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La lezione di Kabul

16 Agosto 2021

Vent'anni di occupazione imperialista hanno spianato la strada ai tagliagole talebani

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Vent'anni fa, dopo l'attentato terrorista alle Torri Gemelle, l'imperialismo USA lanciò la guerra contro l'Afghanistan, coalizzando attorno a sé un'ampia schiera di potenze alleate. L'imperialismo italiano fu subito della partita, come già nella prima guerra del Golfo e poi con l'intervento militare in Serbia.
Il governo reazionario dei talebani a Kabul fu accusato di complicità coi terroristi. Per questo l'imperialismo si arrogò il diritto di punirlo. L'aggressione all'Afghanistan fu motivata come battaglia di civiltà contro la barbarie. Il mezzo usato dalla “civiltà” fu il bombardamento a tappeto dei villaggi afghani, e l'inizio di un'occupazione militare che è durata vent'anni.

Il regime talebano fu rovesciato, e al suo posto venne instaurato prima il governo fantoccio di Hamid Karzai, poi dal 2009 il governo fantoccio di Ghani. Entrambi si sono appoggiati sulle forze di occupazione, e sui finanziamenti occidentali. Gli USA hanno speso per la missione afghana duemila miliardi di dollari, la Gran Bretagna 25 miliardi, l'Italia 8 miliardi. Tutti a carico dei contribuenti, prevalentemente dei salariati. A chi sollevava obiezioni veniva contrapposta la ragione morale superiore: “La battaglia per la democrazia e per l'umanità non ha prezzo”. Se non per chi muore sotto le bombe e chi le paga.

Ora, dopo vent'anni di “civiltà”, torna al potere la reazione talebana, col consenso di quei civilizzatori che l'avevano additata come ragione di guerra.
Il ritorno della reazione talebana a Kabul è stata pattuita tra imperialismo USA e capi talebani a Doha nel febbraio 2020. Biden ha gestito convintamente la scelta di Trump. L'imperialismo USA ha deciso che i costi della missione afghana erano troppo grandi rispetto ai vantaggi, sia dal punto di vista economico che sotto quello del consenso interno. Disfarsi della missione afghana è stata la promessa comune della campagna elettorale americana, una promessa che non si poteva tradire. Ma la... civiltà dove è finita? Prosegue indefessa in tante altre parti del mondo, ovunque esistono truppe di occupazione. In Afghanistan si è presa una vacanza.

I tagliagole di vent'anni fa tornano trionfanti a Kabul, per di più col passo di corsa e con tutti gli onori. La stessa stampa borghese che vent'anni fa aveva suonato la carica della “guerra giusta” non sa come presentare la fuga da Kabul di tutte le democrazie umanitarie. Sono forse cambiati i talebani? Non pare. Si è forse consolidata una democrazia in Afghanistan, fosse pure su basi borghesi, capace di reggere l'urto della reazione religiosa? L'evidenza ci dice l'opposto. E allora perché la fuga umiliante da Kabul della più grande potenza militare del mondo, di fronte agli studenti delle madrasse armati di kalashinkov e Corano? La risposta è nella montagna di menzogne delle guerre imperialiste, vomitata da tutti i partiti borghesi (e non solo) a tutte le latitudini del mondo.

La guerra di aggressione all'Afghanistan fu parte dell'escalation militarista dell'imperialismo americano dopo il crollo dell'URSS.
Caduto il contrappeso, per quanto distorto, all'imperialismo, gli USA inaugurarono un lungo corso politico guerrafondaio che unì la prima guerra del Golfo, la guerra alla Serbia, la guerra all'Afghanistan, la guerra all'Iraq. Dietro la cortina fumogena di motivazioni umanitarie e di falsi spudorati (le inesistenti armi nucleari in gestazione di Saddam), il corso guerrafondaio dei Clinton e dei Bush mirava ad affermare l'onnipotenza militare degli USA, consolidare l'egemonia americana sugli imperialismi europei, scoraggiando ogni loro ambizione di polo autonomo e concorrente, conquistare una nuova postazione strategica in Medio Oriente quale ponte sull'Asia, intimidire ogni possibile movimento antimperialista e anticoloniale nel mondo. Infine a ingrassare il portafoglio dell'industria militare, e rilanciare lo sciovinismo USA come strumento di raccolta di consenso in patria presso ampi settori di classe media. Fu insomma il tentativo su larga scala dell'imperialismo USA di liberarsi della sindrome del Vietnam, e di disegnare un nuovo ordine mondiale dettato dalla propria forza.

La disfatta in Iraq nel 2003 fu la tomba di quel disegno. Saddam Hussein fu rovesciato dalla soverchiante superiorità militare della coalizione imperialista internazionale, ma la distruzione dell'apparato statale iracheno, a base sunnita, senza soluzione di ricambio, finì col regalare l'Iraq all'influenza del regime sciita iraniano, grande avversario dello stato sionista e degli USA; mentre l'odio antiamericano in tanta parte delle masse arabe, unito alla crisi del vecchio nazionalismo arabo, diventò il brodo di coltura del panislamismo integralista più reazionario, nuovo fattore di destabilizzazione e di crisi del Medio Oriente. Era difficile immaginare un rovescio più clamoroso.

L'occupazione militare dell'Afghanistan non ha conosciuto sorte migliore. L'eredità di un corso politico rovinoso non poteva concludersi che con una nuova disfatta. Che è innanzitutto la disfatta della menzogna.
Per vent'anni si è presentata la missione afghana come missione di pace. La montagna di bombe scaricata sui civili, le stesse morti al fronte di 3500 militari occidentali, furono coperte dalle cartoline umanitarie che immortalavano la nascita di un ospedale o la costruzione di una scuola, con l'immancabile consegna di fiori ai militari da parte di civili plaudenti e riconoscenti: le classiche cartoline agiografiche del colonialismo di ogni tempo. La realtà era diversa. Era la realtà della guerra, una guerra durata vent'anni, con quasi centomila civili afghani morti sotto le bombe, e settantottomila militari afghani morti in combattimento o per attentati terroristici dei talebani.
I governi afghani di Karzai e Ghani sono apparsi per quello che erano: i garanti della continuità della guerra, i portavoce delle forze di occupazione, gli amministratori corrotti dei finanziamenti occidentali.

La costruzione di un apparato statale afghano sotto controllo imperialista si è rivelato un fallimento totale.
La centralizzazione amministrativa nella città di Kabul ha lasciato ai capi tribali il controllo di larga parte del territorio, in cambio di regalie e privilegi. Le forze di occupazione presidiavano le città, come forze di polizia, lasciando la grande campagna afghana (i tre quarti del territorio) ai notabili del luogo, ricoperti di doni e riconoscimenti. L'esercito afghano che formalmente dichiarava trecentomila unità era in larga parte una costruzione artificiale: composto da volontari improvvisati, disoccupati in cerca di lavoro, privi di ogni motivazione che non fosse quella di sopravvivere alla guerra, gonfiati nei numeri dai loro ufficiali per massimizzare i finanziamenti delle forze occupanti.
La resa dell'esercito afghano alle milizie talebane, e i numerosi passaggi di campo dei loro capi militari, pur di aver salva la pelle, è il portato inevitabile di tutto questo. La garanzia della capacità di resistenza dell'esercito afghano, fornita dagli USA, era una ipocrita fanfaronata per motivare il proprio ritiro.

L'imperialismo USA sapeva bene che il proprio ritiro avrebbe comportato il ritorno dei tagliagole talebani. Semmai si era illuso di poter negoziare il trapasso invece di subirlo in soli dieci giorni.
L'imperialismo inglese aveva proposto alle potenze alleate di restare in Afghanistan sotto il proprio comando, rimpiazzando gli USA, anche per lustrare il ritorno della potenza britannica dopo la Brexit. Ma Italia, Francia e Spagna hanno declinato, per evitare di farsi carico in proprio dei costi dell'occupazione e della guerra, largamente finanziata dagli USA. Di certo il frettoloso abbandono del campo da parte degli imperialisti a vantaggio dei talebani ha dimostrato alla stessa popolazione delle città che le ragioni degli occupanti non avevano nulla a che fare con quelle esibite (le ragioni delle donne, della democrazia, dei diritti). Gli imperialisti erano giunti per i propri interessi, e per i propri interessi se ne sono andati. La fuga di massa disperata di centinaia di migliaia di afghani dalle città ora occupate dai talebani è anche un atto di accusa contro il cinismo delle potenze imperialiste, reso ancor più odioso dalla politica dei rimpatri dei migranti afghani o dal blocco delle frontiere per chi fugge.

Il potere talebano che si sta insediando intende coltivare buone relazioni con l'imperialismo. Ha trattato con gli americani, tratta parallelamente con la Russia e soprattutto la Cina; sa di trovarsi in un crocevia di interessi strategici nel gioco delle grandi potenze e cerca di massimizzarne gli utili in tutte le direzioni. Del resto quali sono le condizioni che gli imperialisti hanno posto loro in cambio di riconoscimento? Gli USA hanno semplicemente chiesto di non attaccare l'ambasciata americana e le truppe che stanno rientrando. La Russia ha chiesto di non alimentare tensioni ai propri confini con le popolazioni di religione islamica. La Cina, assai interessata all'Afghanistan, come già al Pakistan, chiede di non occuparsi del Xinjiang e degli uiguri. I talebani hanno fornito a tutti garanzie a buon mercato. Che interesse avrebbero oggi a danneggiare il proprio trionfo?

Il nuovo potere colpirà invece le vittime designate. Innanzitutto le donne afghane. Del resto c'è forse una potenza imperialista che si è occupata di loro, che ha chiesto garanzie a loro difesa? Nessuna. Le uniche “beneficiarie” parziali e indirette della sconfitta dei talebani nel 2001 erano state le donne di Kabul e delle principali città, in particolare della classe media. Cioè quelle che hanno potuto studiare, iscriversi all'università, semplicemente lavorare, a differenza di larga parte della popolazione femminile della campagna profonda che ha continuato a subire le leggi immutate della sharia anche sotto l'occupazione occidentale. Ma ora? Ora la reazione talebana ha mano libera nei loro confronti, e già la sta esercitando in questi giorni nelle provincie occupate fuori Kabul. Donne allontanate dai propri uffici; donne nuovamente costrette al burka; donne tra i 15 e i 40 anni offerte in dono ai capi militari talebani come trofeo di guerra e gesto di pace. Lo stupro delle donne è il primo biglietto da visita del nuovo potere. Ed è solo l'inizio.
Peraltro non sono le donne le uniche vittime del nuovo Emirato afghano. Ad esempio il nuovo potere ha bloccato la vaccinazione anti-covid, che molto lentamente era iniziata. Il vaccino non è previsto dal Corano, la natura è una legge di Dio. Degli ammalati si occuperà Allah, non il vaccino. Tanti no vax di casa nostra hanno trovato finalmente un alleato contro la “dittatura sanitaria”. Si attendono le nuove leggi talebane contro la musica, i cinema, gli aquiloni.

La lezione di tutto questo è una sola: non sarà mai l'imperialismo a liberare un popolo, o anche solo a garantire la democrazia. Anche quando una potenza imperialista, per i propri interessi, rovescia occasionalmente un regime reazionario, si tratta di un breve episodio senza futuro. Prima o poi la reazione ritorna, a volte più forte di prima. La guerra imperialista è sempre portatrice di barbarie.

Vent'anni fa i marxisti rivoluzionari si opposero alla guerra imperialista contro l'Afghanistan, nonostante fosse controllato dai talebani. Ed anzi si batterono coerentemente con la parola d'ordine della sconfitta dell'imperialismo, del proprio imperialismo, in quella guerra, così come si erano battuti contro i bombardamenti su Belgrado (varati da D'Alema e votati da Rizzo), nonostante Milosevic, così come si batterono contro la guerra imperialista all'Iraq, nonostante il regime dispotico di Saddam Hussein. La nostra parola d'ordine non fu “né con gli USA né con i talebani” o “né con gli USA né con Saddam Hussein” come faceva la direzione del Partito della Rifondazione Comunista e del movimento no global con una posizione equidistante classicamente pacifista. Noi difendemmo incondizionatamente l'Afghanistan, la Serbia, l'Iraq, indipendentemente da Mohammed Omar, da Milosevic, da Saddam Hussein.
Contro l'imperialismo ci si schiera sempre, sempre si rivendica la sua sconfitta. Al tempo stesso la difesa militare incondizionata di una nazione oppressa non ha mai significato appoggio politico a forze o regimi reazionari, come hanno fatto e fanno a più riprese alcune formazioni di estrazione stalinista. Semplicemente un conto è se quei regimi sono rovesciati dall'imperialismo, un conto è se sono rovesciati da una rivoluzione, cioè dalle masse che quei regimi opprimono.

Ora la lotta dei lavoratori, delle masse oppresse dell'Afghanistan, innanzitutto delle donne, non può che indirizzarsi contro il regime dei tagliagole talebani, cui l'imperialismo ancora una volta ha riaperto la strada. L'idea per cui quelle nazioni non sono adatte alla democrazia e al socialismo è un pregiudizio reazionario, smentito dalle sollevazioni delle masse arabe nell'ultimo decennio, smentito dalla stessa storia, poco conosciuta, dell'Afghanistan.
Nel 1978 la ribellione delle masse afghane, in particolare della gioventù e dei lavoratori pubblici, portò al potere il Partito Democratico del Popolo Afghano (PDPA), di natura nazionalstalinista. Nonostante la guerra per bande che attraversò la vita interna di quel partito – in cui ogni controversia veniva risolta con i plotoni di esecuzione – è indubbio che la fase che aprì fosse di natura progressista, segnata da importanti conquiste democratiche, seppur parziali, in particolare dei lavoratori e delle donne. Per anni il regime progressista fronteggiò la controrivoluzione feudal-integralista dei mujaheddin, finanziata dall'imperialismo. Prima con l'appoggio militare dell'Unione Sovietica, poi autonomamente, col sostegno della popolazione cittadina. Noi ci schierammo a difesa dell'Afghanistan e dell'URSS contro la reazione integralista e imperialista, ma al tempo stesso sottolineammo il limite profondo e decisivo di quella esperienza: aver contenuto il processo rivoluzionario entro i confini di un regime elitario, senza autorganizzazione democratica di massa, e a scapito di una vera riforma agraria. Solo un governo operaio e contadino avrebbe potuto portare sino in fondo le stesse realizzazioni democratiche saldandole con misure anticapitaliste e socialiste. Ma questa prospettiva richiedeva un'altra direzione e prospettiva, quella che l'Internazionale Comunista di Lenin e di Trotsky aveva proposto nel 1920 al congresso di Baku dei popoli d'Oriente, e che poi lo stalinismo rimosse.

È la prospettiva strategica che l'Afghanistan ripropone obiettivamente oggi. L'intera esperienza dell'ultimo mezzo secolo di storia afghana dimostra che la liberazione sociale e democratica delle masse oppresse dell'Afghanistan è incompatibile con ogni illusione nell'imperialismo. Non passa né per l'aiuto americano né per quello dell'emergente imperialismo cinese. Passa per una prospettiva di sollevazione delle masse afghane e di rivoluzione socialista. Per la prospettiva di un governo operaio e contadino.




Sulla guerra in Afghanistan del 2001, leggi qui l'analisi e la posizione dell'Associazione marxista rivoluzionaria Proposta (predecessore del PCL) e del Movimento per la Rifondazione della Quarta Internazionale.

Partito Comunista dei Lavoratori

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