stata quella di ponderare e gestire, e solo quando gli avvenimenti si sono fatti tanto urgenti da non poter essere soffocati con l’efficace tappeto che è il loro atroce silenzio.

Così i dati eclatanti sulle morti sul lavoro (1116 da gennaio a novembre 2021 secondo l’INAIL, ovverosia più di 3 al giorno nello stesso periodo) sono state gestite con la tecnica dell’assuefazione romantica da cronaca rosa, come fu nel caso simbolo della povera lavoratrice Luana D’Orazio, prontamente compianta da giornali e TV nazionali quando l’immagine del contesto comunitario dell’azienda di famiglia ha permesso di omettere le responsabilità dei padroni dello stabilimento, finendo per rimpinguare per l’ennesima volta la narrazione del piccolo imprenditore bonario e perbene, con l’unica colpa di essere troppo distratto per rendersi conto che favorire l’incremento della produzione può significare stroncare vite e famiglie.
Altre volte – e senz’altro più di frequente, soprattutto per i fatti che accadono nella provincia, e nella provincia della provincia – la narrazione semplicemente non esiste.
È questo il caso di Ignazio Sessini [2], operaio sardo finito all’interno del tritarifiuti nello stabilimento di smaltimento rifiuti dell’azienda sarda Villaservice Spa - gestita da burocrati provinciali e finanziata con capitale interamente pubblico – e sulle quali responsabilità albergano molte ombre, che divengono col passare del tempo un buio totale anche grazie al totale mutismo dei giornali, se non di quelli locali affrettatisi in un primissimo momento a tentare di sporcare la memoria del 56enne riportando la notizia infondata del suicidio, forse fornita da fonti mendaci con precisi fini. Per quanto questo fatto sia accaduto nella provincia della provincia, lo stesso trattamento è tuttavia riservato alla parte maggiore delle vittime dei padroni, le quali nel migliore dei casi verranno insieme seppellite tra le fredde e fattuali lapidi delle statistiche INAIL dal titolo “morti sul lavoro”, prontamente riportate altrettanto freddamente e fattualmente dalla maggior parte delle testate nazionali, di fianco ai paragrafi sulle temperature stagionali.

Orfani dello strumento del romanzo utilizzato per il caso di Luana D’Orazio, inadatto per tale tipo di avvenimenti sociali, il giornalismo nostrano ha dedicato una particolare tecnica narrativa agli innumerevoli scioperi e mobilitazioni che hanno costellato l’anno del 2021, probabile causa di dermatitici grattacapi nelle sedi dei gruppi editoriali padronali; tale tecnica è stata applicata alla totalità delle mobilitazioni operaie che hanno riacceso il lume sulla questione di classe italiana, e se il fine giustifica il mezzo allora tante penne si possono considerare più che giustificate dai voleri timorosi dei propri editori.

Così l’inaspettata e fiduciosa lotta degli operai GKN è stata resa cosa nazionale perché il silenzio non è stato procrastinabile a causa della portata della mobilitazione, e tuttavia la lotta è stata esposta in un primo momento in maniera fattuale e sintetica, aggirando le eventuali analisi che non fossero l’ormai mangiucchiato e risputato, superficiale e generico, cenno agli ancora più generici “costi della pandemia”.

Doveroso segnalare in questo caso l’eccezione rappresentata da alcuni talk show televisivi, che hanno finalmente dato un po’ di spazio nel dibattito televisivo alla rabbia e al malessere operaio, che di fatto hanno rappresentato una iniziativa coraggiosa in un ambiente tipicamente ostile a questi tentativi, e che ha tuttavia fornito un ottimo esempio di ciò che il giornalismo nazionale compie nei riguardi delle mobilitazioni operaie tanto pressanti da non poter né essere nascoste né essere liquidate sinteticamente.

Così entra in gioco la seconda fase della narrazione tendenziosa dei fatti operai di ampia portata che si protraggono nel tempo, in questo caso avvenuta sotto le vesti della riabilitazione del padronato italiano (la mistica devozione a eventuali azionisti pronti a rilevare l’azienda e a salvare gli operai) ai danni del singolo gruppo dirigente britannico della GKN, demonizzato quale fosse l’eccezione in un mondo di buoni padroni. Tanto meglio se poi i sindacati confederali e alcuni partiti riformisti appoggiano la mobilitazione: la narrazione a questo punto si può fare perché innocua e non più pericolosa.

A questo punto il mondo del giornalismo nazionale può dirsi sollevato e rinfrancato dalla possibilità tanto ghiotta di rendere la versione più moderata anche quella ufficiale, liquidando così tutto ciò che non risponda a tale narrazione, persino le rivendicazioni operaie stesse. E difatti sui media nazionali della GKN non si parla più e ora si è passati a tal proposito alla terza fase della narrazione dei fatti operai di ampia portata che si protraggono nel tempo – quella dell’indifferenza, del silenzio, già utilizzata per tutte le altre mobilitazioni e scioperi di portata più contenuta e utile in questo tipo di casi ad estinguere la necessità di avere altre notizie: il racconto ha raggiunto la fine e non interessa più.

La maniera sintetica e fattuale è stata applicata per liquidare anche l’omicidio di Adil Belakhdim, responsabile del SI Cobas novarese, investito dal camion di un crumiro diventato il prezioso capro espiatorio che ha permesso di estinguere – per l’appunto – sinteticamente e fattualmente qualunque riferimento alle violenze padronali. L’atteggiamento nei confronti di tutte le altre morti sul lavoro, di tutti gli altri scioperi e vertenze, di tutti gli altri soprusi subìti dalle lavoratrici e dai lavoratori italiani sembra invece non tangere, sfiorare, né essere anche solo lontanamente un pensiero per i giornali padronali italiani. Di contro, sono tanti gli articoli che oggi dipingono gli (im)prenditori come le vittime della pandemia e della gestione della stessa, così che sia ancora più immediato far passare l’idea che se il padronato soffre, l’operaio non può poi pretendere nulla poiché la crisi è una questione nazionale e “siamo tutti nella stessa barca”. D’altronde quella di sviare l’attenzione sembra essere un’altra delle tecniche preferite dal giornalismo dei padroni, e così è accaduto con i no vax, protagonisti assoluti delle testate nazionali e del dibattito pubblico da ormai tanto tempo.

A questo punto mi azzardo a individuare almeno tre atteggiamenti generali del giornalismo padronale italiano nei confronti delle questioni operaie:


- LA SINTESI E IL FATTO. Riportare in maniera sintetica e fattuale, ovvero senza spingersi a particolari analisi sul contesto, approfondimenti o azzardi d’ipotesi, è un atteggiamento tipico nei riguardi di quelle questioni operaie di così grossa portata da rendersi impossibili da ignorare. Tale atteggiamento è utilizzato per gli avvenimenti di grossa portata ma di breve durata o di poco impatto sul dibattito pubblico. Per avvenimenti di grossa portata e lunga durata nel tempo, l’atteggiamento della sintesi e del fatto rappresenta solo il Piano A che, non fosse utile a estinguere la notizia, lascia il posto all’atteggiamento del Romanzo;


- IL ROMANZO. Atteggiamento utilizzato in due contesti:

1. Utilizzato qualora gli avvenimenti riguardassero singoli soggetti operai – inseriti in contesti diversi da quelli della questione di classe come gli amori, la famiglia o i rapporti col padrone (mai presentato in queste vesti) – sui quali si riveli conveniente imbastire la tavola dell’emotività romantica, in modo da eludere il contesto nel quale il fatto si è svolto (le cause prossime, le cause lontane e le prospettive di una mobilitazione, le condizioni di scarsa sicurezza dei luoghi di lavoro…).

2. Nel caso di eventi di grande portata, il Romanzo è il piano B rispetto all’atteggiamento della sintesi e del fatto; si possono allora in questo piano B individuare tre fasi ordinate cronologicamente, che mi sono sembrate ricorrenti.

Prima fase. Evitare il racconto liquidando la notizia con l’atteggiamento dell’indifferenza o della sintesi.

Seconda fase. Qualora la prima fase non bastasse ad estinguere l’interesse del pubblico per la questione, o la questione si protrae nel tempo (come nel caso di lunghe mobilitazioni), entra in gioco l’atteggiamento romanzesco, che tenta di offrire una prospettiva narrativa congeniale a istituzionalizzare e normalizzare l’avvenimento.

Terza fase. La terza fase interviene per mettere la parola fine alla narrazione ormai istituzionalizzata, e la si rende conclusiva. Ogni buon romanzo ha un inizio e una fine, e la fine liquida personaggi, storie, intrecci e fa scemare l’interesse, e poi lo si ripone in libreria.


- L’INDIFFERENZA (o IL SILENZIO). Questo atteggiamento pratica ostracismo rispetto alla pubblicazione dell’avvenimento e non l’assorbimento della notizia, come avviene con i precedenti due atteggiamenti illustrati. È attuato in due maniere:

1. La periferizzazione delle notizie (o Il silenzio selettivo). Le notizie pubblicate online sono poste nelle pagine più oscure e poco o male indicizzate; nelle televisioni e nei giornali cartacei sono relegate alle edizioni regionali/locali. La notizia viene in questa maniera coperta dalle testate, eppure allontanata dalla narrazione dei fatti rilevanti e relegata alla sfera della straordinarietà e delle eccezioni. Allora la notizia diventa poco rappresentativa del centro del mondo e al contempo diviene un fatto lontano, di una periferia che non turba l’universo narrativo del “centro del mondo” (le notizie più coperte e seguite, generalmente cronaca nera e prassi politiche);

2. Il mutismo (o Il silenzio totale). La notizia non è rilevabile sulle testate padronali nazionali o regionali e, di fatto, è condannata a esistere solo tra le persone direttamente coinvolte o in altre particolari nicchie spontaneamente interessate.


Questi atteggiamenti sono congeniali alla linea editoriale delle testate giornalistiche padronali, ma ovviamente saranno i giornalisti a doverle attuare. Ciò ci trascina inevitabilmente ad affrontare una questione cardine: quali implicazioni ha il monopolio padronale sull’informazione di massa e quale esito ha la narrazione della realtà ottenuta con gli atteggiamenti sopra citati?

Prendendo in prestito un’intuizione di Umberto Eco [3], è forse utile richiamare il concetto di populismo qualitativo, quando “il popolo è una finzione teatrale”. Umberto Eco si interrogava sui connotati tipici e storicamente fondati attraverso i quali riconoscere movimenti e regimi fascisti dei tempi presenti e futuri, così diversi eppure così legati ai fascismi del passato:

«In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, ma l’insieme dei cittadini è dotato di un impatto politico solo dal punto di vista quantitativo – si seguono le decisioni della maggioranza. […] Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo TV o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come “la voce del popolo”» [4].

Eco si riferisce qui alla narrazione politica e alla partecipazione dei cittadini a questa narrazione; io mi permetto di pensare queste sue intuizioni dal punto di vista della narrazione della realtà sociale, esulando quindi dal potere che esercita la classe politica odierna sulle narrazioni e applicando le sue intuizioni alla stampa dell’attuale paesaggio informativo italiano, ossia la fabbrica delle narrazioni della realtà. Effettuando l’incantesimo, consideriamo allora sotto questa nuova luce l’ipotesi che «la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come “la voce del popolo”».

Consideriamo il “gruppo selezionato di cittadini” essere tutta la porzione di cittadini non direttamente interessata alle particolari questioni operaie ed esposta alle narrazioni della stampa nazionale. Consideriamo l’oggetto che provoca “la risposta emotiva in un gruppo selezionato di cittadini” come l’insieme dei giornali più seguiti in Italia, quelli padronali – ovverosia le notizie da loro riportate. La supposta risposta emotiva alle notizie arbitrariamente offerte dai giornali padronali, con gli atteggiamenti sopra schematizzati, è allora dagli stessi “presentata e accettata come la voce del popolo”. A questo punto tutto ciò che non è presentato come voce del popolo dagli stessi giornali, non è accettato e riconosciuto dal “gruppo selezionato di cittadini” come voce del popolo. Ciò equivale a dire che se la linea editoriale non contempla il narrare le questioni della classe operaia (ma non solo), non contemplerà nelle sue narrazioni altra “voce del popolo” che non sia quella da esso “presentata” e, per transizione, da esso “accettata”.

Al contrario, tutto ciò che non viene narrato chiaramente non suscita risposte emotive da parte del gruppo selezionato di cittadini e, in questo circolo quasi autosufficiente, non sarà presentato né accettato come voce del popolo, essendo di fatto relegato a fatto di poco interesse e posto al di fuori dell’universo narrativo del “centro del mondo”. Allora un fatto al di fuori di questo circolo non è presentato, né comunemente accettato, come “voce del popolo”, ma al più presentato come fatto proprio di una irrilevante minoranza, (irrilevante minoranza è considerata dal dibattito pubblico istituzionalizzato).
A questo punto le voci e le esigenze di questa irrilevante minoranza, non presentata né tantomeno accettata come voce del popolo, non entra a far parte del dibattito pubblico istituzionalizzato.
Questo accade alle questioni operaie, che vengono quindi isolate e relegate a fatto generalmente periferico, non meritevole di particolare attenzione e quindi tenute lontane dal dibattito pubblico istituzionalizzato. Così il padronato guadagna il monopolio della narrazione dei fatti e le istituzioni politiche ricavano un maggior controllo su tali questioni di classe, potendo di fatto agire lontano dai riflettori nell’esercizio delle loro funzioni repressive.



[1] Fino al 2015: https://www.ilpost.it/2015/09/22/case-editrici-italiane/
Al 2020: https://www.infoaut.org/varie/chi-controlla-l-informazione-in-italia Approfondimento.
Mappa sull’editoria italiana: https://media.giornaledellalibreria.it/presentazione/allegati/Mappa_editoria.pdf
(nda: le fonti dal quale reperire queste informazioni mi sono apparse difficilmente raggiungibili e frammentarie)

[2] Da segnalare uno dei rari articoli apparsi su una testata nazionale, che tuttavia si serve della stessa tecnica utilizzata per Luana D’Orazio:
https://www.repubblica.it/dossier/cronaca/morire-di-lavoro/2021/07/10/news/ignazio309733297/

[3] L’intuizione di populismo qualitativo è stata formalizzata da Umberto Eco nella costruzione di archetipi tipici del fascismo.

[4] Cfr. U. Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, 2020.

[5] A tutto quanto detto, classificazione degli atteggiamenti compresa, sarebbe forse utile proporre in seguito un approfondimento di carattere numerico, meglio formalizzando le categorie proposte e raccogliendo articoli riguardanti la classe operaia al fine di categorizzarli e poter avere anche una visione statistica del fenomeno in questo scritto appena ipotizzato.

Enrico C.

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