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Per un vero partito comunista

A trent'anni dalla nascita di Rifondazione Comunista

14 Dicembre 2021

Il 12 dicembre 1991 si apre il congresso di fondazione del PRC, dopo lo scioglimento del PCI e un periodo di gestazione di un anno. L'intervento di Marco Ferrando al congresso

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L'intervento che il compagno Marco Ferrando tenne al primo congresso del Movimento per la Rifondazione Comunista il 14 dicembre 1991, che di seguito presentiamo, anticipava i caratteri dell'opposizione marxista rivoluzionaria alla linea generale dei gruppi dirigenti del PRC.

Nel 1991, dopo la svolta della Bolognina, il Movimento della Rifondazione Comunista si andò sviluppando in tutta Italia con grande forza, raccogliendo la domanda di un significativo settore della base di massa del PCI che si era opposto allo scioglimento del partito, ma anche la richiesta di una opposizione vera alle classi dirigenti, che rifuggisse dalle pratiche compromissorie del vecchio PCI. Era la domanda, per quanto confusa, di un
vero partito comunista. Per questa ragione i marxisti rivoluzionari non ebbero dubbi a partecipare, col proprio programma, al Movimento per la Rifondazione Comunista, a differenza ad esempio del gruppo Falcemartello (oggi SCR), che in omaggio alla linea di scuderia di Ted Grant e Alan Woods restò allora nel Partito Democratico della Sinistra e vi rimarrà sino alle soglie del 1996.

Tuttavia il gruppo dirigente del MRC (Cossutta e Garavini), erede di consolidate tradizioni riformiste, non aveva alcuna intenzione di onorare la domanda di svolta che si rivolgeva a Rifondazione. Sergio Garavini, coordinatore nazionale del MRC e poi primo segretario del PRC, assumeva come referente l'area ingraiana dei “Comunisti Democratici”, che era rimasta nel PDS, sino a ipotizzare una federazione della sinistra che tenesse insieme MRC e PDS. Da qui le resistenze a costituire il partito e la volontà di prolungare lo stato gassoso di movimento fluido. Armando Cossutta e la sua componente (con Oliviero Diliberto e Marco Rizzo) avevano invece la preoccupazione di costruire un proprio partito su basi togliattiane (sacralità della Costituzione, rispetto della proprietà privata...), con l'idea di occupare uno spazio elettorale e di fare del nuovo soggetto uno strumento negoziale sul terreno politico e istituzionale. Da qui la pressione per la costituzione formale del PRC con un assetto stabile sotto il proprio controllo.

In questo quadro il nostro intervento avanzò sin dall'inizio una proposta alternativa a tutte le posizioni a confronto. Da un lato una proposta di netta demarcazione dal PDS per la formazione di un partito comunista pienamente autonomo. Dall'altro una proposta di un vero partito comunista, che rompesse con la tradizione riformista e recuperasse i principi fondativi di una prospettiva rivoluzionaria su tutti i temi strategici: la proprietà, lo Stato, l'internazionalismo proletario.
Fu questo un terreno di progressiva separazione della nostra corrente dalle posizioni dell'organizzazione Bandiera Rossa, diretta da Livio Maitan e Franco Turigliatto, che sin dall'inizio rifiutò una battaglia programmatica nel PRC sulla scia di quel lungo mimetismo subalterno che alla fine degli anni '60 (in attesa delle evoluzioni di Ingrao) aveva suicidato il trotskismo italiano, e che tra il 1998 e il 2004 farà di quell'organizzazione un supporto organico del bertinottismo.

L'intervento di Marco Ferrando, allora unico esponente della nostra tendenza nel Coordinamento Nazionale del MRC, prefigurava dunque per molti aspetti il senso generale di una battaglia di raggruppamento rivoluzionario nelle file del PRC che sarebbe durata quindici anni, sino a quando l'ingresso del PRC nel governo Prodi nel 2006 pose la necessità di una rottura, con la nascita del Partito Comunista dei Lavoratori.





Compagne e compagni, questo congresso si tiene sicuramente sullo sfondo di drammatiche vicende internazionali come quelle ora più volte richiamate. Si tiene anche sullo sfondo di una possibile precipitazione reazionaria della situazione politica italiana. Di questo io credo dobbiamo essere in primo luogo pienamente coscienti.
Perché come in altre fasi della storia, le classi dominanti tendono a tradurre sul piano istituzionale i mutati rapporti di forza nella società, ed è sintomatico che la Confindustria per la prima volta si pronunci per una Seconda Repubblica.

L'aspetto più pericoloso sta nel fatto che l'arretramento della classe operaia e lo sfaldamento del blocco sociale attorno ad essa ha creato le condizioni di una capitalizzazione a destra della crisi di regime. E allora le Leghe (1) rappresentano qualcosa di più e di peggio di una confusa corrente di protesta: rappresentano la possibile base di massa, a tratti militante, di soluzioni politiche reazionarie. Grave sarebbe per parte nostra una sottovalutazione di questo dato.

Ma se la radice ultima e più vera di questa svolta a destra sta nell'arretramento sociale delle classi subalterne dobbiamo trarne le dovute conseguenze, evitando letture istituzionali o politiciste che potrebbero indurci a risposte sbagliate.

La prima conseguenza è che non vi è alternativa oggi all'esigenza prioritaria dell'opposizione sociale. Di un'opposizione vera, intransigente, senza doppiezze. Perché solo una forte opposizione può sottrarre spazio alla demagogia reazionaria delle Leghe e disgregare quel blocco sociale interclassista che dietro di esse si è raccolto. Perché solo una forte opposizione può iniziare a ricomporre un blocco sociale alternativo, capace di arrestare l'offensiva avversaria e preparare il terreno per un'alternativa di potere.

Ma per ricomporre un blocco sociale occorre individuare un perno, una forza motrice, ed io credo che la classe operaia, nella sua nuova composizione ed estensione, sia sotto questo profilo un riferimento centrale. È una centralità di classe che non si pone solo in relazione alla prospettiva socialista ma si pone qui e ora come fattore determinante di un'opposizione di massa, di una resistenza sociale, come possibile coagulo e punto di riferimento di una vastissima insoddisfazione popolare e delle stesse domande radicali dei vari movimenti antagonisti. Domande che non possono essere confusamente sommate una sull'altra, ma che vanno tradotte in una prospettiva di incontro col mondo del lavoro, in un disegno unitario, anticapitalistico e di massa.

Anche per questo, compagni, è necessario un partito. Perché solo un partito comunista, e non un movimento informale, può perseguire un programma unificante, una strategia di blocco sociale. Solo un partito comunista può difendere nei movimenti stessi la coerenza unitaria di un programma, contro ogni deriva settorialista, corporativa, intellettualista.

Certo, abbiamo bisogno di un partito non settario, è vero. Ma voglio dire qui con estrema franchezza che questa definizione ha assunto a volte al nostro interno un significato improprio: quello di una sollecitazione all'apertura verso il ceto politico della sinistra ed in particolare verso l'area dirigente dei Comunisti Democratici del PDS (2); quello di un rallentamento dello stesso passaggio da movimento a partito, anche con la scelta, di fatto, di un congresso a due tappe. E la stessa proposta di rinuncia al nome di "partito comunista" si è posta in passato in questo quadro. Su questo ho espresso in Coordinamento Nazionale, e qui riconfermo, un mio dissenso. Non contesto ovviamente il prestigio di compagni come Ingrao – non è questo in discussione, va da sé. Ma la misura dei nostri ritardi, dei nostri settarismi – se così li vogliamo definire – non è data dal rapporto con questi compagni. È data da altro: è data dai ritardi, dalle insufficienze della nostra proiezione sociale, di lotta, tra i lavoratori; è data dal fatto che c'è grande sproporzione tra le ottime battaglie parlamentari, le manifestazioni nazionali, lo stesso volume dei nostri iscritti, e uno scarso radicamento sociale nei luoghi di lavoro e nei movimenti di massa. Eppure è qui, compagni, che ci giochiamo la partita decisiva, è qui che ci giochiamo la stessa partita dell'unità dei comunisti. Perché il grosso del popolo comunista non è col PDS. Non è ancora con noi, non è organizzato, ma è invece larga parte di quella grande massa di lavoratori, uomini, donne, gente semplice, che a noi chiede non solo buona volontà, ma capacità di incidere e strumenti adeguati.

E allora la domanda di partito che ci viene rivolta non è domanda di arroccamento settario, è al contrario domanda di presenza, di iniziativa, di lotta. Settario sarebbe ignorare questa domanda, per indugiare nell'attesa di altre illustri provenienze. Questo sì sarebbe il vero minoritarismo.

Certo, abbiamo bisogno di un partito che non si limiti all'iniziativa sociale ma sia anche capace di una relazione politica con le altre forze della sinistra. Di un partito capace di incalzare le altre forze di opposizione richiamandole alla coerenza, ad una pubblica responsabilità, come abbiamo fatto per la battaglia sulla Finanziaria. E tuttavia questo a partire dalla difesa incondizionata di una nostra piena autonomia. E ai dirigenti dall'area Comunista Democratica del PDS, che formalmente propongono un grande patto federativo della sinistra, da Rifondazione al PDS addirittura al Partito Socialista, dobbiamo dare una risposta serena ma chiara: dobbiamo dire qui che non siamo d'accordo, né per l'oggi né per il domani. E questo sia per ragioni di credibilità e di realismo, sia per la divergenza dei progetti politici generali, ma anche e soprattutto per una considerazione d'insieme e di fondo. Quella per cui non possiamo pensarci a costruirci come coscienza critica di questa sinistra, ritagliandoci un ruolo di pura pressione sulle forze riformiste del movimento operaio. Non vi sarebbe spazio politico, e penso, alla lunga, neppure elettorale, per una forza satellite.

Altra e ben più grande deve essere invece la nostra ambizione. Quella di una forza che si candida a nuova rappresentanza, a nuova direzione politica del movimento operaio e dei movimenti di massa come alternativa a questa sinistra. In una parola: un partito comunista.

Ma se questa, compagni, è la nostra ambizione, non possiamo sfuggire all'esigenza di un'identità forte. Di avviare – dico avviare – un confronto vero sulle scelte di fondo dell'identità comunista.

Per esempio, compagni, possiamo davvero ridurre questa identità, come appare dal capitolo tre del Documento politico, ad una sorta di decalogo morale? Io penso di no. Noi abbiamo bisogno di definire una nostra proposta di società socialista, una nuova organizzazione dell'economia e della società umana, non certo come modello astratto ma come fine storico, concretamente perseguibile a partire dalle contraddizioni del capitalismo contemporaneo. E se vogliamo rispondere a questa esigenza dobbiamo essere coerenti.

Ad esempio: pensiamo davvero che la lezione da trarre dall'esperienza dell'Est sia quella di assumere il mercato, sia pure "corretto", come fondamento pluralistico della società, così come testualmente affermiamo nella scheda programmatica sull'economia?
Davvero pensiamo che il comunismo possa ridursi alla vecchia ricetta del controllo pubblico sul capitalismo?
Siamo franchi e concreti! Pensiamo davvero sia possibile riorganizzare la società su basi nuove, costruire un nuovo modello di sviluppo liberato dal dominio del profitto, lasciando le leve fondamentali dell'economia nelle mani del capitale finanziario?
Io credo di no. E dico di più, compagni. Dico che l'aspetto storicamente progressivo della stessa Rivoluzione d'ottobre, nonostante la degenerazione burocratica, è stato proprio il superamento dalla proprietà privata e dall'anarchia di mercato, ciò che ha consentito nonostante tutto a quelle società arretrate conquiste avanzatissime, oggi attaccate – non a caso – dalla restaurazione capitalistica.

E del resto, compagni, il programma di superamento della proprietà privata è la radice storica, il principio genetico del comunismo moderno a partire da Marx. Certo che quel principio non esaurisce la complessità della rifondazione, è vero. Ma una rifondazione comunista che non parta da quel principio, che neghi le proprie radici, partirebbe con il piede sbagliato.

E se poniamo al centro della nostra prospettiva la costruzione di una società socialista dovremmo davvero riproporre come tema centrale quello della strategia della transizione, a partire dalla questione dallo Stato. È una questione decisiva nella storia del movimento operaio, rispetto alla quale si sono dislocate le sue tendenze fondamentali: quelle comuniste e quelle riformiste. Ma è anche una questione di estrema attualità, a fronte dell'emergere dei casi Gladio (3) e Cocer (4), di un sottobosco oscuro di poteri legali e illegali, che devono farci riflettere sulla natura di classe di questa decantata democrazia occidentale.

Il fatto di essere oggi giustamente impegnati in prima fila a difendere gli spazi democratici contro l'involuzione autoritaria non può farci dimenticare che nel regime capitalistico queste stesse libertà democratiche, peraltro strappate con durissime lotte, restano sempre ipotecate dalla forza degli apparati repressivi, dagli interessi del capitale finanziario. Apparati e interessi che oggi restano, persino nella repubblica più democratica, il vero baricentro dello Stato. Si dirà che è una vecchia verità di Lenin. È vero, ma sono i generali del Cocer che la rendono terribilmente attuale.

Certo, Gramsci ci ha insegnato a leggere la complessità della società dell'Occidente. Ma se è vero che la società è più complessa, e più complessa la costruzione dell'egemonia, è anche vero che lo Stato moderno è incomparabilmente più fortificato di qualsiasi antico Palazzo d'Inverno. Ed è uno Stato che privilegia la ricerca del consenso attraverso un'estrema ricchezza di canali e strumenti, ma è anche disposto all'uso della forza, quando i rapporti sociali lo consentono. E allora un progetto di transizione al socialismo non può non affrontare questo nodo. E in questo quadro dobbiamo recuperare le pagine di Gramsci sui consigli, non certo per volontà di ortodossie letterarie ma per riprendere quel suo disegno, certo problematico, di un altro Stato.
Che rifondi le basi stesse, che sappia collegare l'espansione dei diritti ad una mutazione di fondo della natura stessa del potere.
Non si tratta, io credo, di dichiararci antistatalisti, come invece facciamo nel Documento politico. Si tratta al contrario di concepire uno Stato che sia fondato sulla democrazia sociale, sul potere reale delle grandi masse lavoratrici, in cui la proprietà sociale sia la condizione stessa dell'autogoverno, e non di una burocrazia separata e privilegiata.

E allora, per concludere, compagne e compagni, io credo che dobbiamo sicuramente rapportarci in primo luogo alle lotte di tutti i giorni, a partire dalle esigenze più immediate, senza mai perdere una capacità di dialogo col livello di coscienza dei lavoratori e delle masse. Ma dobbiamo anche riuscire a salvaguardare nelle lotte dell'oggi il futuro del comunismo, il nostro fine, la nostra coerenza con gli obiettivi di fondo.

Certo sono tempi duri per i comunisti oggi nel mondo. Ma quando vediamo che persino a Mosca, nonostante la lunga pagina della profonda degenerazione burocratica, decine di migliaia di comunisti sono scesi in piazza contro la restaurazione capitalistica e imperiale della Grande Russia, a difesa della Rivoluzione d'ottobre e per una vera democrazia socialista, e si raccolgono in nome del comunismo sotto la guida di un perseguitato dallo stalinismo come Medvedev, be' allora, compagni, possiamo pensare che la vecchia talpa ha la pellaccia dura, e che il comunismo come movimento reale avrà davvero lunga vita.

Vi ringrazio.





(1) Lega Lombarda, Liga Veneta e altri gruppi minori, che proprio nel 1991 si unirono per costituire la Lega Nord.

(2) Corrente della sinistra del Partito Democratico della Sinistra, fino al 1998. Ne facevano parte principalmente i sostenitori della mozione di Natta e Ingrao al XIX congresso del PCI, contraria al cambiamento del nome e allo scioglimento.

(3) Struttura segreta paramilitare di difesa anticomunista dei paesi dell'Europa occidentale. Fu promossa dalla NATO e dalla CIA. Operò fino alla fine della guerra fredda; i vertici istituzionali dello stato italiano ammisero pubblicamente la sua esistenza solamente nel 1990.

(4) Consiglio Centrale di Rappresentanza, organo di rappresentanza istituzionale dei vertici delle forze armate. Nel 1991 prese posizione apertamente contro l'allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, generando un inedito scontro politico-istituzionale pubblico.

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