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I moti di Reggio Calabria del 1970

Quando il disimpegno della sinistra spianò la strada alla rivolta dei “Boia chi molla!”

23 Febbraio 2021
reggio moti


Questo articolo è uscito la prima volta a dicembre 2020, sul numero 7 del nostro giornale Unità di Classe. Lo ripubblichiamo oggi, nel giorno in cui cinquanta anni fa a Reggio Calabria vennero inviati i carri armati, che a sette mesi dall'inizio posero fine alla rivolta


Sono passati oltre cinquant'anni dai moti di Reggio Calabria. Nell’estate del 1970 la decisione di assegnare il ruolo di capoluogo regionale a Catanzaro produce a Reggio un profondo malcontento. La scelta del capoluogo non è dettata da una visione strategica dello sviluppo della regione, ma dal diverso peso specifico che a Roma hanno i rappresentati politici delle diverse provincie calabresi. Nel gioco delle clientele, la principale città calabrese viene così penalizzata a favore di Catanzaro e di Cosenza, città nella quale viene prevista la sede per il nuovo polo universitario. La questione del capoluogo è l’innesco della rivolta, ma il materiale esplosivo sono le condizioni di vita della città.

Infatti, alla radice della protesta ci sono gli antichi guai che affliggono la città: mancati insediamenti industriali, disoccupazione, migrazione verso il Nord, e soprattutto una diffusa povertà che proprio a Reggio tocca le punte più estreme. Basti pensare che dopo sessant’anni sono oltre diecimila le persone ancora costrette a vivere nelle fatiscenti casupole costruite dopo il terremoto del 1908. In questo contesto, il varo dell’ordinamento regionale viene percepito come un’occasione per incrementare le attività commerciali e industriali, e quindi viene vista come un leva per creare sviluppo e posti di lavoro. Da questa mancata aspettativa si forma come reazione un sentimento territoriale ed identitario che salda diversi strati sociali. Larghissimo è il coinvolgimento popolare: dai commerciati agli artigiani, dalle donne ai giovani, dai professionisti ai lavoratori, sono migliaia i cittadini che partecipano alle iniziative prese per “difendere Reggio e la sua gente”.

Si formano così vari comitati a favore di Reggio capoluogo, che vedono tra gli animatori, oltre che pezzi della classe politica locale, anche l’armatore Amedeo Matacena, l’industriale del caffè Demetrio Mauro e l’ex partigiano Alfredo Perna.


DALLA PROTESTA ALLA RIVOLTA

Il via alla protesta viene data all’inizio di luglio dal sindaco democristiano Piero Battaglia in un “rapporto alla città” che chiama la comunità locale “a lottare, costi quel che costi, per i millenari diritti di Reggio, contro i baratti e i tradimenti dei vertici”.

Inizialmente, la protesta è fluida e trasversale, non connotata politicamente, basata su un senso di appartenenza territoriale. Ma già la sera del 14 luglio s’infiammano i quartieri periferici e popolari della città, i ferrovieri entrano in sciopero e Reggio è completamente isolata. Il giorno dopo la città è attraversata da cortei che si scontrano con le forze dell’ordine, e a sera la situazione precipita con il ritrovamento del corpo esanime di Bruno Labate, un ferroviere iscritto alla CGIL. Da quel momento lo scontro diventa sempre più cruento, e la “protesta morale” invocata dal sindaco si trasforma in un’aperta rivolta, la cui durata e ampiezza non ha paragoni.

Fino al febbraio del 1971 nella punta estrema del Sud d’Italia tiene banco una rivolta radicale e prolungata. La città dello stretto si trasforma in un’unica barricata: chiusi negozi e uffici, bloccati porti, aeroporto, ferrovie e autostrada. In un clima da guerra civile, gli scontri di strada sono violenti, mentre innumerevoli sono i blocchi stradali, gli attentati dinamitardi, gli assalti alle sedi politiche ed istituzionali.

Alla fine, si contano cinque morti, e migliaia di feriti. In questo contesto si consuma anche una strage, quando Il 22 luglio 1970, nei pressi di Gioia Tauro, un treno viene fatto deragliare da una carica esplosiva, provocando la morte di sei persone.


L’EGEMONIA DEL POPULISMO NEOFASCISTA

La rivendicazione per Reggio capoluogo viene ben presto egemonizzata dai neofascisti del Movimento Sociale Italiano.

Il leader riconosciuto è Ciccio Franco, un sindacalista della CISNAL, che come sigillo della rivolta rilancia il motto dannunziano del “boia chi molla”. Ciccio Franco, facendosi paladino di un meridione arretrato e inascoltato, diventa il capopopolo di una città in subbuglio. L’oratoria sincopata e perentoria del sindacalista neofascista cavalca la protesta dei reggini indirizzandola verso una connotazione antisistema. Attorno alla sua figura si catalizza l’anima più radicale della rivolta, si coagula una miscela che tiene insieme interclassismo e identità municipale, ideologia di estrema destra e sovversivismo popolare.

Tutto ciò non era scontato, perché fino ad allora Reggio non era una città fascista: alle elezioni del giugno 1970 il MSI aveva conquistato tre seggi, mentre PCI, PSI e PSIUP complessivamente avevano eletto sedici consiglieri. La rivolta finisce per essere gestita dai fascisti e dalla ‘ndrangheta anche perché le forze organizzate della sinistra scelgono di lasciare libero il campo. A tal proposito, Giorgio Bocca parlerà di “aventinismo politico e culturale”.
In modo particolare il PCI, non comprendendo che dietro la disputa per il capoluogo si cela il profondo malessere di una città che si sente dimenticata dallo Stato, con un riflesso d’ordine abbandona al suo destino il composito movimento che si era sviluppato. Invece di lavorare ad innescare una dinamica anticapitalista che avrebbe potuto saldare le rivendicazioni sociali del meridione con i fermenti operai dell’autunno caldo, il PCI s’appella alla difesa delle istituzioni borghesi.

All’interno della sinistra solo il PSIUP pone il problema di essere presente all’interno del movimento, mentre Lotta Continua, con una presa di posizione estemporanea, che paragona Reggio con Belfast, s’illude che Reggio sia l’inizio della rivolta degli esclusi.


UN LABORATORIO DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE

I moti di Reggio Calabria rappresentano anche un tassello della strategia della tensione, il crocevia dell’intreccio tra estrema destra, massoneria e trame eversive, il punto d’incontro di chi tenta di legare quella rivolta ad una strategia più ampia, di matrice autoritaria, che lavora ad uno sbocco compiutamente reazionario.

Una delle città più povere d’Italia viene eletta come luogo privilegiato per avviare quella “riscossa nazionale” che i circoli più apertamente reazionari vogliono attuare per stroncare le lotte operaie e studentesche del biennio precedente. Durante i moti, in città è presente il gotha del neofascismo italiano: dal leader di Avanguardia Nazionale al capo del Fronte Nazionale, il principe nero Julio Valerio Borghese che, nel dicembre 1970, progetterà la realizzazione di un golpe militare.

All’ombra di questo perverso intreccio si realizza anche la crescita della ‘ndrangheta, che progressivamente passa dalla dimensione agropastorale a quella imprenditoriale. L’organizzazione criminale, realizzando business più remunerativi (droga, appalti, sequestri di persona), stringe alleanze e s’integra con un pezzo della classe dirigente locale, avviandosi così a diventare un centro di potere potente e ramificato.

La rivolta si concluse a dieci mesi dal suo inizio con l’immagine dei mezzi cingolati che rimuovono le ultime barricate. La forza militare è accompagnata anche dal cosiddetto “pacchetto Colombo”, che stabiliva una bizzarra divisione degli organi regionali (giunta a Catanzaro, consiglio a Reggio) e prometteva la tanto attesa industrializzazione della Piana di Gioia Tauro.

Oggi, sulla rivolta di Reggio Calabria è calato l’oblio. Nessuno ne parla più, o se ne parla usando perlopiù schemi interpretativi parziali e schematici che inquadrano questa vicenda come un residuo di un lontano passato. Sicuramente i moti di Reggio sono stati il prodotto di un’epoca storica ormai superata, figlia di una particolare specificità territoriale.

Ma da un certo punto di vista la rivolta di Reggio appare come anticipatrice di alcune dinamiche che poi si sarebbero pienamente sviluppate in seguito. L’affermazione di una retorica populista avversa ai partiti e alla democrazia rappresentativa fu infatti uno degli ingredienti che nutrirono quell’insorgenza, così come lo fu la rappresentazione di un popolo buono per natura, contrapposto a una classe politica corrotta per natura. Stereotipi che ritroviamo oggi nella propaganda dell’odierno populismo.

Piero Nobili

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