Interventi

Classe, partito e consigli (seconda parte)

Una riflessione su processo rivoluzionario e prospettiva comunista

2 Settembre 2021
bolsceiv


Pubblichiamo la seconda (di tre) parti di un corposo testo del compagno Luca Scacchi, di cui trovate nella prima parte la versione in pdf per l'eventuale stampa. La terza parte si trova qui. Buona lettura!


Nella prospettiva di Kautsky e di Lenin il progetto politico del partito agisce anche nella lotta quotidiana della classe, contro le tendenze riformiste che si sviluppano al suo interno. Entrambi, infatti, sono consapevoli che le tendenze che stanno contrastando non trovano radici solo nella deriva soggettivista di alcuni, e neanche nella semplice proiezione degli interessi degli apparati politici e sindacali che si sono sviluppati nel quadro della società capitalista, ma in qualche modo si fondano anche sulla stessa stratificazione della classe. Il ruolo del partito, cioè, non è solo quello di connettere la resistenza parziale con la prospettiva rivoluzionaria [come preciserà Trotsky con lo sviluppo del metodo e del programma transitorio], ma anche di sostenere la ricomposizione delle diverse frazioni di classe, contrastando le inevitabili tendenze riformiste che si radicano nel suo seno. Queste tendenze si sviluppano soprattutto in alcune fasi del ciclo, in relazione ad un miglioramento di salari compatibili con l’ascesa dei profitti [grazie all’aumento della produttività e quindi dello sfruttamento relativo] e nelle metropoli capitaliste, in relazione allo scambio ineguale e quindi alla possibilità di aver migliori condizioni di vita grazie alla subordinazione di altri territori. Però questi processi si possono rintracciare anche in dinamiche più generali, per la stessa compartecipazione della classe lavoratrice alla produzione: il lavoro in fondo è parte del capitale [è infatti capitale vivo] e nei rapporti di produzione lavoratrici e lavoratori trovano quindi non solo occasione di sviluppare l’antagonismo contro le direzione aziendali e il padronato, ma sono soggetti anche ad una spinta ad identificarsi con i processi produttivi di cui fanno parte (in particolare quando determinate composizioni tecniche o sociali tendono a sviluppare identità professionali o aziendali).



In fondo è questo il concetto di aristocrazia operaia, a cui Lenin si riferì come radice del revisionismo nel movimento operaio (quando con lo scoppio della prima guerra mondiale arrivò ad una rottura con la seconda internazionale). Lenin lo riprese da un’introduzione di Engels del 1885 a La situazione della classe operaia in Inghilterra, ma era un concetto ricorrente nel dibattito inglese di fine ottocento. La supremazia industriale della Gran Bretagna, infatti, aveva determinato molteplici stratificazioni nella classe lavoratrice, in base a mansioni e settori industriali, come al genere e le nazionalità. Ad esempio, i lavori qualificati, operai e artigiani erano prettamente maschili mentre le donne si concentravano nel tessile e nelle ceramiche, con salari molto inferiori. Su queste dinamiche di classe, inoltre, pesava la riserva di manodopera dell’Irlanda (la vicina isola che il capitale inglese aveva destinato alla produzione agricola e in particolare a grandi monoculture di patate): in particolare la Grande carestia degli anni 40 dell’ottocento spinse in Inghilterra un’ondata di migranti, socialmente stigmatizzati e disposti a lavorare a salari inferiori. Non a caso lo stesso Marx [lettera a Meyer e Vogt, 1870] arrivò a sottolineare come la rivoluzione in Inghilterra poteva esser accelerata dell’indipendenza irlandese: cioè, la liberazione di quel paese, eliminando o riducendo la stratificazione etnica del proletariato in Inghilterra, avrebbe potuto portare a radicalizzare lo scontro di classe nella metropoli imperialista. I settori più qualificati, maschi e inglesi furono quelli che più si organizzarono nelle Trade Unions, che iniziarono a perseguire anche politiche di alleanza con il padronato [vedi le cosiddette Birmingham Alliances] e comunque furono la base di massa che sospinse le politiche di riformiste dei coniugi Webb. Engels era convinto che questa particolare stratificazione era stata resa possibile dal monopolio mondiale della Gran Bretagna e sarebbe stata quindi riassorbita nel tempo. Lenin si rese però conto che lo sviluppo imperialista strutturava e generalizzava le gerarchie del mercato mondiale (grazie ai sovrapprofitti di monopoli e multinazionali), impedendo così quel riassorbimento previsto da Engels. Come nota Hobswbam [1992], inoltre, anche se questi fenomeni interessano una minoranza possono comunque interessare una parte importante del movimento operaio organizzato.



Nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti e l’Europa conobbero un lungo ciclo ascendente, i cosiddetti trenta gloriosi, a lungo negato sia dallo stalinismo sia dai suoi critici di sinistra (anche comunisti rivoluzionari), che non ritenevano possibile un’onda espansiva dopo l’esplosione della crisi nella fase suprema del capitalismo. Proprio partendo dalle considerazioni sull’aristocrazia operaia e dal costante miglioramento dei salari in alcuni settori delle metropoli imperialiste, si svilupparono diverse teorie sulla definitiva integrazione piccolo borghese della classe operaia centrale occidentale. Il testo che è inevitabile citare a questo proposito è L’uomo ad una dimensione di Herbert Marcuse, che sottolineava come la società industriale avanzata avesse oramai inquadrato i lavoratori e le lavoratrici attraverso il benessere diffuso, i falsi bisogni e una cultura individualistica rilanciata da mass media e pubblicità. Per questo è importante sottolineare come le articolazioni del lavoro, pur fornendo la ragione fondante e una base di massa alle tendenze riformiste o conciliazioniste nel movimento operaio, non strutturano realmente delle aristocrazie (cioè dei ceti stabili e relativamente autonomi dallo scontro di classe). Da una parte, infatti, questi lavoratori (più che lavoratrici) essendo inseriti in processi di valorizzazione del capitale subiscono comunque anche loro uno sfruttamento, con i relativi conflitti con il padronato (non solo su salari, orari e ritmi di produzione, ma anche sui loro stessi corpi: pensiamo ad esempio ai chimici, per molti versi un idealtipo del concetto di aristocrazia operaia, che hanno vissuto in prima persona la consapevole disattenzione del capitale per salute e sicurezza). Dall’altro le loro particolari condizioni contrattuali sono comunque transitorie, nel quadro dei continui rivolgimenti del capitale, con le sue espansioni e le sue distruzioni creatici: le conquiste salariali, sociali e nelle condizioni di lavoro, cioè, sono spesso messe in discussione nei momenti di passaggio del ciclo, nelle ridefinizioni ineguali e combinate del mercato mondiale, nelle stagioni di Grande Crisi. Proprio la forte organizzazione e coscienza di questi settori, allora, può in queste occasioni innescare lotte molto radicali, se non veri e propri processi rivoluzionari (pensiamo alle Officine Putilov nel 1917, agli stabilimenti Ford negli anni trenta in USA, al lungo ’69 italiano).



CLASSE E PARTITO.



Organizzazione di classe e tendenze soggettivistiche del partito. Le prassi e le teorie degli ultimi due secoli ci dicono che la capacità della classe di difendere i propri interessi collettivi, organizzarsi e sviluppare un’identità sociale è una componente determinante di un’opposizione sociale anticapitalista. A partire dall’esperienza sovietica, però, ci dicono anche che questa capacità è uno strumento indispensabile per contrastare la tendenza soggettivistica delle avanguardie organizzate a sostituirsi alla classe. Questa tendenza vive sia prima che dopo la presa del potere, sebbene con dinamiche ed effetti ben diversi. In un caso, nella lotta anticapitalista, porta a sviluppare derive avanguardiste con interventi ben oltre una spanna sopra la coscienza di massa, nella convinzione e nell’illusione di trascinare così le masse nel processo rivoluzionario (alle spalle e in qualche modo sulle spalle del partito). Una dinamica politica che spesso si accompagna a feticismi organizzativi, leaderismi e centralizzazioni disciplinari. Una deriva che porta l’avanguardia organizzata ad isolarsi dai movimenti di massa, talvolta dividendosi lungo linee di faglia inessenziali e personalistiche, rendendola incapace di sospingere i processi rivoluzionari quando se ne presenta l’occasione. Nell’altro caso, alla guida dello Stato rivoluzionario, questa tendenza porta a sviluppare degenerazioni burocratiche e autoritarie, sospinte dalle insufficienze delle forze produttive e dalle difficoltà del processo rivoluzionario (con i conseguenti isolamenti). Una dinamica alimentata da una dittatura di partito in cui la casta governante usa gli organi della coercizione anche contro il lavoro, per limitare la sua coscienza e disorganizzare le sue strutture. La differenza tra queste due derive soggettiviste (prima e dopo la presa del potere) è cioè rilevante: in una caso il partito manca nella sua capacità di collegarsi alla lotta di classe, nell’altro diventa un fattore controrivoluzionario di repressione della classe. In un caso come nell’altro, però, si impone nel partito e del partito una concezione bonapartista, che si pone al di sopra della classe nell’illusione di determinarne teleologicamente [in funzione dei fini ultimi] lo sviluppo. Rivendicando l’autonomia politica, cioè, ci si sgancia dalla rappresentanza della classe. Queste tendenze hanno segnato la storia del movimento comunista con le tragiche degenerazioni staliniane, ma purtroppo hanno agito anche nei frequenti settarismi e nelle involuzioni dei partiti comunisti rivoluzionari prima della presa del potere (come si vede ad esempio con le derive dei partiti e delle internazionali frazioni nell’esperienza storica trotzkista).



Se il partito è quindi strumento indispensabile del processo rivoluzionario, è fondamentale bilanciare il suo ruolo attraverso l’autorganizzazione e la democrazia di classe. Questa relazione dialettica e contradditoria, infatti, non è mai definita e non è mai stabile (come mostra l’evidente e ripetuto sviluppo di tendenze riformiste e avanguardiste). Si riproduce continuamente nella storia, attraverso il contrasto tra diverse linee e impostazioni, nel movimento operaio ed in quello comunista. L’importanza del contrasto e dell’equilibrio di queste diverse tendenze ha anche risvolti non indifferenti nella stessa concezione e organizzazione del partito (come abbiamo sottolineato in diversi contributi nel dibattito del PCL, a partire da Il PCL delle origini. Centralismo e democrazia nel percorso di costruzione del partito: un patrimonio da conservare e rilanciare, documento alternativo a quello della segreteria su tendenze e frazioni al CC dell’ottobre 2020].



Questa dialettica tra classe e partito, per certi versi, è presente sin dalle origini del movimento comunista. Il problema dell’indipendenza politica, il ruolo del partito e l’autorganizzazione del proletariato, almeno in nuce, sono infatti già presenti in alcuni scritti di Marx ed Engels. Hanno segnato la loro riflessione, in particolare, dopo l’esperienza del 1848/49 in Germania, l’alleanza con la borghesia ed il bilancio fallimentare di quella linea. L’Indirizzo al CC della Lega dei comunisti del 1850 pone infatti in modo chiaro la necessità di sviluppare un’organizzazione indipendente dei lavoratori, centralizzata ed autonoma dalla borghesia, in grado di difendere gli interessi e la prospettiva politica del proletariato. Proprio in quel testo, vent’anni prima della Comune di Parigi, Marx ed Engels pongono anche il tema del dualismo di potere attraverso la dimensione di massa dei consigli: a fianco del nuovo governo ufficiale borghese essi dovranno erigere i loro propri governi rivoluzionari, sia in forma di consigli e esecutivi municipali, sia in formati di clubs e comitati di lavoratori, così che non solo i governi democratici perderanno il sostegno dei lavoratori, ma anche che propria dall’inizio saranno loro stessi guardati e minacciati da istituzioni dietro alle quali sarà l’intera massa dei lavoratori. Marx ed Engels scrivono ovviamente inconsapevoli degli sviluppi successivi: il dispiegarsi di tendenze riformiste nel movimento operaio, le derive avanguardiste, le degenerazioni staliniste. Colpisce però anche per questo il parallelo che emerge, nel loro ragionamento, tra l’indipendenza del partito di classe e il ruolo dei consigli in termini di massa e di contropotere (governo della classe, non strutture di difesa sindacale o di semplice azione rivoluzionaria).



In realtà, però, questo rapporto tra classe e partito è emerso con evidenza nel percorso delle due rivoluzioni russe (1905 e 1917), integrando e in realtà modificando l’originaria impostazione bolscevica, proprio con lo sviluppo di strutture autorganizzate di governo (di contropotere) da parte della classe lavoratrice: i consigli. Un’impostazione che ha poi confermato il suo valore (a negativo) con l’emersione della progressiva deriva burocratica, prima nel termidoro e poi nella degenerazione stalinista. Può allora forse esser utile riepilogare dinamiche e avvenimenti dell’emergere dei consigli e del loro rapporto con il partito tra 1905 e 1917.



CONSIGLI E PROCESSO RIVOLUZIONARIO



Il rapporto tra classe e partito è quindi contradditorio e dialettico: non nasce sul piano teorico, ma emerge nella prassi del processo rivoluzionario. Nonostante il fugace accenno nell’Indirizzo del 1850, infatti, sino al 1905 l’esperienza dei Consigli non era sostanzialmente emersa né da punto di vista pratico né da quello teorico. La Comune di Parigi del 1871 si era infatti sviluppata prima intorno ai comitati della Guardia nazionale (ed al suo Comitato centrale), poi intorno all’elezione a suffragio universale di un suo consiglio. Lo sviluppo del partito socialdemocratico tedesco (SPD), la principale organizzazione del movimento operaio, era avvenuto attraverso le elezioni, le campagne politiche e lo sviluppo di sindacati, giornali ed organizzazioni collaterali. L’esperienza dei Consigli in Russia, per certi versi, nacque proprio dall’assenza di queste strutture.



La nascita dei Consigli. Da dove nascono allora i soviet? Dalla lotta di classe nei rapporti di produzione. Nei primi scioperi in Russia negli ottanta e novanta del 1800, infatti, furono spesso le stesse direzioni aziendali, di fronte a proteste spontanee e disorganizzate, che sollecitarono lavoratori e lavoratrici ad indicare dei propri rappresentanti per poter avviare le negoziazioni e quindi riprendere la produzione: una dinamica sindacale primordiale che, ad esempio, è oggi diffusa nel movimento operaio cinese. Si è così sviluppato in quel periodo un tessuto informale di delegati/e, fluido e occasionale, che però ha consolidato prassi ed abitudini nelle fabbriche russe. Questi Consigli, essendo strutture spontanee e temporanee, hanno assunto a seconda dei tempi e delle situazioni forme e nomi differenti (come sottolinea Anweiler, 1974): comitati di sciopero [stacecnyj komitet], commissioni operaie [komissija rabocich], rappresentanti autorizzati [upolnomocennye], consigli dei rappresentanti autorizzati [soviet upolnomocennych], assemblea dei delegati o dei deputati [delegatskoe, deputatskoe sobranie], commissioni elette [komissija vybornych], consigli dei delegati/e [soviet starost, letteralmente consiglio degli anziani, nel senso di esponenti rappresentativi]. A favorire questa dinamica è anche la grande familiarità che gli operai russi mantenevano con le prassi e le abitudini delle assemblee di villaggio [il Mir delle obščine], essendo spesso di recentissima immigrazione, potremmo dire per certi versi metalmezzadri (avendo residenze, legami e la tendenza a tornare nei propri villaggi nei periodi di difficoltà: anche qui, è evidente la somiglianza con la composizione di classe degli attuali mingong cinesi).



I movimenti sono improvvisi, ma non sono spontanei. Come abbiamo più volte sottolineato nel dibattito del PCL, le grandi mobilitazioni che coinvolgono la masse non sono imprevedibili, perché si sviluppano a partire da conflitti, soggettività, relazioni, reti, identità e immaginari che si condensano nel tempo. L’esplosione della rivoluzione del 1905 non nasce solo dalle evidenti tensioni sociali che si stavano accumulando nel paese e dalla sconfitta nella guerra russo giapponese [come aveva infatti previsto Parvus tra l’estate e l’autunno del 1904], ma si innesta su un tessuto operaio che aveva già sviluppato scioperi importanti. Non a caso Zubatov (un dirigente delle polizia zarista) diede impulso in quegli anni alla nascita di associazioni operaie reazionarie, attraverso cui sperava di dar sfogo alla pressione delle lotte sociali e al contempo di controllarle (evitando qualunque loro trascrescenza politica, in qualche modo in parallelo con le tendenze economiciste presenti nel movimento). Queste associazioni, però, aiutarono proprio a consolidare, generalizzare e strutturare quel tessuto di delegati/e, soggettività, relazioni e immaginari su cui si sviluppò poi il movimento operaio di massa. Ne fu un esempio l’Assemblea degli operai russi di fabbrica e d'officina, guidata dal famoso pope Gapon, che diede il via alla rivoluzione il 9 gennaio 1905 con una manifestazione di protesta per il licenziamento di 4 operai delle Putilov [la domenica di sangue]. Questa associazione aveva infatti a San Pietroburgo 7/8000 iscritti [di cui almeno 700 alle Putilov] e nello sciopero iniziato il 3 gennaio non a caso fu subito eletta una delegazione di 37 delegati/e. Questa dinamica non rimase contenuta a San Pietroburgo: a Mosca e a Kharkov, ad esempio, nella successiva primavera (segnata da scioperi che avevano costretto lo Zar a dismettere ogni repressione) si svilupparono comitati e consigli con un profilo sindacale (in particolare tra tipografi, tessili, metallurgici): il più significativo fu quello dei tipografi di Mosca, che includeva 264 delegati di 110 imprese, con un esecutivo di 15 componenti. Con lo sviluppo del movimento di massa, infatti, crebbe il bisogno di coordinamento delle iniziative: in quei mesi non c’era però una chiara distinzione tra coordinamenti, comitati di sciopero, rappresentanze di settore, consigli di delegati/e.



Il primo soviet si sviluppò a metà maggio ad Ivanovo-Voznesensk, nei dintorni di Mosca, allora forse il più importante distretto tessile della Russia. Nacque sulla base di una mobilitazione economica (abolizione del lavoro notturno e degli straordinari, salario minimo mensile), con uno sciopero che coinvolse in pochi giorni oltre 40mila operai/e. Davanti a questa lotta, a consigliare l’elezione di un consiglio fu l’ispettore governativo [!], per poter avviare delle trattative. Il 15 maggio fu eletto un consiglio di rappresentanti di fabbrica [Ivanovo-Voznesenskii soviet upoInomocennych], composto da un centinaio di delegati/e, per la maggior parte tessili, ma anche incisori e meccanici. Il Consiglio aveva come obbiettivo quello di condurre lo sciopero e condurre negoziati, ma anche assicurare l’ordine nelle piazze. L’approfondirsi dello scontro fece da una parte evolvere la piattaforma (suffragio universale, pensioni, diritti del lavoro), dall’altra ne sviluppò i compiti, anche per contenere la repressione (dal 3 giugno infatti intervenne l’esercito, con scontri sanguinosi). A fine luglio il movimento fu sconfitto ed il Consiglio sciolto. L’impressione fu comunque grande in tutta la Russia. Nella vicina Kostroma, proprio a luglio iniziò uno sciopero che coinvolse oltre 10mila lavoratori e fu guidato da un consiglio di 108 delegati/e, i quali a loro volta costituirono un comitato esecutivo di 12 membri. Questo comitato aprì una diretta collaborazione con il partito socialdemocratico [di cui alcuni rappresentanti furono fatti sedere nel Consiglio] e pubblicò un proprio bollettino [le Izvestija]: un modello che poi si impose in moltissime realtà.



Il regime zarista fu messo all’angolo con l’estatedall’andamento disastroso della guerra e dalle mobilitazioni. Il 6 agosto lo Zar fu costretto ad istituire una Duma, il 23 firmò la pace col Giappone. L’autunno non portò però ad una stabilizzazione, ma ad una seconda ondata di scioperi. Ad iniziare furono tipografi e stampatori di Mosca, a cui seguirono quelli di San Pietroburgo e quindi le ferrovie (in tutte le stazioni nacquero Comitati di sciopero). A metà ottobre si estesero alle fabbriche e diventò generale. Uno sciopero politico, che chiedeva l’amnistia, il suffragio universale e l’assemblea costituente. Lo Zar, sotto questa pressione, fu costretto con un nuovo manifesto a garantire diritti civili, un ruolo parlamentare della Duma, elezioni con un suffragio esteso.



In questo contesto, si formò a San Pietroburgo il Consiglio dei Deputati Operai. La proposta fu inizialmente avanzata dall’organizzazione menscevica della città, per coordinare lo sciopero in corso.I delegati/e [gli storosti] furono eletti in ragione di uno ogni 500 lavoratori: questa procedura era già stata utilizzata a febbraio, quando il senatore Shidlovsky guidò una commissione governativa con il compito di investigare lo scontento dei lavoratori, in cui furono inseriti alcuni rappresentanti eletti in città sulla base di nove divisioni [per tipologia di industria]. Come sottolinea Anweiler (1974), il soviet di San Pietroburgo nacque quindi da diversi percorsi: la pratica diffusa di eleggere comitati nelle fabbriche in lotta, le forme di rappresentanza sollecitate dalle stesse controparti (direzioni aziendali e funzionari governativi), la propaganda menscevica sulla necessità di un congresso dei lavoratori, l’esempio del consiglio di tipografi e stampatori di Mosca, l’esperienza di Ivanovo e di Kostroma. Alla prima riunione presero parte solo 40 delegati/e, con una composizione spuria (alcuni erano i rappresentanti della Commissione Shidolvsky, alcuni delegati/e di fabbrica, solo 15 erano stati eletti per questo Consiglio). Le elezioni, in ogni caso, si tenevano generalmente in assemblea per alzata di mano, in condizioni precarie e talvolta confuse, di fatto con un meccanismo nominale e maggioritario.



I Soviet crebbero velocemente. In primo luogo, in termini di dimensioni (alla seconda riunione parteciparono una novantina di delegati/e, alla terza oltre 200 da un centinaio di fabbriche e 5 sindacati). Al Consiglio furono quindi ammesse anche le organizzazioni politiche: nello specifico i menscevichi, i bolscevichi e i socialisti rivoluzionari (cioè, i tre partiti socialisti). La scelta non fu presa senza discussioni: alcuni delegati/e non affiliati sostennero che nel Consiglio non dovevano esserci polemiche di partito e che l’assemblea avrebbe dovuto focalizzarsi solo sulle questioni del lavoro. Alla fine, si decise comunque di ammettere le tre organizzazioni del movimento operaio proprio in funzione del coordinamento e dello sviluppo delle lotte: questo nuovo organismo, infatti, doveva esser percepito da parte delle masse con la necessaria autorevolezza, a partire da un forte riconoscimento del suo ruolo di rappresentanza generale. Per questo fu scelto di dare ai partiti socialisti la stessa rappresentanza nell’Esecutivo [tre per ciascuno], con la possibilità di partecipare e intervenire ma senza potere di voto. Nella terza riunione il nuovo organismo arrivò anche a nominarsi come Consiglio dei deputati operai [Sovetrabocich deputatov], formando un comitato esecutivo di 22 componenti [2 per ognuno dei 7 quartieri della città, 2 per ognuno dei maggiori sindacati, più i 9 non votanti in rappresentanza delle organizzazioni politiche]. Il Comitato esecutivo crebbe poi ancora, arrivando a novembre a 35 componenti e 15 membri non votanti. In secondo luogo, il Soviet si configurò non solo come un semplice comitato di sciopero, ma sempre più come un organismo di rappresentanza politica generale. Come sottolineò Trotsky [1905], emerse in adempimento di un bisogno oggettivo generato dal corso degli eventi: un'organizzazione che vuole rappresentare l'autorità senza esser limitata dalla tradizione; un'organizzazione in grado di ricomporre le masse disperse senza imporre vincoli organizzativi; un'organizzazione che unisse le correnti rivoluzionarie del proletariato, in grado di prendere l'iniziativa e di auto determinarsi; e, soprattutto, un'organizzazione in grado di esser creata nel giro di 24 ore. Consigli operai si formarono in diverse realtà (se ne possono contare più di una cinquantina nel corso dell’anno), sotto la spinta dello sciopero generale, con configurazioni fluide tra comitati di sciopero e organi rivoluzionari della classe lavoratrice. Tra i più rilevanti, quello di Mosca: si costituì a novembre come comitato di sciopero cittadino, con 180 delegati/e in rappresentanza di circa 80mila lavoratori.



La precipitazione dello scontro con lo zarismo. Tra la fine di ottobre e novembre il Soviet di San Pietroburgo indisse uno sciopero per le otto ore. L’iniziativa si risolse in un sostanziale fallimento, per la serrata padronale e oltre 19mila licenziamenti: il 12 novembre, in una drammatica sessione, il Consiglio pose fine alla vertenza lasciando ogni fabbrica libera di decidere se tornare al lavoro [un vero e proprio rompete le righe]. Il Consiglio sviluppò comunque un suo intervento politico, con una manifesto che sostanzialmente riportava le principali rivendicazioni del POSDR (un’assemblea costituente per una repubblica democratica, intesa come condizione per proseguire la lotta per il socialismo). I Consigli del 1905, cioè, si pensarono sostanzialmente come strutture di fronte unico della classe operaia (nel quale trovavano rappresentanza delegati/e di fabbrica, ma anche rappresentanti dei sindacati e delle organizzazioni politiche), non il centro di un potere operaio o di un nuovo potere rivoluzionario. Nel contempo, però, proprio nello scontro con il governo, si configurarono anche come contropotere, per esempio dando indicazioni sulla libertà di stampa a tipografie, uffici postali e ferrovie, oltre che negoziando con la Duma municipale, la milizia e il governo. A fine novembre la repressione chiuse l’esperienza, con l’arresto dei suoi principali esponenti (a partire dai suoi tre diversi presidenti: Chrustalëv-Nosar, Trotsky e Parvus). A Mosca, invece, il Soviet promosse un’insurrezione che si risolse in scontri quartiere per quartiere.



Nei Consigli del 1905, in ogni caso, si confrontarono diverse impostazioni, anche sul ruolo di questi organismi.



I menscevichi. La prima proposta dei Consigli, come abbiamo visto, fu lanciata dall’organizzazione menscevica di San Pietroburgo. La politica menscevica era sostanzialmente quella di una rivoluzione democratica, condotta sostenendo da sinistra l’iniziativa liberale e il loro futuro governo [esemplificativa la loro scelta di partecipare alla campagna dei banchetti nell’autunno 1904, una serie di pranzi politici per l’assemblea costituente convocati dall’Unione di Liberazione, sulla falsariga della Campagne des banquets che portò alla caduta della monarchia francese nel 1848]. Nel quadro dell’arretratezza politica e sociale della Russia, infatti, i menscevichi ritenevano che solo con una democrazia borghese si sarebbe potuta dispiegare la lotta di classe, riproducendo così pedissequamente lo schema dello sviluppo sociale e politico dei principali paesi capitalisti. I menscevichi, cioè, non avevano un’impostazione schiettamente riformista o collaborazionista (alla Bernstein o alla Jures, per intenderci) e ritenevano che il partito dovesse assolutamente tenersi fuori dal governo (per evitare ogni complicità con politiche antioperaie, ma anche ogni eventuale scelta anti-imprenditoriale che avrebbe rischiato di gettare la borghesia nelle braccia della reazione). Il compito dei socialdemocratici, quindi, si doveva limitare ad una coerente opposizione politica e sociale al governo liberale, permettendo così al capitalismo di svilupparsi e quindi alle condizioni rivoluzionarie (oggettive e soggettive) di maturare. I consigli erano sostanzialmente pensati come uno strumento di questa politica: strutture larghe, di fronte unico e informali, in grado di dare una dimensione attiva e di massa a questo sostegno operaio alle politiche democratiche e rivoluzionarie. Da questo punto di vista, l’impostazione menscevica vedeva i Consigli come un primo rassemblement da cui sarebbe potuta sorgere l’organizzazione politica della classe operaia. In fondo, già al congresso del POSDR [1903] la divisione con i bolscevichi era avvenuta sulle fluidità delle forme organizzative del partito: i menscevichi pensavano quindi ai Consigli come primordiale organismo di massa che sarebbe poi stata reso superfluo dallo sviluppo di un partito operaio, sulla falsariga della SPD. Questa proposta venne sostenuta anche per contrastare la parola d’ordine del governo provvisorio operaio e contadino (vedi sotto), dando all’iniziativa operaia una dimensione diversa e parallela rispetto a quella del governo [nella loro intenzione lasciato totalmente all’iniziativa liberale]. Questa politica, in ogni caso, presentava aspetti contradditori, dal momento che proprio l’autorganizzazione di classe che veniva promossa creava strutture autonome che aprivano la strada da una parte ad un’azione indipendente del proletariato, dall’altra ad un potere che si ergeva indipendentemente dal governo [sulla falsariga di quanto vagamente delineato da Marx ed Engels nell’Indirizzo alla Lega dei Comunisti del 1850]. Lo riconobbe Martynov (uno dei principali esponenti menscevichi), che sottolineò come la coesistenza di due organizzazioni del proletariato (il partito ed il soviet) è un fenomeno anormale, provvisorio e temporaneo, che presto o tardi sarebbe dovuto scomparire.



I bolscevichi. La linea di Lenin era appunto quella del governo rivoluzionario provvisorio [una coalizione dei partiti socialisti, senza chiudere ad altre forze radicali], espressione di una dittatura democratica operaia e contadina. Cioè un governo delle classi subalterne, stante la strutturale debolezza delle forze liberali in Russia e lo sviluppo di un proletariato organizzato, ma con un programma democratico sostanzialmente incentrato sulla riforma agraria. Come sottolineò lo stesso Lenin nel 1905: dov’è da cercare la fonte del caos martinoviano? …nell’aver dimenticato quello strato di popolo che sta tra la borghesia e il proletariato (cioè la massa delle popolazioni povere delle città e delle campagne, i mezzi proletari e mezzi imprenditori)… l’adempimento del nostro programma minimo (la proclamazione della repubblica, il popolo armato, la separazione della Chiesa dallo Stato, libertà democratica e decisive riforme economiche) è inconcepibile senza la dittatura democratica delle classi inferiori…Non è chiaro allora che non si tratta qui soltanto di proletariato in contrasto con la borghesia, bensì delle classi inferiori che costituiscono la forza motrice di ogni rivolgimento democratico? Al III congresso del POSDR [aprile/maggio 1905, Londra] l’unico strumento di questa politica era considerato il partito, animatore nella resistenza contro la reazione, agente diretto dell’iniziativa nell’assemblea costituente e nel governo provvisorio. Le strutture di classe non erano considerate, se non i comitati rivoluzionari di fabbrica, quartiere e villaggio: organismi di avanguardia per organizzare gli scioperi, radicare il partito e preparare l’insurrezione (con una proiezione di massa, quindi, ma che non organizzano le masse). Il centro dell’iniziativa era infatti concentrato sull’insurrezione: in una rivoluzione, prima di tutto, è importante vincere e quindi stabilire un governo rivoluzionario provvisorio. L’elezione dei delegati/e del popolo [del popolo, non della classe, nel quadro di una rivoluzione democratica, ndr] non sono il prologo, ma l’epilogo dell’insurrezione. [E ancora] gli organi del nuovo potere popolare...sono i partiti rivoluzionari e le organizzazioni di combattimento degli operai, dei contadini e degli altri elementi del popolo. Questi organi realizzano in concreto l'alleanza tra il proletariato socialista e la piccola borghesia rivoluzionaria. Per questo motivo, pur mantenendo la nostra fisionomia e indipendenza di partito, entreremo nei soviet dei deputati operai e negli altri organismi rivoluzionari. D’altra parte, i Consigli non sono un parlamento operaio o un organo dell’amministrazione autonoma del proletariato, sono un’organizzazione di battaglia per ottenere determinati obbiettivi [Lenin, 23 e 25 novembre 1905]. In questi passaggi emerge chiaramente la linea bolscevica di allora: favorevole a sostenere i consigli come strutture di lotta e di alleanza democratica, ma ostili ogni qual volta i Consigli evolvevano in organismi di autogoverno della classe, delineando un potere operaio. Non a caso proprio in ottobre (nel mese cruciale in cui si forma il soviet di San Pietroburgo) l’organizzazione della città elaborò una risoluzione che chiedeva l’adesione esplicita del Soviet al programma socialdemocratico. Al III congresso, pochi mesi prima, Lenin si era scontrato con gli uomini dei comitati, una tendenza che considerava gli operai incoscienti e ne limitava il ruolo nel partito. È questo ambiente, in particolare, che vive i Consigli come strutture estranee al processo rivoluzionario e persino pericolose (perché autonome dal controllo del partito), ritenendo impossibile una convivenza tra partito e soviet. Mendeleev non a caso pubblicò proprio in quei giorni di ottobre un articolo in cui sottolineava che i Consigli avrebbero dovuto limitarsi all’azione sindacale, subordinarsi al partito e quindi dissolversi: per questo i componenti del partito avrebbero dovuto dimettersi se quella risoluzione non fosse stata approvata. Il CC pubblicò questa risoluzione a fine ottobre, in qualche modo facendola diventare una direttiva generale e sulla base di questa risoluzione si iniziò persino una campagna agitatoria nelle fabbriche (anche se il partito, per fortuna, non agì conseguentemente dappertutto). Questa iniziativa fu comunque fermata a novembre, con l’arrivo di Lenin. Lenin scrisse persino un articolo per Navaja Zizn' che contrastava pubblicamente queste tendenze settarie (I nostri compiti e i Soviet dei deputati operai), anche se la redazione lo bloccò e arrivò alle stampe solo 1940 [a dimostrazione delle resistenze presenti]. Nel testo, in ogni caso, si riconosceva l’errore della richiesta ai Soviet di aderire al programma di un partito, dal momento che i Consigli vi erano interpretati come organi dell’alleanza tra socialdemocratici e democratici radicali borghesi, nucleo del futuro governo provvisorio. Una posizione che Lenin mantenne negli anni successivi, continuando ad intenderli come semplici strumenti operativi dell’insurrezione, non come espressione di autorganizzazione e autogoverno della classe.



Trotsky arrivò a San Pietroburgo avendo già consumato una prima rottura con i bolscevichi al secondo congresso del POSDR (1903, vedi I nostri compiti politici, contro l’impostazione centralizzata di Lenin) ed anche una seconda con i menscevichi nell’autunno 1904 (per la loro partecipazione alla campagna dei banchetti). Da qualche tempo si era invece stretta la collaborazione con Parvus, insieme a cui aveva affinato uno sguardo complessivo sul modo di produzione capitalista, come un’attenzione allo sciopero generale ed ai processi di autorganizzazione della classe. Con questo contradditorio percorso, tenne all’inizio una linea simile a quella bolscevica (sciopero politico, insurrezione e governo provvisorio). I Consigli erano quindi per lui soprattutto strumento di unificazione del proletariato, per fondere i vari strati e settori della classe, oltre che i diversi gruppi politici. Trotsky, infatti, confrontandosi negli anni precedenti con la Luxemburg aveva assimilato i problemi e la complessità del processo di attivazione della classe: i Consigli venivano quindi valutati come un necessario strumento di espressione dell’autorganizzazione di massa, finalizzata allo sciopero generale politico. Diversamente dall’impostazione bolscevica, colse quindi subito l’importanza del loro ruolo nella lotta contro il regime, per la loro capacità di unire e guidare le masse. Sulla base dell’esperienza del 1905, Trotsky elaborò poi in Bilanci e prospettive[1906] una vera e propria svolta: la necessità di condurre una rivoluzione permanente, a causa dello sviluppo ineguale e combinato del capitale. In un mercato mondiale integrato, dove lo sviluppo capitalistico era condotto dal capitale internazionale e dallo Stato, la borghesia aveva radici in Russia troppo deboli (ed una paura troppo grande di un proletariato già organizzato) per condurre in porto la rivoluzione democratica. Questi elementi, in fondo, erano già stato sottolineati nel corso del 1904 e del 1905 da diversi esponenti [Parvus, Mehring, Luxemburg e persino Kautsky]: l’innovazione che Trotsky introdusse nel 1906 è che il proletariato doveva farsi carico di procedere senza soluzione di continuità alla realizzazione di un programma socialista [in contrasto con la linea di Lenin]. Come noterà nel 1909, infatti, porre dei limiti democratici al governo operaio non significherebbe nient’altro che un tradimento degli interessi dei disoccupati, degli scioperanti, infine dell’intero proletariato. Per questo il potere rivoluzionario si troverà di fronte a obbiettivi problemi socialisti, ma alla loro risoluzione s’opporranno, in una determinata tappa, le arretrate condizioni economiche del paese. Nel quadro di una rivoluzione nazionale non c’è via d’uscita da questa contraddizione. E quindi per Trotsky, fin dal principio si presenta al governo operaio il compito di unire tutte le proprie forze a quelle del proletariato socialista dell’Europa, per cambiare le condizioni del mercato mondiale ribaltando il sistema di produzione dominante. Un’elaborazione che assegnava all’autorganizzazione di classe, ai Consigli, il ruolo di nuovo centro del potere rivoluzionario: non più un semplice strumento di lotta o di unificazione del proletariato, ma un organo della rappresentanza della classe e quindi della dittatura del proletariato. La sostanza del soviet consistette nello sforzo di diventare un organo di pubblica autorità. […] Il Soviet era in realtà un embrione di governo rivoluzionario. Non un’organizzazione in seno al proletariato, per influenzare le masse, ma un’organizzazione del proletariato, espressione organizzata della volontà del proletariato come classe. L’arma principale del Soviet fu lo sciopero politico di massa. Il soviet però gestì anche una stampa libera, la sicurezza dei cittadini, … un proprio ordine democratico nella vita della popolazione lavoratrice urbana. Costituisce cioè un potere fornito di autorità. Un autogoverno organizzato per la prima volta sul suolo Russo. [Il soviet del 1905 e la Rivoluzione, 1906]. Trotsky in queste riflessioni ne coglie quindi anche il profilo di nuova democrazia, preannuncio di un nuovo ordine sociale. Il soviet era, o perlomeno aspirava a diventare, un organo di potere. Nel 1907, Trotsky sulla Neue Zeit preciserà che senza dubbio il prossimo nuovo assalto della rivoluzione porterà ovunque sulla sua scia l’istituzione dei consigli dei lavoratori.



Nel 1917, infatti, i Consigli saranno posti al centro del percorso rivoluzionario. Questo sarà anche il terreno della ricomposizione tra Lenin e Trotsky, a partire dalle Tesi di aprile: non solo cioè con il cambio di indirizzo del partito bolscevico sulla dittatura democratica, ma anche con una nuova interpretazione dei Consigli (tutto il potere ai soviet!). Una svolta che fu anche il portato di una riflessione sull’imperialismo e sul ruolo dello Stato, avanzata in prima battuta da Bucharin in polemica con lo stesso Lenin. Il rapporto dialettico tra classe e partito, tra processi di autorganizzazione di massa e ruolo del partito, si delinea quindi in una dinamica complessa, con profonde discontinuità teoriche che permetteranno di sviluppare un’impostazione consiliare in grado di contrastare sia le tendenze conciliazioniste sia quelle avanguardiste.


Luca Scacchi

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