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Il primo turno delle elezioni in Francia

E gli abbagli su Mélenchon in Italia

13 Aprile 2022
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Il primo turno delle elezioni politiche francesi ha registrato il tracollo dei vecchi partiti della Quinta Repubblica. I due partiti che per decenni avevano incardinato l'alternanza ai vertici di governo dell'imperialismo francese sono di fatto in una fase di dissoluzione: i Repubblicani di tradizione gollista al 4%, il Partito Socialista all'1,7%.
L'ascesa di Macron nel 2017 è stato a un tempo effetto e concausa del tramonto del bipolarismo tradizionale. Queste elezioni presidenziali hanno concluso il processo. Il vecchio elettorato repubblicano si è raccolto in larga misura attorno al Presidente (27,8%) per un naturale riflesso conservatore. Le Pen (23,1%) ha accresciuto il proprio consenso, pur in presenza della nuova concorrenza di Zemmour, ma senza sfondare. Mélenchon ha polarizzato buona parte dell'elettorato di sinistra con un indubbio successo elettorale (21,9%), mancando per poco l'accesso al secondo turno. Zemmour (7%) ha fallito l'operazione sfondamento ai danni di Le Pen.

Questo quadro d'insieme riflette le difficoltà della Quinta Repubblica. Macron ha migliorato il risultato delle precedenti presidenziali ma è appeso alle sorti del secondo turno. Si pone come uomo-diga, a difesa delle istituzioni e dell'Unione Europea nei tempi difficili della pandemia e della guerra. Ma dopo cinque anni di governo ha esaurito la spinta propulsiva del proprio inganno. L'"uomo del cambiamento" del 2017 è e appare oggi come il garante della conservazione, profondamente detestato da larga parte della società francese. “Il Presidente dei ricchi” marca nel senso comune la sua immagine pubblica, e scava attorno a sé un solco profondo.
La dinamica di classe del suo quinquennato ha nutrito questa profilo: prima il movimento dei gilet gialli, e la sua presa interclassista su settori piccolo-borghesi e popolari; poi il movimento di classe contro la riforma macroniana delle pensioni, con i suoi tratti radicali e le sue azioni a oltranza; infine i movimenti no vax, col loro carico reazionario e affabulatorio. Questi processi, tra loro diversi o persino antitetici nella loro valenza di classe, hanno sospinto contro il governo un senso comune avverso e composito, complessivamente maggioritario. Il 60% dell'elettorato ha votato innanzitutto contro Macron prima ancora che per il proprio candidato.

Significativa la distribuzione sociale ed elettorale del voto. Le Pen ha raccolto soprattutto nelle campagne, nella provincia profonda, ma anche in settori importanti del lavoro salariato di fabbrica. Macron concentra la maggioranza dei propri voti nella realtà urbana, in particolare nei centri metropolitani. Mélenchon capitalizza un voto giovanile, urbano, operaio. Il blocco elettorale di Macron è dunque sotto assedio. L'esito del secondo turno dipenderà dalla sua capacità di romperlo.
Macron si appella come nel 2017 al fronte repubblicano contro l'estrema destra. Allora l'appello riscosse un ampio successo misurato dall'enorme scarto finale tra i due concorrenti al ballottaggi . Oggi il quadro è più complicato. Il riflesso condizionato antilepenista, che pure è presente e diffuso, si è indebolito. Le politiche di austerità di Macron, il suo programma ribadito di innalzamento dell'età pensionabile, la sua postura elitaria ed irritante, sono le armi che Marine Le Pen impugna per chiamare il voto contro Macron. “Marine” ha lavorato nel quinquennio a rinnovare la propria immagine pubblica per meglio nascondere il profilo reazionario della propria agenda (abolizione dello Ius soli, “prima i francesi” nell'accesso al lavoro e ai servizi pubblici, ecc), esibire una finta attenzione alla “questione sociale”, rendersi meno respingente agli occhi di più ampi settori di elettorato. Paradossalmente, la presenza di Zemmour alla sua destra, invece di indebolirla, ha favorito l'operazione di riverniciatura e legittimazione. Di certo se Macron vincerà al ballottaggio non vincerà col plebiscito di cinque anni fa.

Mélenchon col suo 22% è la sorpresa del voto presidenziale. Ha capitalizzato il cosiddetto voto utile a sinistra, a danno del PS, del PCF, di NPA e LO. E pur mancando l'accesso al ballottaggio, si presenta come attore di primo piano nella politica francese. Sicuramente Mélenchon ha raccolto sul piano elettorale i frutti delle mobilitazioni di classe a difesa delle pensioni, l'attenzione di milioni di giovani che cercano un futuro diverso dal loro presente, la domanda di svolta ambientalista della giovane generazione. Ma la natura delle domande raccolte non corrisponde a quella delle risposte offerte.
Mélenchon ha beneficiato negli anni del tracollo del Partito Comunista Francese e del disfacimento della socialdemocrazia francese a ridosso del governo Hollande. Ma nel suo successo si riflettono in parte anche i detriti che hanno accompagnato quel tracollo, a partire dalla deriva populista di ampi settori dell'opinione pubblica, anche nel popolo della gauche. La retorica dell'esultanza con cui in Italia Potere al Popolo e Rifondazione Comunista hanno salutato il successo di Mélenchon riflette l'invidia comprensibile del risultato, ma copre anche aspetti scomodi del suo significato.

Mélenchon è un campione di trasformismo politico. Già membro della massoneria (dal 1983 al 2019), già dirigente del Partito Socialista, già ministro del governo Jospin (1997-2002) che bombardò Belgrado, Mélenchon ha rifondato il proprio personaggio a sinistra a partire dal 2008, con la costituzione del Parti de Gauche (Partito della Sinistra) e poi con la creazione nel 2016 di La France Insoumise (LFI). Le elezioni presidenziali del 2012 (11%) e del 2017 (19%) hanno fortemente sospinto la sua immagine pubblica. Mélenchon è innanzitutto... Mélenchon. La massima espressione di personalismo politico autocentrato nella storia della sinistra francese. Le sue creature politiche, in particolare LFI, sono fragili meteore che attorniano la sua figura. Ogni domanda di organizzazione democratica della nuova formazione è stata respinta, perché lesiva della libertà scenografica di Mélenchon sul palcoscenico della politica francese.

L'impronta politica di LFI riflette la disinvoltura del suo inventore. Un assemblaggio di istanze socialdemocratiche e sovraniste, sicuramente attente alle ragioni sociali dei salariati ma all'interno della celebrazione della Nazione. Vi trovano spazio rivendicazioni elementari di un programma minimo redistributivo (innalzamento del salario minimo, pensione a 60 anni, riduzione del precariato), la lotta contro l'inquinamento, la difesa dell'istruzione e della sanità pubblica, ma anche la rivendicazione della «grandezza della Francia» della sua «indipendenza», delle sue ragioni contro l'esuberanza della vicina Germania e «il suo eccesso di esportazioni». Con tanto di misure protezioniste sulle importazioni e di «primato della produzione nazionale». La stessa uscita dalla NATO che Mélenchon rivendica (ma solo, letteralmente, “poco a poco”) è nel nome dell'indipendenza militare della Francia, con esplicito riferimento all'uscita di De Gaulle del 1966. È l'indipendenza nazionale dell'imperialismo francese. L'Unione Popolare che ha formalmente siglato la campagna elettorale di Mélenchon è presentata come l'”Unione dei Francesi”. Le sue manifestazioni pubbliche celebrano l'inno nazionale della Marsigliese ed esibiscono il tricolore al posto della bandiera rossa. All'ombra del tricolore di Francia si rimuove il diritto di separazione delle colonie e si corteggiano gli umori più disparati, incluso l'ammiccamento ai no vax nel nome della libertà sanitaria. Insomma, tutto ciò che serve alla bisogna elettorale, Il “popolo contro l'élite” è lo schema che riassume il tutto.

I riferimenti internazionali di Mélenchon si ritrovano nel cartello politico dal nome “Ora il Popolo” costituito nel 2018 con lo spagnolo Podemos e il Bloco de Esqueda portoghese, non senza riferimenti alle campagne di Sanders negli USA. La dichiarazione costitutiva del raggruppamento reca il titolo “Per una rivoluzione democratica in Europa”. Ma Podemos ha oggi quattro ministri nel governo dell'imperialismo spagnolo, il Bloco è reduce dall'appoggio suicida per anni al governo della socialdemocrazia lusitana, Sanders governa a rimorchio di Biden la più grande potenza imperialista mondiale. In tutti i casi la “rivoluzione democratica”, qualunque cosa voglia significare (niente, in realtà), ha lasciato il posto alla conservazione borghese. Mélenchon raccoglie insomma il proprio successo in patria quando il populismo di sinistra altrove sfiorisce, mostrando tutta l'inconsistenza truffaldina della sua politica: l'occupazione di uno spazio elettorale in una prospettiva di negoziazione ministeriale. Con buona pace delle sue stesse promesse elettorali.

È vero, Mélenchon ha fatto argine a Le Pen nell'elettorato operaio, ed è un fatto positivo. Ma la sua politica non definisce alcuna prospettiva di alternativa vera per i lavoratori e le lavoratrici. “Un altro mondo è possibile”, come titola la campagna di Unione Popolare, è in realtà l'eterna riproposizione di una possibile riforma del capitalismo nel mondo presente: un'utopia conservatrice. Non a caso Fausto Bertinotti, su La Repubblica (12 aprile) ha salutato in Mélenchon la “nuova sinistra”, forse vedendovi una vendetta postuma sul proprio fallimento. Non è un buon augurio. Neppure per Mélenchon.

La costruzione di una sinistra rivoluzionaria – classista, anticapitalista, internazionalista – resta all'ordine del giorno, in Francia e ovunque, ben al di là del ballottaggio Macron-Le Pen, due avversari della stessa classe. E non sarà certo Mélenchon a incarnarla.

Partito Comunista dei Lavoratori

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