Interventi

La paura mangia l'anima (ma la paura si può anche buttare)

Riflessioni sull'oppressione sociale, razziale e sessuale dei proletari a partire da un film di Fassbinder

26 Marzo 2021
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Sul nostro sito ci siamo già in più occasioni occupati di cinema: quando abbiamo parlato del Festival del Cinema Cinese di Budapest e quando abbiamo presentato una recensione critica del film Io sono tempesta.
Perché questo interesse per il cinema? Come abbiamo accennato anche negli articoli precedenti, il cinema e la cultura popolare in genere fanno parte dell’egemonia politica (Gramsci). Più nello specifico, questi interventi di carattere culturale sono ispirati dall’opposizione all’idea borghese secondo la quale i lavoratori siano inguaribilmente ignoranti. Impantanati in un’incultura atavica, non ha alcun senso che tentino di elevarsi culturalmente: il loro destino non è quello di essere sfruttati a vita? Ma noi comunisti sappiamo bene che non è così. Nella storia abbiamo già avuto tanti esempi di lavoratori che si sono elevati culturalmente e politicamente. Pensiamo all’Ordine Nuovo di Gramsci, una rassegna di cultura socialista che aveva come obiettivo esplicito proprio quello di elevare culturalmente il proletariato. È proprio ad esempi del genere che ci ispiriamo, senza aspirare ad eguagliarli. Questo breve articolo vuole essere solo un piccolo tassello: si tratta di un consiglio critico di un film tedesco del 1974, ma che contiene degli spunti validi ancora oggi.

Rainer Fassbinder (1945-1982) è stato un drammaturgo e regista tedesco estremamente prolifico, nonostante la sua breve vita, e forse troppo poco conosciuto in Italia. Sarebbero tanti i suoi film e opere teatrali che varrebbe la pena commentare, ma qui ci vogliamo concentrare su La paura mangia l’anima, un film del 1974 che parla della difficile storia d’amore fra una donna tedesca, Emmi (Brigitte Mira), e un immigrato marocchino, Alì (El Hedi ben Salem). In realtà, Alì spiegherà che questo non è il suo vero nome – ha in realtà un nome ben più lungo e complesso – ma un nomignolo che viene comunemente dato agli immigrati arabi o nord-africani. Quindi, tanto vale farsi chiamare Alì (Babà!?), cedendo all’orientalismo.

È interessante che il critico cinematografico americano Roger Ebert abbia messo questo film nel suo libro The Great Movies, dove raccoglie 100 fra i più grandi film della storia del cinema. Eppure fu girato in soli 15 giorni con un budget bassissimo, e sia Brigitte Mira che El Hedi ben Salem erano attori sconosciuti e con pochissima esperienza. Dunque, cos’è che lo rende così bello e valido?
Certamente, la storia è bella, tragica e toccante allo stesso tempo, ma conta molto anche il modo in qui viene raccontata, semplice e scarno. I dialoghi sono molto semplici, del resto Alì sa un tedesco elementare e parla di sé in terza persona (altro stereotipo). Tutta la storia è costruita con una sorta di realismo irreale. Talvolta fatti e dialoghi sono estremamente realisti, talvolta lo sono meno, ma anche allora è chiaro che sono una caricatura satirica fin troppo efficace di fatti fin troppo reali.

La storia inizia subito in medias res: una donna circa sessantenne si ripara dalla pioggia in un bar a lei sconosciuto. Il bar è semivuoto: ci sono solo una barista tedesca dalla pelle bianchissima, bionda e ampiamente scollata, alcuni clienti nordafricani – tra cui Alì – e un’altra donna tedesca. Quest’ultima si offre provocatoriamente ad Alì; la scena fa intendere che i due già si conoscono. Quando Alì si rifiuta, la donna offesa lo esorta provocatoriamente ad invitare “la vecchia” a ballare. Il rifiuto di Alì – come forse diverrà più chiaro nel corso del film – è forse un moto di ribellione contro il suo essere considerato non un essere umano, ma un immigrato buono al massimo per essere usato come oggetto sessuale.
La distanza fra Emmi e Alì non potrebbe essere più grande: non solo Emmi è tedesca è lui marocchino, ma è anche più giovane di lei di almeno vent’anni. È un uomo alto e imponente, la pelle molto scura, capelli nerissimi e crespi, una grande barba altrettanto nera. Si scoprirà poco a poco che sia lui sia Emmi, entrambi proletari ma di razze diverse, sono lavoratori vittime dell’alienazione capitalistica. Emmi fa la donna delle pulizie, lui il meccanico d’officina. Il loro tempo fuori dal lavoro viene passato in sostanziale solitudine: al massimo, Alì annega la sua alienazione nell’alcol.
In ogni caso, Alì accetta la provocazione della giovane tedesca e invita Emmi a ballare. I due sembrano trovare sollievo dalla loro solitudine, condividendola. Dopo, Alì si offre di accompagnare Emmi a casa. Da cosa nasce cosa: continua a piovere, e Emmi invita Alì a prendere un caffè a casa sua. Siccome ormai si è fatto tardi, gli offre anche di restare a dormire da lei. Alì accetta, ma non riesce a dormire; va a parlare con Emmi nella sua camera. Le loro solitudini si uniranno anche fisicamente.

Così l’inizio della storia d’amore: ma appunto, non è che l’inizio. Emmi e Alì dovranno sopportare di tutto, dal disgusto delle vicine di casa (forse segretamente invidiose che Emmi abbia trovato un uomo così giovane e aitante) a quello delle colleghe («gli arabi non lavorano, sono dei parassiti!», «Altro che se lavorano! Ma non fanno proprio i lavori che nessun altro vuole fare?», risponde Emmi). Gli arabi in genere sono considerati dei «maiali» che non si lavano, e certo una donna ariana farebbe bene a star lontana da loro. Emmi si sente in dovere di parlare di Alì ai suoi figli, ormai grandi e fuori casa, che per di più ignorano la madre. All’inizio, la dichiarazione di Emmi – «mi sono innamorata di un marocchino di vent’anni più giovane» – viene presa come uno scherzo, e non ha conseguenze. Ma le cose cambieranno.
Emmi affitta un appartamento in un palazzo evidentemente posseduto per intero da un “palazzinaro”. Il figlio di costui va a lamentarsi con Emmi dell’arabo che sta con lei: non è permesso subaffittare. Non sapendo come fare, Emmi dice d’impeto che loro due si sposeranno. Allora, il borghese desiste. Emmi ha detto la cosa con impeto, senza pensarci. Ma poco dopo, si rende conto che è davvero questo quello che vuole: sposare l’uomo che ama.
Le nozze sono semplicissime e senza invitati. Con un tocco di ironia, dopo i due vanno a pranzare in un ristorante che, dice Emmi, era molto gradito da Adolf Hitler. Si potrebbe pensare che il matrimonio “regolarizzi” agli occhi degli ipocriti tedeschi la relazione fra Alì ed Emmi. Tutt’altro: se possibile, la loro colpa è così ancora più grave. Un conto è avere un rapporto occasionale con uno straniero, un conto è sposarlo. Quando Emmi presenta il marito ai figli, sono allibiti e se ne vanno disgustati. Non vogliono avere niente a che fare con una «puttana» (e notare che parlano della loro madre!). Ma ci sono anche altri problemi: il negoziante sotto casa si rifiuta di servire Alì, e ovunque vadano i due sono seguiti da sguardi fissi e disgustati.
Questa situazione, tra l’altro, porterà Alì a tradire la moglie con la barista bionda. Eppure, si vede benissimo che tra la barista e Alì non c’è nessunissima traccia d’amore. Tutt’altro. L’adulterio con la bionda non è che uno sfogo alla disperazione di Alì, che pensava di aver trovato l’amore ma vede che la sua relazione con Emmi è resa impossibile dall’ipocrisia del razzismo tedesco. In un certo senso, il rapporto con l’amante tedesca ricalca il concetto già sottolineato: un immigrato può essere al massimo l’amante occasionale di una donna tedesca, non il legittimo consorte. Viene spontaneo il paragone con la situazione degli Stati Uniti descritta da Malcolm X nella sua autobiografia. All’epoca (Malcolm X è nato nel 1925 e morto nel 1965), non era infrequente che donne bianche, anche sposate, avessero un amante nero, ma il matrimonio era fuori discussione.

Il film ha un finale aperto che in un certo senso riporta al titolo: La paura mangia l’anima. Cosa vuol dire questa espressione? Come spiega Alì nel film, è un’espressione usata da arabi e nord-africani per descrivere la loro condizione di immigrati in Germania. Una vita, appunto, all’insegna della paura, una paura esistenziale di tutto e di tutti. Paura di un ambiente estraneo e ostile, paura di non poter più rivedere i propri cari, paura della solitudine, della povertà, paura che nessuno ti ami, paura del razzismo di stato che può non darti il permesso di soggiorno o la cittadinanza (e queste sono tutte cose che sanno bene anche i migranti e le famiglie miste che vivono in Italia).
Questa paura esistenziale si riflette sulla psiche dei migranti (non è a caso che in Italia esista un centro di psicologi e psichiatri militanti che si occupano solo di migranti, il Centro Fanon di Torino, [1]), ma anche sul loro corpo. Non a caso, il film finisce con Alì che deve essere ricoverato in ospedale per una grave ulcera da stress. «Questi immigrati arabi – spiega il dottore – contraggono spesso ulcere da stress, in continuazione. Ora possiamo anche curarlo, ma tra sei mesi sarà di nuovo qui con un’altra ulcera»).
Il film finisce così, all’improvviso. Lo spettatore non sa che pensare, come colpito da un pugno allo stomaco, e non sa che cosa aspetta Emmi ed Alì. Probabilmente, l’intenzione del regista era proprio quella di lasciare i fatti in sospeso, e di lasciare allo spettatore di immaginare il seguito.

Come nota Roger Ebert nel suo libro, probabilmente Rainer Fassbinder si era ispirato per questo film alla sua relazione proprio con l’attore El Hedi ben Salem, che interpreta Alì. Una relazione, la loro, doppiamente sbagliata, non solo per la razza diversa ma anche per l’omosessualità. Non sappiamo cosa succede ad Emmi ed Alì, ma sappiamo cosa è successo a Fassbinder e El Hedi ben Salem. Lo racconta Ebert nel suo libro: El Hedi non riuscì mai ad adattarsi alla Germania, tant’è che iniziò a bere (proprio come fa Alì nel film). La tensione accumulata si trasformò in pazzia quando un giorno accoltellò tre persone. Dopo il delitto, andò da Rainer e gli disse: “Adesso non devi avere più paura”. Che cosa voleva dire con questo? Forse voleva dire: “La nostra storia non ha senso, non siamo forse costretti a vivere nel terrore e nello scherno altrui? Adesso andrò in carcere e ti lascerò libero”. El Hedi si liberò definitivamente dalla paura che gli mangiava l’anima impiccandosi in carcere. Nessuna ballata è stata scritta per lui.

Secondo Roger Ebert, La paura mangia l’anima è un film così bello perché il regista conosceva esattamente il significato del titolo, e lo girò così in fretta che non poté che dire la verità.
Si potrebbe dire che questo film ci lascia con l’amaro in bocca. Può darsi, ma forse c’è dell’altro in questo film oltre alla storia immediatamente visibile. Una lettura superficiale rivela solo una difficile storia d’amore. Ma noi vi vediamo di più.
Sia Emmi che Alì sono due proletari alienati dalla società capitalistica. Cercano di sostenersi l’un l’altro – anche economicamente, nonostante la provenienza diversa. Ma se sommiamo alla storia del film anche quella parallela di Fassbinder e El Hedi ben Salem, questo film ci può dare anche un altro insegnamento, quello dell’intersezionalità fra questioni di classe, razza e genere. Alì è un proletario immigrato costretto a un mestiere umile. Emmi è una proletaria tedesca che vede nelle sue colleghe l’ostilità ai lavoratori immigrati. Se sessualmente un uomo arabo è un «maiale» e una «bestia», la donna tedesca che lo sposa è una «puttana». Un insegnamento non superfluo per la sinistra italiana, dato che anche oggi sedicenti comunisti mettono artificiosamente in contrasto la lotta per i diritti sociali ed economici con la lotta antirazzista e antisessista, proprio come fa CasaPound.

Per concludere, il titolo del film ci suggerisce un paragone con un altro film, il documentario Buttare via la paura [2]. Questo film, girato proprio da compagni tedeschi e proiettato anche all’estero, racconta la lotta dei facchini migranti in Italia, che si sono alleati coi lavoratori italiani per difendere i loro diritti. Se il film di Fassbinder ci fa vedere come la paura possa mangiare l’anima, i migranti del documentario fanno vedere come la paura si possa anche buttare via. E noi staremo sempre al fianco di tutti i lavoratori che lottano, italiani o migranti che siano.



[1] https://associazionefanon.it/index.php?option=com_content&view=article&id=13&Itemid=17

[2] https://www.youtube.com/watch?v=tvpSonEgPFo

Elia Spina

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