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Le elezioni, l'unità della sinistra, la presenza elettorale del PCL

7 Ottobre 2021
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Il primo turno delle elezioni amministrative del 3-4 ottobre ha registrato un'affermazione del centrosinistra nella maggior parte delle grandi città (Milano, Torino, Bologna). Questa affermazione è dovuta non a uno spostamento di elettori dal blocco di centrodestra ma alla dimensione abnorme di un'astensione dal voto che ha interessato in larga prevalenza l'elettorato della Lega. La Lega è la vera sconfitta di questo passaggio elettorale. Più precisamente, il segretario della Lega. La sua ricollocazione nella maggioranza di governo a sostegno di Draghi nel quadro dell'unità nazionale ha sicuramente inciso sul voto, assieme allo scarso appeal di candidati civici improvvisati e posticci, risultante del braccio di ferro tra Lega e Fratelli d'Italia per la guida della coalizione. Fratelli d'Italia si avvantaggia del netto arretramento della Lega ma non in misura proporzionale. Giorgia Meloni non ha capitalizzato che parzialmente la caduta della Lega; il grosso dell'emorragia leghista si è indirizzata verso l'astensione. Significa che la Lega e il centrodestra nel suo insieme continuano a disporre di un blocco sociale ed elettorale maggioritario, sia pure temporaneamente passivo.

Qualunque proiezione della vittoria del centrosinistra sulle prossime elezioni politiche sarebbe dunque ad oggi del tutto sbagliata. Il voto amministrativo è ben diverso dal voto politico, diverso il peso delle motivazioni e della riconoscibilità delle leadership. Così non va confuso il voto delle grandi metropoli col voto dei piccoli centri e della provincia profonda, dove l'astensione al voto è stata molto minore, il centrodestra è più forte e i risultati hanno spesso altro segno. A tutto questo si aggiunge l'assetto ancora in fieri della coalizione del centrosinistra, con un Movimento 5 Stelle che ha virato nel suo gruppo dirigente verso la coalizione col PD ma che registra una forte caduta elettorale, al punto da non risultare determinante in fatto di voti né a Bologna né a Napoli, dove pure ha corso nella coalizione vincente. Parallelamente, la forte affermazione politica di Calenda a Roma può dare volto e riferimento a un processo di raggruppamento al centro capace di aprire contraddizioni nuove e incidere sugli equilibri politici.

Il negoziato sulla legge elettorale inciderà in modo rilevante sugli assetti politici di rappresentanza della borghesia italiana. Una parte importante dell'establishment e dei suoi uomini di riferimento vuole rimuovere la legge attuale, che presumibilmente assegnerebbe al centrodestra una vittoria con ampio margine, tanto più dopo il taglio dei parlamentari. L'idea è quella di una riforma elettorale di tipo proporzionale che possa liberare uno spazio più ampio per un raggruppamento di centro capace di tagliare le ali “populiste” e dare organicità e stabilità all'esperienza Draghi o simil-Draghi anche dopo il 2023. I circoli dominanti della politica borghese sono da subito al bivio di una scelta inaggirabile: se mettere Draghi in sicurezza per sette anni quale Presidente della Repubblica, trovandogli un sostituto di unità nazionale come Presidente del Consiglio e arrivare così a fine legislatura; o se puntare sulla continuità del governo Draghi trovando un'altra soluzione di unità nazionale per la presidenza della Repubblica, lavorando nel frattempo su una riforma elettorale che possa favorire un ripescaggio di Draghi in qualche forma dopo il 2023.

Nell'immediato, da qui al febbraio 2022, il governo continuerà la propria navigazione. Le mosse di Salvini sul catasto servono solo a coprire la sua sconfitta elettorale e a mostrare il proprio peso politico e istituzionale nella stessa Lega, dove la differenziazione con la linea organicamente draghiana di Giorgetti, estraneo alle posture populiste, permane con tutto il suo peso ma è destinata al momento a restare congelata.


IL VOTO AVARO DELLE SINISTRE

Il quadro politico della competizione borghese è al riparo dalla sinistra politica. Il voto del 3 e 4 ottobre conferma la marginalità complessiva della sinistra politica italiana. Chi si aspettava uno scenario diverso in ragione di questo o quell'altro accrocchio unitario è rimasto inevitabilmente deluso. Chi si aspettava di incassare elettoralmente la superesposizione mediatica non ha conosciuto sorte migliore.

Il PC di Marco Rizzo , che annunciava urbi et orbi che avrebbe preso più voti di tutto il resto della sinistra messo assieme è rimasto al palo. Lo 0,3% a Roma e Milano è indicativo. Il PCI viaggia tra 0,3% e lo 0,5% grazie alla rendita di posizione del vecchio simbolo. Rifondazione Comunista, che a Roma doveva sfondare con Berdini grazie alla sommatoria civica di tante sigle, rimedia lo 0,4%, mentre a Torino e Bologna manca largamente l'approdo in Consiglio comunale. Potere al Popolo ha un risultato relativamente migliore, prevalendo a Roma rispetto alle organizzazioni concorrenti con lo 0,6%, e incassando il notevole 2,4% a Bologna, frutto di una presenza elettorale continuativa tra elezioni nazionali, regionali, comunali, oltre che del sostegno di USB. Ma non prende eletti neppure a Napoli, che pure è la sua roccaforte. Il nostro partito riscuote un voto modestissimo, tra lo 0,4% a Bologna e lo 0,1 e 0,05% nelle altre città (Roma, Milano, Torino), sostanzialmente il voto riportato da Per una Sinistra Rivoluzionaria alle elezioni politiche del 2018, ritoccato al rialzo a Bologna, al ribasso altrove.

Come sempre, ma forse più che in altre occasioni, l'esito del voto fornisce un'occasione di sfogatoio ai tanti compagni e compagne che inveiscono contro tutto e tutti: le troppe divisioni, i partitini dello zero virgola ecc. ecc. Abbiamo addirittura, oggi, Il Manifesto che spende un editoriale per chiedere ai partiti a sinistra di Sinistra Italiana di chiedere scusa ai propri elettori, definendoli “un piccolo mondo antico” di testimonianza. Evidentemente la testimonianza inizia dove finisce il centrosinistra. Non c'è male per un quotidiano... “comunista”, come ancora recita abusivamente la sua testata. Cosa non si fa per cercare di vendere qualche copia in più lisciando il pelo agli umori dei lettori.

Noi invece questo pelo non lo vogliamo lisciare. Non dobbiamo vendere merce ma presentare le nostre idee. Cercando di diradare la nebbia dei luoghi comuni e la grande confusione che ne deriva. Sì, c'è una enorme crisi della sinistra politica in Italia. Le elezioni sono solo il suo specchio. Prendersela con lo specchio serve a poco. Serve indagare la crisi della sinistra nella sua realtà, nelle sue radici e ragioni. È l'unico modo per cercare di venirne a capo.


LA CRISI DELLA SINISTRA. LE SUE RADICI, LE SUE RAGIONI

Il voto della sinistra politica non è e non può essere indipendente dalle dinamiche della lotta di classe. Così è stato sempre, in Italia e in Europa.

Negli ultimi dieci anni i fenomeni di polarizzazione a sinistra in Europa sono stati il sottoprodotto di ascese sociali. Così è stato per lo sviluppo di Syriza in Grecia, sull'onda delle grandi mobilitazioni di massa contro l'austerità; così è stata per lo stesso Podemos in Spagna, al di là del suo carattere ibrido, a ridosso delle grandi manifestazioni di piazza della giovane generazioni degli indignados. Naturalmente le esperienze di governo di entrambe – l'una già tristemente consumata, l'altra in corso – hanno disperso la domanda sociale che avevano polarizzato seppellendola sotto il macigno dell'austerità della Troika (Syriza) o di politiche padronali (Podemos col governo Sanchez che bastona i migranti, tratta l'aumento dell'età pensionabile, nega l'autodeterminazione della Catalogna). A riprova che anche i successi elettorali, persino i più travolgenti, sono effimeri se combinati con le compromissioni ministeriali. In ogni caso, i successi elettorali sono stati figli delle piazze e delle lotte, non viceversa.

In Italia lo scenario degli ultimi quindici anni è stato peggiore. Il Partito della Rifondazione Comunista, che raccoglieva la mitologica “unità della sinistra”, si suicidò tra le braccia di Prodi nel 2006, al piede di partenza della grande crisi capitalistica mondiale, votando missioni militari, detassazione dei profitti, precarietà del lavoro, tagli sociali, al modico prezzo di un ministero, di qualche sottosegretariato, della presidenza della Camera dei deputati. Da qui l'inevitabile big bang che ha travolto quel partito, accompagnandone il crollo. Quel crollo a sua volta ha liberato lo spazio di quel ciclo populista reazionario, non ancora esaurito, che è passato attraverso il grillismo, il salvinismo, il melonismo. Un populismo nutrito dalla crisi sociale, che ha coinvolto e coinvolge l'immaginario di massa di tanta parte del lavoro salariato, dirottandolo contro falsi bersagli a tutto vantaggio dei padroni.

La crisi della sinistra politica ha qui la sua radice. Non nella frantumazione, come vuole il senso comune di tanti orfani della vecchia Rifondazione. Quello è l'effetto del crollo del PRC, non la sua causa. La crisi della sinistra è quella della sua irriconoscibilità sociale, a seguito della sua esperienza traumatica e fallimentare. Milioni di lavoratori e lavoratrici che avevano votato a sinistra nel nome di una speranza l'hanno abbandonata perché l'hanno vista tradita. Un abbandono che non ha riguardato soltanto le formazioni responsabili di quelle politiche ma si è estesa anche a chi, come noi, le ha contrastate. Quando si abbassa la marea si arenano tutte le barche, al di là della rotta di navigazione. Pensare di risolvere questa crisi di riconoscibilità con accrocchi elettorali significa continuare a farsi del male con un accanimento terapeutico crudele. Gli accrocchi elettorali possono confortare (a volte e in parte) le illusioni dei militanti, ma non rispondono ai lavoratori elettori. Da qui, ogni volta, la delusione degli esperimenti, con relative frustrazioni, straccio delle vesti, imprecazioni e abbandoni. Non è questa la strada.

A maggior ragione non lo è quando nel nome della più ampia unità nelle urne si scolora sempre più la stessa identità della sinistra classista (non diciamo comunista) in direzione di liste civiche, genericamente democratiche, di cittadini progressisti, sotto le quali nascondere partiti e simboli nella speranza di renderle più attrattive. Arcobaleno, Rivoluzione Civile, Altra Europa con Tsipras, Potere al Popolo, La Sinistra... sul piano nazionale; una infinità di liste civiche sotto le denominazioni più fantasiose su scala locale. Le une e le altre presentate ogni volta come la soluzione finalmente scoperta per uscire dalla marginalità, e ogni volta finite nello sconforto. Ora pare sia la volta dell'appello a De Magistris da parte del PRC per le prossime elezioni politiche, una sorta di Ingroia 2.0, vestendolo dei panni di un possibile salvatore. Altro giro, altro regalo. Auguri.


UNA RISPOSTA VERA ALLA CRISI DELLA SINISTRA, FUORI DA ILLUSIONI E IMPRECAZIONI

Dalla crisi della sinistra si può cercare di uscire solo da un'altra porta. O meglio, da due altre porte.

La prima è il terreno della ricomposizione di un fronte sociale di classe sul terreno della lotta. L'unità da ricercare sta innanzitutto qui. È singolare che i tanti predicatori dell'unità nelle urne non avanzino proposte e iniziative sul piano dell'unità di lotta della classe operaia. E non poche volte avallino scelte e posizioni, politiche o sindacali, che vanno in direzioni opposte.

Noi come PCL ci siamo mossi in questi anni in direzione della più ampia unità di lotta dell'avanguardia di classe, dal Coordinamento delle sinistre di opposizione al Patto d'azione anticapitalista, portandovi sempre il contributo delle nostre proposte, ma mai ponendole come condizione dell'unità d'azione. Al tempo stesso, in ogni raggruppamento unitario dell'avanguardia abbiamo posto la necessità della più ampia proiezione di massa contro ogni visione che confonda la massa col proprio ombelico.
Il problema che tutte le avanguardie hanno, se sono tali, non è quello di recintare il proprio perimetro ristretto, ma è quello di rianimare la resistenza della massa, infonderle fiducia nelle proprie forze, ricomporre l'unità delle sue file contro un avversario di classe determinato e agguerrito come mai in passato. GKN, Whirlpool, Alitalia... in ogni lotta particolare poniamo l'esigenza dell'unità generale delle lotte, e dunque di un piano d'azione che possa generalizzare le esperienze più avanzate, rafforzare la linea di resistenza, portarla sullo stesso terreno di radicalità oggi imposta dalla radicalità di padronato e governo. L'appello nazionale contro i licenziamenti, per l'occupazione delle aziende che licenziano, una cassa nazionale di resistenza, la rivendicazione unificante della loro nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio va in questa direzione. Con la stessa logica unitaria e radicale interveniamo in ogni movimento, a partire oggi dalle mobilitazioni giovanili sul terreno cruciale dell'ambientalismo.

La seconda direzione riguarda la prospettiva politica. Senza una prospettiva politica, e dunque una direzione che la incarni, anche il più grande dei movimenti va a sbattere prima o poi contro il muro. Oppure viene usato da altri per altri scopi rispetto alle sue ragioni.
Oggi non c'è in campo una prospettiva politica riformista. Il crollo dell'URSS, la grande crisi capitalistica internazionale, le nuove contraddizioni tra gli imperialismi vecchi e nuovi per la spartizione del mondo, hanno chiuso da tempo quello spazio. Senza elaborare questo lutto si è destinati ogni volta a rinverdire vecchie e nuove illusioni senza futuro, prima nei Prodi, poi negli Tsipras, poi nei Sanchez, persino in Biden. Salvo uscirne ogni volta con le ossa rotte, come sinistra e soprattutto come classe lavoratrice, a tutto beneficio dei padroni e spesso delle destre più reazionarie.

Per questo poniamo al centro di tutta la nostra politica la prospettiva anticapitalista di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici. Non perché ci piace una formula più radicale, ma perché davvero non esiste altra prospettiva storicamente progressiva al di fuori di questa. Perché tutte le rivendicazioni più elementari, sul terreno del lavoro, del contrasto all'inquinamento, della lotta contro la pandemia, rimandano alla messa in discussione di questo sistema fin dalle sue fondamenta. Appunto una prospettiva di rivoluzione. L'alternativa non sono le riforme, ma la reazione.


LA RAGIONE ORGOGLIOSA DELLA NOSTRA PRESENZA ELETTORALE

Quando il PCL si presenta alle elezioni con questo programma. Anzi, proprio in ragione di questo programma ci presentiamo alle elezioni. Da inguaribili leninisti non ci interessa avere un buon programma da tenere in tasca. Ci interessa un programma d'azione da portare alle masse, nei luoghi di lavoro, nei sindacati, in ogni movimento e lotta degli sfruttati.

La coscienza di massa è lontana dalla comprensione della necessità di questo programma? Lo sappiamo bene, lo constatiamo ogni giorno. Lo vediamo nelle urne. Ma è una ragione in più per cercare di elevare questa coscienza, non per nascondere questo programma.

Questo programma riscuote oggi pochi voti? Verissimo. Ma questo non dipende dal fatto che il PCL si presenta alle elezioni, dipende dall'arretramento della coscienza generale – di cui certo non portiamo responsabilità, anche se ne subiamo gli effetti – e naturalmente dall'esiguità ad oggi delle nostre forze. Di certo non è rinunciando a presentare un programma che potremmo accrescerle. In ogni caso non è rinunciando a presentare un programma rivoluzionario che potremmo accrescere la coscienza dei lavoratori.

Oggi siamo la sola organizzazione, tra quelle interessate a presentarsi al voto, ad avere come programma la rivoluzione sociale, cioè il governo dei lavoratori. Per questo ci presentiamo da soli. Per nessun'altra ragione che questa. È possibile, sicuramente auspicabile, che in futuro altre tendenze e organizzazioni possano far proprio questo programma, magari passando e provenendo da altri percorsi. In quel caso un blocco elettorale attorno al comune programma sarebbe un fatto altamente positivo, ed anzi sarebbe la premessa di un comune partito marxista rivoluzionario, che resta la questione strategica decisiva. Senza la quale, fuori dalla quale, si è destinati ogni volta a ricominciare da capo.

Allora non vi interessa che vi sia una frammentazione di sigle e dunque una gran confusione a sinistra? Certo che ci interessa, anche perché ci danneggia. Danneggia la visibilità e riconoscibilità dell'unico programma comunista sommergendolo sotto una valanga di nomi e di sigle apparentemente similari, ma raccolte attorno a programmi riformisti, dunque utopici.
Forse sarebbe utile, non solo possibile, che le diverse organizzazioni (diversamente) riformiste si unissero elettoralmente per ridurre la confusione. Tanto più che non vi sono principi che le dividono. Di certo non si può chiedere di levare il disturbo a chi si batte per un governo dei lavoratori e intende presentare questo programma alla massa più larga, per farlo conoscere, per rafforzare anche per questa via la costruzione di un partito rivoluzionario.

Partito Comunista dei Lavoratori

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