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Si chiama capitalismo, non liberismo

Come il quotidiano di Confindustria spiega la follia della società borghese

8 Aprile 2021
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In tempi di Covid la stessa stampa borghese documenta l'accumulo di nuove povertà. Centinaia di migliaia di precari buttati su una strada, sei milioni di salari tagliati per via della cassa integrazione, fallimento di parte significativa del piccolo lavoro autonomo nel campo del commercio e della ristorazione...
Le immagini delle lunghe file di nuovi poveri davanti alle mense della Caritas sono uno specchio di tutto questo.

Di tutto questo non è responsabile la pandemia, ma l'organizzazione capitalista della società. La stessa che in nome del profitto ha devastato l'ambiente favorendo quei salti di specie che danno origine alle pandemie. La stessa che in nome del profitto ha smantellato per vent'anni i sistemi sanitari in tutto il mondo, rendendoli incapaci di fronteggiare l'epidemia. La stessa che in nome del profitto ha consegnato alle case farmaceutiche il monopolio della ricerca e della produzione di vaccini dando loro potere di vita e di morte sull'umanità intera. La stessa che in nome del profitto, e a causa dei tagli alla pubblica amministrazione, è incapace di organizzare in tempi decenti la vaccinazione di massa della popolazione, a partire dalle persone più anziane.

Nulla come l'esperienza della pandemia ha messo a nudo il fallimento di una società. Non del liberismo, ma del capitalismo.

La cultura liberalprogressista che ha fatto strage nella stessa sinistra “radicale” attribuisce al liberismo i mali del mondo. Per cui “correggiamo con l'intervento pubblico le ingiustizie del libero mercato!” e tutto in un modo o nell'altro si risolve. Questa pietosa illusione neoriformista, spesso spacciata per sano realismo contro l'utopismo rivoluzionario, ignora esattamente la realtà. La quale ci dice che mai come oggi l'intervento pubblico dilaga, in tutti i paesi e sotto tutti i governi. Semplicemente serve a gonfiare il portafoglio dei capitalisti a spese del resto della società.
Altro che liberismo! Siamo nel cuore del più gigantesco statalismo borghese che la storia del capitalismo ricordi. Miliardi presi dalle tasche dei proletari e finiti sul portafoglio degli azionisti.

Vediamo di cosa si tratta. In tutto il mondo gli stessi stati che hanno fatto a gara per abbattere le tasse sui profitti ricorrono a mani bassa all'indebitamento pubblico. Si vendono titoli pubblici alle banche, si travasa il grosso di quanto ricavato nelle tasche dei capitalisti, si promette il pagamento di debito e interessi alle banche che hanno comprato i titoli. Nel frattempo si offre alla banche la copertura delle garanzie pubbliche in modo che possano far credito ai capitalisti senza rischiare un centesimo. Banchieri e capitalisti incassano. Quanto al pagamento del debito e dei relativi interessi, ci penserà il resto della società negli anni a venire, a partire naturalmente dai salariati, privati e pubblici, gli stessi che già oggi sulla propria pelle pagano i costi sociali e sanitari della pandemia.

Pregiudizio ideologico, veteromarxismo? Si dia un'occhiata alla liquidità accumulata dalle grandi imprese nel 2020. Non parliamo delle imprese farmaceutiche, dei produttori di materiale informatico, di larga parte dell'agroindustria. Quelli, si sa, hanno fatto profitti a palate. Parliamo delle prime dieci grandi imprese italiane, appartenenti a tutti i settori. Nell'ordine: Stellantis, ENI, Ferrari, STMicroelectronics, CNh Industrial, Moncler, Campari, Amplifon. Ebbene in un solo anno, e per di più nell'anno maledetto della pandemia, hanno accumulato una riserva di liquidità di 54 (cinquantaquattro) miliardi. Un aumento sull'anno precedente del 36%. Cosa significa concretamente? Due cose. La prima è che hanno intascato un sacco di soldi. La seconda è che non li hanno investiti, li hanno – come si dice in gergo – tesaurizzati. Messi da parte. Accumulati.
Gli stessi che da mesi con Confindustria chiedono di poter licenziare per ristrutturare stanno facendo lo sciopero degli investimenti. Si tratterebbe, secondo Bankitalia, di un "risparmio precauzionale". Significa che non sapendo quale sarà il decorso della crisi e dell'eventuale ripresa, mettono fieno in cascina per il futuro. Di certo se intendono poter licenziare anche lavoratori a tempo indeterminato, dopo essersi già liberati di una buona massa di precari, vuol dire che non intendono assumere. Il fieno servirà per scalate azionarie, operazioni speculative, giochi di borsa, esportazioni di capitale su un mercato mondiale già segnato da nuovi grandi processi di concentrazione monopolista.

La domanda è semplice: da dove proviene nell'anno 2020 questa gigantesca massa di liquidità finita nelle tasche delle prime dieci imprese? Lo spiega il quotidiano di Confindustria: «abbondanza di credito sul mercato» e «garanzie statali» (Il Sole 24 Ore, 4 aprile). Le grandi imprese hanno incassato gratis dalle banche, coperte a loro volta dalle garanzie pubbliche dello Stato. Semplice, no?

Da una parte l'accumulo della povertà, dall'altro l'accumulo della ricchezza. Non è l'Ottocento, è l'oggi. Senza l'esproprio delle grandi imprese, senza il rovesciamento del loro Stato, senza un governo dei lavoratori, non c'è via d'uscita. La soluzione non è l'antiliberismo, la soluzione è la rivoluzione e il socialismo.

Partito Comunista dei Lavoratori

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