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Marx può aspettare?

14 Novembre 2021

Un'acuta riflessione sul film documentario di Marco Bellocchio

marx può apsettare


Già diverse volte abbiamo parlato di cinema sul nostro sito, quando pensavamo che una riflessione su un film potesse essere utile. Ne parliamo ancora, perché riteniamo utile una brevissima riflessione sull’ultimo film di Marco Bellocchio, Marx può aspettare.

Marco Bellocchio è stato probabilmente uno dei più grandi registi italiani, e non stiamo qui a elencare tutta la sua filmografia. Già i suoi primi due film I pugni in tasca (1965) e La Cina è vicina (1967) sono dei classici che meritano la visione, ma anche in tempi più recenti ha saputo esplorare temi profondi, come in L’ora di religione (2002).

Il suo ultimo lavoro, Marx può aspettare, uscito quest’anno, è molto particolare. Intanto, si tratta di un documentario, e di un documentario molto personale. In questo film, il regista parla di sé stesso e della sua famiglia, attraverso interviste a sé stesso e a fratelli e sorelle. Il vero protagonista, però, è Camillo, il fratello gemello di Marco Bellocchio, morto suicida il 27 dicembre 1968, a soli 29 anni. Si trattò della classica tragedia inspiegabile all’inizio, ma che poi lascia una lunga vena di sensi di colpi fra i parenti più stretti, soprattutto tra i fratelli (in tutto la famiglia Bellocchio era composta da otto fra fratelli e sorelle).

Bellocchio padre, un avvocato benestante, avrebbe probabilmente voluto che tutti i figli facessero studi importanti. Camillo, però, non andava benissimo a scuola, tant’è che il padre decise di mandarlo all’istituto per geometri. Soprattutto all’epoca, era certamente una scelta strana per il figlio di un avvocato, ma il padre la prese convinto della sua validità pratica: «Va bene, gli altri studieranno con grande profitto, ma sviluppando il senso pratico, Camillo potrà anche fare le scarpe a tutti gli altri. Me lo immagino un bel giorno fare irruzione nella piazza su una macchina fuori serie, mostrando di aver fatto fortuna!».

La carriera di geometra, però, non sembra interessare Camillo, il quale preferisce fare un corso di insegnante di educazione fisica e di aprire una sua palestra. Camillo appare così sistemato, tanto più che era fidanzato con Angela, una ragazza molto bella. Ma in realtà, una segreta sofferenza lo rodeva dentro. Gli stessi fratelli non riescono a spiegarsi cosa fosse esattamente. In parte, indecisione su cosa fare nella vita; in parte, una sorta di invidia per i fratelli Marco, regista, e Piergiorgio, fondatore dei Quaderni piacentini. Insomma, due fratelli politicamente impegnati e proiettati nel mondo dell’alta cultura.

A un certo punto, proprio durante le feste natalizie del 1968, Camillo non ce la fa più a sopportare questo suo male di vivere (forse sfociato in una vera e propria depressione), e decide di farla finita, lasciando un biglietto bagnato di lacrime dove si congeda dalla famiglia e si scusa.

Alla fine del film, dobbiamo dirlo, si rimane un po’ con l’amaro in bocca. Naturalmente, capiamo benissimo e rispettiamo il dolore del regista, che ha deciso di girare questo film anche come omaggio a un fratello gemello scomparso troppo presto. Ma non possiamo essere completamente d’accordo con lui sulla spiegazione politica che lui dà di questa storia.

Il male di vivere di Camillo, infatti, gli impediva di occuparsi di cose pubbliche, di impegnarsi nella politica. La cosa lo differenziava tanto da Piergiorgio ma anche da Marco, che alla fine del ’68 aveva girato i suoi primi film ed era già molto impegnato. In particolare, Marco ricorda che l’ultima volta che vide il fratello, in pieno ’68, Camillo gli chiese aiuto per questa sua sofferenza. Marco ricorda più o meno così la risposta che diede: «Gli dissi quattro cazzate rivoluzionarie, che bisognava fare la rivoluzione e realizzare così la propria esistenza. Bisognava essere al servizio del popolo e combattere la borghesia. “Se ti impegni anche tu in politica – gli dissi – ti realizzerai, e curerai anche questa tua sofferenza, che indirettamente è proprio creata da questo stato di cose borghese”». Pare che Camillo abbia risposto al fratello, forse con un sorriso amaro: «Marx può aspettare». Come dire, io personalmente sto talmente male che davvero non posso occuparmi di Marx e di rivoluzione. Devo innanzitutto curarmi di me stesso.

Tutto il film, pertanto, appare come una sincera e sofferta autocritica del regista. Non si tratta tanto dell’allontanamento delle posizioni estremiste avute in gioventù, ma di questo rimorso per il fratello che non c’è più. Se solo avesse lasciato perdere Marx (che dopotutto poteva aspettare…), se solo avesse lasciato perdere la rivoluzione, e fosse invece stato più vicino al fratello, forse quest’ultimo non avrebbe commesso quel gesto.
È appunto qui che, con tutto il rispetto, non siamo d’accordo con l’interpretazione del regista, e di molti che hanno commentato il film. Intanto, quello di Bellocchio è un “forse” davvero molto grande.

Purtroppo, la storia non si fa coi “se” e coi “ma”, e non è assolutamente detto che un diverso atteggiamento da parte di Marco avrebbe potuto salvare Camillo. Quindi, guardando il film ci sentiamo vicini a Marco e agli altri fratelli per la loro perdita, ma non pensiamo affatto che siano colpevoli, né che debbano avere alcun senso di colpa.

Invece, è un altro il pensiero che ci viene in mente. E cosa sarebbe successo se Camillo avesse cercato di combattere la propria sofferenza borghese spendendosi per gli altri? (Si badi bene, qui “borghese” non ha alcun senso offensivo, si riferisce all’alienazione della quale anche Marx parlava). Forse, attivandosi e spendendosi per gli altri, avrebbe fatto meno pensieri cupi e non sarebbe arrivato a quel tragico gesto.

Ma vogliamo dire anche un’altra cosa: non siamo d’accordo con la contrapposizione così netta fra pubblico/politico e personale/privato che esce dal film e da molti altri discorsi analoghi. Quando noi abbiamo un problema personale, siamo davvero sicuri che sia un problema davvero personale? Non può invece trattarsi di un pezzo di un problema molto più ampio, del quale magari soffrono tante altre persone? La soluzione è davvero chiudersi in sé stessi? Non potrebbe essere meglio collettivizzare la propria sofferenza, e cercare altre persone simili a sé stessi? Prendiamo l’esempio della depressione, sempre che davvero Camillo soffrisse di questo male. E se Camillo avesse avuto la forza di fondare un’associazione che aiutava gli affetti da questo male? Ovviamente la nostra è una mera ipotesi, un esempio. Probabilmente all’epoca non c’era molta coscienza di questo male, e forse non era neanche possibile accedere a cure adeguate.

Continuando questo esempio, facciamo però un balzo in avanti nel tempo e prendiamo il libro di Mark Fisher Realismo capitalista. In questo libro, uscito in Italia nel 2018, questo autore inglese denunciava coraggiosamente lo “stalinismo di mercato” che aveva strangolato la Gran Bretagna, tanto da rendere il lavoro nella scuola e nell’università (il proprio) un vero e proprio inferno. Purtroppo, anche questo autore coraggioso ha deciso di togliersi la vita nel 2017, privandoci di una mente davvero preziosa. Prima di morire, però, non aveva paura di confessare pubblicamente la sua battaglia con la depressione, e la sua profonda convinzione che si trattasse di un male sociale e legato all’estremo capitalismo contemporaneo. In Realismo capitalista aveva infatti scritto: «La pandemia di angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere capita adeguatamente, né curata, finché viene vista come un problema personale di cui soffrono singoli individui malati».

Per fare un altro esempio, il fatto che in Italia vi sia una associazione di psichiatri e psicologi militanti, il Centro Fanon, che assiste solo immigrati, fa riflettere. A ben vedere, certi problemi individuali, personali e privati non sono poi così individuali, personali e privati.

Alla fine della nostra riflessione, siamo portati a fare un salto ulteriore, all’oggi. A ben vedere, il capitalismo non è mai stato così distruttivo. Se ce ne fosse bisogno, la pandemia sta qui a dimostrarlo, dato che secondo molti osservatori è stata favorita da uno sviluppo capitalistico incontrollato. La pandemia, ben lungi dall’essere “democratica”, mostra profondamente le differenze che ci sono nel mondo, con i vaccini riservati ai paesi ricchi, mentre quelli poveri non se li possono permettere. La pandemia è anche un’ottima scusa per attaccare il mondo del lavoro (come sta avvenendo in Italia e non solo), e causa indirettamente ulteriori guai (vedi i rigurgiti antiscientisti di una parte minoritaria dei lavoratori).

In questa situazione, se noi ci trovassimo di fronte a un Camillo di oggi, gli diremmo che “Marx può aspettare”? No. Gli diremmo l’esatto contrario, pensando di fare la cosa giusta sia per lui che per la collettività.

Elia Spina

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