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Centrismo e comunismo a Livorno

28 Febbraio 2021

#Livorno21

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Proseguiamo nella pubblicazione di articoli e documenti sulla nascita del Partito Comunista d'Italia.
L’articolo che presentiamo, apparso poche settimane prima del congresso di Livorno, si inserisce nel quadro delle polemiche che, dopo la fine del secondo congresso della Terza Internazionale, investivano quasi tutti i partiti socialisti europei. Sebbene questi avessero accettato le "ventuno condizioni" stabilite dal congresso del 1920, ancora si rifiutavano di metterle in pratica. Ciò valeva soprattutto per la settima condizione, che implicava l’esclusione dai partiti socialisti dei dirigenti della destra riformista e dei centristi.
Parecchi partiti chiedevano un’applicazione elastica delle condizioni, e dappertutto c’erano forti resistenze all’espulsione dei vecchi capi riformisti e centristi.
Il gruppo dirigente dell’Internazionale riteneva che il nemico più pericoloso per il movimento operaio, in quel periodo di ascesa rivoluzionaria, fosse il centrismo, ossia quelle correnti presenti in tutti i partiti socialisti europei che della discrepanza tra le parole e i fatti ("la rivoluzione sicuramente, ma non oggi") facevano il fulcro del loro intervento politico. Era quindi necessario battersi con vigore contro questa tendenza liquidatrice che minacciava di far fallire in nuce la nuova organizzazione internazionale del movimento operaio.
La radicalizzazione che in tutta Europa investiva grandi masse di lavoratori spingeva inevitabilmente a sinistra i gruppi dirigenti di tanti partiti socialisti. Per paura di perdere le loro posizioni di potere, essi non lesinavano di rilasciare quotidianamente professioni di fede sulla loro inflessibilità rivoluzionaria, ma in realtà restavano legati ai vecchi schemi della Seconda Internazionale.
Se dovevano nascere nuovi partiti, quelli comunisti, in grado di assolvere ai compiti che la nuova fase storica metteva all’ordine del giorno – la conquista del potere e la conseguente creazione della nuova organizzazione statale di tipo sovietico – era necessario dividere le masse operaie dai quei dirigenti che dietro un linguaggio rivoluzionario nascondevano la loro vecchia abitudine a tradire gli interessi della classe operaia a vantaggio della borghesia.
Anche in Italia c’era questa situazione. Il PSI era stato nella sua totalità, dopo il congresso di Bologna del 1919, tra i primi ad aderire alla nuova Internazionale. Il partito era guidato dalla corrente massimalista, quella dei "comunisti unitari", che aveva in Giacinto Menotti Serrati il suo dirigente più autorevole. Serrati in quel periodo godeva della fiducia del gruppo dirigente dell’Internazionale, che vedeva in lui l’uomo adatto a guidare il partito nell’imminente processo rivoluzionario che avrebbe dovuto investire l’Italia.
La fiducia era però mal riposta. Serrati aveva sì partecipato alla discussione del secondo congresso, aveva accettato le ventuno condizioni ed era stato anche eletto nel comitato esecutivo dell'Internazionale stessa, ma era fortemente contrario all’espulsione dei riformisti dal partito fin quando non avessero compiuto evidenti violazioni di disciplina. Con questa posizione, il dirigente dei comunisti unitari mostrava chiaramente di non capire che un partito comunista non poteva assolvere la sua funzione rivoluzionaria se al suo interno avessero continuato a coesistere anime politicamente antitetiche, come quella riformista e collaborazionista di Turati e quella comunista e rivoluzionaria di Bordiga e altri.
I comunisti unitari (massimalisti) non capivano che senza omogeneità programmatica non poteva esistere quel partito di classe che doveva porsi la questione del potere. Era perciò chiaro che, per questo, gli stessi comunisti unitari poco o nulla avevano a che fare con gli insegnamenti di Marx che venivano riattualizzati dal programma della Terza Internazionale, ponendosi così automaticamente al di fuori del progetto politico che la situazione storica apriva, quello della rivoluzione proletaria.




GLI UNITARI NON SONO COMUNISTI


Al Congresso di Halle, di fronte alle tergiversazioni ed agli arzigogoli della destra, secondo i quali le 21 condizioni d’ammissione all’Internazionale erano inaccettabili, Zinoviev poneva loro il quesito di indicare come avrebbero dovuto essere formulate le condizioni per apparire loro accettabili, e dopo la loro replica, nel suo eloquente discorso, dimostrava come la destra respingesse in realtà i principi stessi della III Internazionale e del Comunismo, attraverso le sue obiezioni alle condizioni di ammissione; e come quindi non si fosse dinanzi ad un problema di applicazione o di interpretazione di un freddo formulario, ma dinanzi a quello della separazione di due anime politicamente, storicamente antitetiche.

Le stesse posizioni si attagliano con analogia evidente all’attitudine della frazione comunista socialista unitaria. I suoi fautori dichiararono di basarsi su principi comunisti e sul programma della III Internazionale, ma di avere delle riserve da fare alle condizioni d’ammissione.

Orbene, la natura di queste riserve è tale da permetterci di affermare e di provare che i comunisti unitari si pongono, con esse, al di fuori e contro i cardini fondamentali del comunismo, che in quanto essi sono unitari, cessano di essere comunisti.

Le tendenze di destra del movimento proletario hanno uno speciale modo di argomentare e di far propaganda delle loro tesi, che non pone mai in evidenza la loro vera posizione politica, ma si sposta su di un altro terreno, attraverso concessioni apparenti ai principi sostenuti dalla sinistra e lo svalutamento e lo sgretolamento di questi con mille risorse e ripieghi polemici che valgono a confondere e a preoccupare la massa. Le successive situazioni storiche rivelano poi il vero contenuto antirivoluzionario di quelle correnti, celato sotto mille equivoci, ma che si delinea nel momento decisivo della lotta proletaria. Su questo fenomeno - che non è di natura personale e soggettiva e non si riduce ad una simulazione, ma che discende dalle superiori leggi dialettiche che regolano il formarsi, in dati ambienti storici, della coscienza dei movimenti collettivi - risiede quella malattia dell’opportunismo di cui, con parola non esattissima, parlano i comunisti, e di cui il II Congresso dell’Internazionale ha fatto una brillante diagnosi per tutti i paesi, prescrivendone una cura forse non abbastanza eroica col ricettario delle 21 condizioni.

Ma non è di queste considerazioni – importantissime, e su cui insisteremo, anche di fronte alla tesi sbagliata di affidare una selezione del partito alle dichiarazioni singole di accettazione o meno del bagaglio di idee e di metodi della Internazionale – non è di questo argomento che vogliamo servirci per provare che gli unitari sono contro il comunismo, bensì proprio delle ragioni stesse che essi adducono, e delle definizioni che essi medesimi tracciano della loro divergenza da noi.

Queste loro riserve, che ad essi paiono piccola cosa, distruggono in realtà tutto il valore della concezione marxista e comunista del compito del partito e della Internazionale.

Il PSI, secondo essi, è un partito che per essere comunista e per stare di pieno diritto nella III Internazionale non deve che accentrarsi e disciplinarsi un po’ più, ed eventualmente escludere certi elementi indisciplinati cronicamente della estremissima destra, quando ne sarà il momento.

Il carattere comunista del partito sarebbe dimostrato dal fatto di aver risolto due questioni, che non tutti i partiti della III Internazionale avevano superate, in senso radicale: la questione della collaborazione di classe (intesa nel senso dei blocchi elettorali e del ministerialismo) e quella della attitudine di fronte alla guerra.

È invece fondamentale che la III Internazionale non è storicamente costruita su queste due questioni, ma è la riunione di quei partiti che l’esperienza della grande crisi bellica ha condotti sul terreno: 1) della negazione della difesa della patria; 2) della negazione della possibilità del proletariato di emanciparsi per via democratica, cioè senza rivoluzione violenta e dittatura proletaria.

Nel PSI invece ci sono fautori della difesa nazionale, ci sono degli avversari dell’uso della violenza e della dittatura proletaria – e ci sono in verità ancora i fautori della collaborazione ministeriale con la borghesia, poiché a Reggio Emilia nel 1912 si esclusero solo coloro che tale collaborazione sostenevano nella immediata applicazione, ma si conservarono i riformisti di sinistra, i turatiani che, negandone l’opportunità contingente, ammettevano in principio la collaborazione – e l’ammettono ora sotto l’altro nome di andata al potere, come dimostrasi in un mio articolo precedente.

Sostenere che il PSI è in armonia col carattere storico della III Internazionale, significa traviare e negare dunque il carattere di questa, in quanto ha di più sostanziale e generale, di meno accidentale e conveniente solo alle condizioni d’uno e d’altro paese.

Ma, aggiungono gli unitari, noi vogliamo tenere nel partito gli elementi di destra, purché siano nell’azione disciplinati al programma comunista.

Un tale concetto del partito gli toglie quel carattere d’omogeneità programmatica, senza il quale il partito non è più il partito di classe di Marx, depositario di un coscienza critica e teorica, di una esatta visione degli sviluppi storici che si preparano, non è più la organizzazione delle forze che s’ispirano all’unico obiettivo delle conquiste finali e massimali rivoluzionarie.

La III Internazionale ha ridato valore a queste strutture e a questo compito del partito di classe, mentre nel periodo della II Internazionale il partito era divenuto tutt’altra cosa; un intreccio burocratico tutto dedito all’azione sindacale corporativa e a quella parlamentare e riformistica. Il partito non vedeva più né rappresentava più la missione storica del proletariato, ma le frammentarie e immediate piccole esigenze di gruppi e gruppetti proletari.

Il PSI conserva ancora nella meccanica della sua costituzione e funzione tale carattere operaista, laburista ed elettoralistico. Meno, relativamente, d’altri partiti della II Internazionale, se lo vogliamo, ma lo conserva ancora.

Gli unitari non vogliono toglierglielo, e questo risulta non solo dalla stessa loro pregiudiziale unitaria aprioristica, ma dal loro argomento fondamentale che non bisogna perdere i comuni, i seggi parlamentari, le leghe e tutte le altre istituzioni dirette dal partito. Queste istituzioni e forme d’azione – invece di essere le occasioni per innestarvi il lavoro politico rivoluzionario del partito, come secondo il Manifesto dei Comunisti e le tesi della III Internazionale – divengono fine a se medesime, come era nel carattere della tattica revisionistica della vecchia Internazionale.

Gli unitari dicono qualche altra cosa ancora: noi riconosciamo che una parte del partito deve allontanarsi; ma crediamo che il momento non sia ancora giunto, e domandiamo che Mosca non c’imponga di farlo ora.

Per ragionare così, bisogna appunto non avere il concetto comunista del partito. Il valore di questo, marxisticamente, sta nel prevedere le situazioni storiche in cui la lotta di classe si presenterà, nel preparare le masse a tali situazioni; e soprattutto – e qui sta la ragion d’essere storica della nuova Internazionale – nel far tesoro delle esperienze rivoluzionarie, suggestive in questo periodo bellico, per paralizzare l’azione antirivoluzionaria che i socialisti di destra esplicano nelle situazioni rivoluzionare finali.

Il Partito Socialista Italiano a Bologna aderiva alla III Internazionale e assumeva un nuovo programma comunista, sorvolando sulle norme del I Congresso dell’Internazionale, già allora ben note, secondo cui bisognava separarsi dai social-democratici. Allora l’Internazionale non aveva un meccanismo organizzato per controllare le adesioni. A ciò ha provveduto il II Congresso, constatando che, tra altri partiti, quello italiano non era nelle condizioni storiche di partito della III Internazionale.

Il momento della selezione è dunque passato da un anno e mezzo, l’Internazionale non ha fatto che prendere atto di questo, e gli unitari affermano che si tratti di un’improvvisa e inaspettata prescrizione giunta di fresco da Mosca.

Tutto ciò dimostra che a Bologna nella grande maggioranza che si dichiarò massimalista, una gran parte non aveva inteso il carattere storico della nuova Internazionale e la nuova funzione che il Partito doveva assumere; questo massimalismo solo per etichetta è andato progressivamente differenziandosi da quanto di comunista si è nel partito delineato e formato finora, ed oggi è possibile distinguere ad occhio nudo queste due correnti, separate dal problema dell’unità e dell’atteggiamento dinanzi alle decisioni del Congresso Internazionale.

Nella formula contraddittoria nei termini di comunismo unitario si riassumono gli elementi (l’espressione non indica qui solo uomini, ma gruppi, forze, rapporti) non comunisti del partito rimasti ad una concezione e attività storicamente superate, antitetiche a quelle proprie della III Internazionale.

Ciò non vuol dire che gli effettivi della frazione unitaria siano costituiti da compagni tutti non comunisti. Vuol dire che nella posizione e nella sua opera questa frazione differenzia e pone in evidenza appunto tutto ciò che il nostro Partito ha di operaista, di socialdemocratico, di tradizionalmente arretrato alle forme della vecchia Internazionale, tutto ciò di cui i comunisti lo devono ad ogni costo liberare, tutto ciò di cui i comunisti con un supremo sforzo si devono liberare – il che non escluderà che moltissimi dei seguaci odierni dell’errore e dell’equivoco unitario saranno attirati nell’orbita comunista, quando l’equivoco sarà spezzato con tutta l’energia e tutto il coraggio che bisogna avere.

Il Comunista, 26 dicembre 1920

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