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Kazakistan, una ribellione di classe

Le letture farlocche del campismo

9 Gennaio 2022
kazakistan


“Rivoluzione colorata” dell'imperialismo, “rivolta salafita integralista orchestrata dall'Occidente”... La pigrizia mentale del campismo di casa nostra (e non solo) nei presentare i fatti del Kazakistan è pari solamente alla sua ignoranza complottista. Tutto ciò che accade al mondo, a qualsivoglia latitudine, dipende sempre dall'intervento di burattinai occulti. Secondo questa visione, ad essere il motore della storia non è più la lotta di classe, con buona pace di Marx, ma le stanze dei servizi segreti. Tra i quali naturalmente si tratta solo di scegliere quelli buoni. I russi e i cinesi, ad esempio.

Purtroppo per loro, gli avvenimenti del Kazakistan rappresentano l'ennesimo schiaffo in faccia.

Innanzitutto la ribellione kazaka ha un'inconfondibile natura di classe. Ne fornisce una puntuale documentazione il Movimento Socialista del Kazakistan. Il primo gennaio i lavoratori salariati dell'industria petrolifera di Zhanaozen si sono messi in sciopero con la rivendicazione dell'annullamento dell'aumento di prezzo del gas. Il 3 gennaio gli scioperi operai si sono estesi all'intera regione di Mangghystau e poi di Atyrau.
Anche la piattaforma degli scioperanti per l'occasione si è arricchita: aumento dei salari del 100%, annullamento degli aumenti di produttività, libertà sindacali.

Il 4 gennaio sono entrati in sciopero i lavoratori del settore petrolifero della Tengizchevroil, partecipata al 75% da compagnie americane, dove nel dicembre scorso erano stati licenziati 40.000 operai. A loro sostegno si sono mossi i lavoratori del petrolio di Aqtobe, del Kazakistan occidentale e di Qyzylorda. A questi si sono aggiunti a loro volta i minatori, che sono entrati in sciopero alla ArcelorMittal Temirtau nella regione di Karaganda e nel settore del rame alla Kazakhmys. Nei fatti si è trattato dello sciopero generale della classe operaia di tutto il settore estrattivo, cioè del cuore della classe operaia industriale del Kazakistan.

Questa onda d'urto della classe operaia ha innescato un sommovimento popolare più ampio, che nella notte del 4-5 gennaio ha visto esplodere la rivolta di piazza in diverse città, a partire dalla città di Almaty, con scontri durissimi tra manifestanti e polizia. Qui il volto della ribellione è stato quello delle borgate periferiche, in larga parte dei disoccupati, che il regime ha cercato di dividere dagli operai con alcune concessioni, ma invano.

Il Presidente del Kazakistan ha ha provato allora a giocare una carta istituzionale: ha sciolto il governo, e ha licenziato Masimov, il Presidente del Consiglio di sicurezza, simulando una svolta politica finalizzata a disinnescare il movimento di massa. Ma l'operazione è fallita. Il 5 gennaio le manifestazioni operaie e popolari si sono estese al Kazakistan settentrionale e orientale, inizialmente risparmiate dalle agitazioni, e in diverse città hanno puntato ai palazzi delle amministrazioni regionali. Anche le parole d'ordine hanno assunto un carattere più direttamente politico. La parola d'ordine “Via il vecchio” (Nazarbayev), che già aveva fatto capolino nella prima fase degli scioperi è stata rimpiazzata da quella della liberazione di tutti i detenuti politici, della fine della repressione, di garanzie costituzionali, delle dimissioni di Tokayev.

Un passaggio centrale della vicenda è stato il rifiuto di alcune forze di polizia di colpire i manifestanti e addirittura qualche caso di fraternizzazione con questi. Tale linea di faglia negli apparati di sicurezza interni ha acceso la spia di massimo allarme ai vertici istituzionali del Kazakistan: la paura di perdere definitivamente il controllo della situazione a vantaggio dell'insurrezione. In questo preciso momento si è prodotta la svolta del regime: l'appello di Tokayev all'aiuto fraterno degli Stati alleati (Russia, Kirghizistan, Tagikistan, Bielorussia, Armenia) e il passaggio alla repressione militare frontale, col mandato di uccidere. Gli ammiccamenti alla piazza dei primi giorni della rivolta, nella illusione di riassorbirla, hanno lasciato il posto alla denuncia di "ventimila terroristi armati dall'estero”. Denuncia grottesca subito raccolta naturalmente dalla Russia e dalla Cina. In particolare dalla Russia, che ha prontamente inviato in Kazakistan le proprie truppe speciali. Non lo aveva fatto un anno fa, quando il Presidente armeno, in guerra con l'Azerbaigian, aveva richiesto analogo aiuto nel nome della stessa alleanza militare. Putin lo ha fatto ora invece in Kazakistan senza esitazioni. Perché la sollevazione kazaka è troppo contigua al territorio della Russia, le sue rivendicazioni classiste e democratiche troppo potenzialmente contagiose, per rischiare una destabilizzazione alle frontiere. Né la Russia poteva lasciare all'imperialismo cinese, già economicamente straripante, una chiave politica d'accesso nel proprio cortile di casa. I blindati di Mosca non sono solo un aiuto regime kazako, ma anche il tentativo di bloccare ogni possibile effetto di propagazione di dinamiche analoghe in Russia, e la riaffermazione dell'egemonia militare russa in Asia centrale, contro ogni possibile tentazione concorrente

Chi solidarizza con la Russia e la Cina contro gli operai kazaki ignora peraltro non a caso il ruolo del proprio imperialismo in Kazakistan, americano, europeo, italiano. Dopo il crollo dell'URSS, quando anche la vecchia oligarchia stalinista del Kazakistan si è convertita nella nuova oligarchia capitalista, il regime kazako ha aperto a tutti gli investimenti stranieri, offrendo loro le ricchezze del paese: cromo, carbone, zinco, ferro, manganese, bauxite, ma anche il preziosissimo cobalto e naturalmente, in primo luogo, il petrolio. I paesi imperialisti hanno tutti trovato il proprio posto al sole in Kazakistan. Non solo le aziende americane ma anche quelle europee, come la Total e ovviamente l'ENI, presente in Kazakistan dal 1992, che ha recentemente stretto accordi di cooperazione con KazMunayGas per sviluppare progetti in energie rinnovabili e idrogeno.

Il regime kazako, lo stesso che uccide gli operai in sciopero, è stato ed è il garante di tutti gli interessi stranieri nell'industria estrattiva. Gli operai kazaki non scioperano solo contro il proprio regime ma anche contro gli azionisti stranieri che lo sorreggono e che sono stati da questi beneficiati nel corso degli anni. Non a caso il regime kazako, che pur si affida per la sicurezza alle forze speciali della Russia, è stato ed è ben attento a preservare un proprio equilibrio in fatto di relazioni internazionali. Con gli USA, ottenendo sempre un atteggiamento di riguardo; con la UE, infatti particolarmente cauta di fronte alla repressione sanguinosa; con la Turchia di Erdogan, che coltiva in Kazakistan una forte presenza turcofona; ma anche con la Cina, presente in Kazakistan in modo massiccio nella logistica, nell'edilizia, nei trasporti. Il regime kazako insomma si è offerto a tutti i propri clienti come loro garante, giocando sulle loro rivalità e appetiti contrastanti, con l'unico scopo di restare in sella. Oggi si attende e ottiene da tutti, in forme diverse, una complicità silenziosa o un aperto sostegno. L'appello dell'ONU alla “moderazione” rivolta indistintamente a tutti i soggetti coinvolti, mettendo operai e regime assassino sullo stesso piano, è di fatto una copertura ipocrita al regime kazako.

Alcuni borghesi kazaki, presenti all'estero da esiliati, cercano di corteggiare la diplomazia occidentale offrendosi come possibile carta di ricambio per gli interessi imperialisti in Kazakistan. Si distingue in questo campo l'ex banchiere ed ex ministro Ablyazov, capo del movimento “Scelta democratica del Kazakistan”, che addirittura si presenta abusivamente come l'ispiratore della ribellione. Il suo scopo è quello di ottenere un'investitura occidentale in caso di crollo del regime. Ma è un caso di millantato credito. Nelle sue interviste alla stessa stampa italiana l'ex banchiere si guarda bene dal citare gli scioperi e le rivendicazioni della classe operaia kazaka. Parla invece con cognizione di causa della corruzione interna al regime, di cui ha fatto parte. Parla anche, meno cautamente, dei favori di Unicredit al regime kazako, forse sperando in qualche entratura di rimando nel campo della concorrenza bancaria. Da ex banchiere s'intende del ramo. È possibile che qualche campista sventurato di casa nostra, in cerca di conferme, avalli la megalomania di questo personaggio indicandolo come prova provata del “complotto occidentale”.

Ma l'unico complotto degli occidentali in Kazakistan negli ultimi trent'anni è stato quello del sostegno corale al regime che ha garantito loro gli affari, anche e soprattutto contro gli operai kazaki; una garanzia certo più robusta di quella che oggi può offrire un ex banchiere trombato in esilio a Parigi in cerca di riscatto.

La nostra scelta di campo è inequivoca. Stiamo dalla parte della classe operaia kazaka contro il regime sanguinario, contro i carri armati russi, contro tutte le presenze imperialiste in Kazakistan

Per la più ampia solidarietà internazionale ai lavoratori kazaki.
Giù le mani dalla classe operaia kazaka.
Via il regime assassino.
Via le truppe russe dal Kazakistan
Libertà per i lavoratori arrestati.
Pieni diritti e libertà sindacali.
Nazionalizzazione dell'industria estrattiva kazaka, senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori.
Per un governo dei lavoratori in Kazakistan.

Partito Comunista dei Lavoratori

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