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Nazionalizzazioni senza indennizzo e sotto controllo operaio

Una discussione aperta. Le ragioni di una proposta

22 Dicembre 2020
nazionalizzazioni


Pubblichiamo un contributo alla discussione interna al Patto d'azione anticapitalista sul tema delle nazionalizzazioni.


L'assemblea nazionale dei lavoratori combattivi ha varato l'indicazione di sciopero generale per il 29 gennaio, e la piattaforma di riferimento dello sciopero. È una scelta che impegna senza riserve l'intero Patto d'azione anticapitalista per il fronte unico di classe. Al di là del confronto, importante, che vi è stato in assemblea sulla tempistica dello sciopero e sulle modalità politico-organizzative della sua costruzione, siamo tutti impegnati nella sua preparazione, nell'allargamento del suo percorso, nel pieno sostegno alla piattaforma che lo promuove.

Al tempo stesso, l'impegno di lotta del 29 gennaio non rimuove la discussione apertasi nel Patto d'azione su diversi temi che riguardano la piattaforma e il suo sviluppo. In particolare all'ultima assemblea del Patto (22 novembre) si è discusso, tra le altre cose, della rivendicazione da noi avanzata della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle aziende che chiudono o licenziano. La proposta non è stata accolta, ma la discussione è stata aperta. Ed è un bene. Sia perché il confronto sulla piattaforma di lotta e sul programma è da sempre una discussione della massima importanza nelle file dell'avanguardia di classe, sia perché nel merito lo scenario annunciato di una valanga di licenziamenti nei luoghi di lavoro, a partire dalle fabbriche, porrà un terreno di scontro qualitativamente nuovo nelle sue dimensioni, che richiede a mio avviso un passo avanti sul piano delle rivendicazioni e della prospettiva.


DI COSA STIAMO PARLANDO

Innanzitutto, quando si apre una discussione è bene intendersi di cosa si discute, per evitare fraintendimenti ed equivoci nominalistici. “Nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle aziende che chiudono e licenziano” non ha niente a che vedere con le nazionalizzazioni borghesi. Anzi, è esattamente l'opposto.

Le nazionalizzazioni borghesi sono funzionali al rafforzamento del capitalismo. Sono capitalismo di Stato. La nazionalizzazione dell'energia elettrica, che pur fu avversata da ambienti borghesi, servì ad abbassare i costi dell'energia a vantaggio dei profitti dell'intero sistema industriale, e i lauti indennizzi agli azionisti furono pagati da generazioni di proletari. Fu insomma un affare per la borghesia. Così oggi l'intervento della Cassa Depositi e Prestiti (che peraltro ha un'ossatura privata) e più frequentemente di Invitalia nel salvataggio di diverse aziende è solo una forma di socializzazione delle perdite in funzione della privatizzazione dei profitti. Invitalia compra pacchetti azionari di una azienda decotta, con tanto di guadagno per gli azionisti venditori, per garantire la tenuta in Borsa dell'azienda, a beneficio degli azionisti privati. Poi procede a sfoltire personale in eccesso, accrescere lo sfruttamento, peggiorare le condizioni contrattuali per rilanciare l'azienda e renderla di nuovo appetibile. Infine rivende sul mercato il proprio pacchetto azionario, o al socio privato assistito o a nuovi capitalisti compratori, che naturalmente compreranno a prezzi di saldo un'azienda disossata. E riprende il calvario per ii salariati. Dall'Ilva ad Alitalia a Whirlpool, questo è lo spartito annunciato.

Ecco, la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio è in contrapposizione a tutto questo, perché è in contrapposizione al capitale, incluso il capitalismo di Stato. Significa rivendicare l'esproprio degli azionisti, cioè dei capitalisti, senza alcun compenso. Perché l'indennizzo se lo sono già preso con decenni di regalie pubbliche e di sfruttamento degli operai.
La nazionalizzazione è dunque un passaggio nelle mani degli operai di ciò che già si sono “comprati” con la loro vita. Il controllo operaio sull'azienda nazionalizzata chiarifica che non la si affida allo Stato borghese ma la si pone sotto la propria diretta vigilanza, sia per ciò che riguarda l'organizzazione della produzione sia per ciò che attiene al controllo finanziario, alle forniture, al credito.
Non a caso la rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo, del controllo operaio, della cancellazione del segreto industriale e commerciale, era parte del programma d'azione dell'Internazionale Sindacale Rossa degli anni '20, al pari della parola d'ordine della riduzione generale dell'orario di lavoro a parità di paga. Erano gli anni della grande offensiva capitalistica contro il lavoro, dopo la sconfitta dell'ondata rivoluzionaria del biennio rosso europeo (Italia, Germania, Ungheria), anni in cui era centrale per il sindacalismo di classe alzare un argine contrapponendo alla radicalità del capitale una radicalità uguale e contraria. Che è l'unica via, in ogni caso, per strappare risultati parziali.

Perché non dovremmo oggi riappropriarci di quella tradizione?


“MA LO STATO È BORGHESE”. UN'OBIEZIONE INCONSISTENTE

“Come facciamo a rivendicare una nazionalizzazione, fosse pure senza indennizzo, quando lo Stato è borghese?”. I compagni di Classe contro Classe, ma non solo loro, considerano questa obiezione risolutiva della questione. Coerentemente, chiedono di cancellare dalla nostra piattaforma la requisizione senza indennizzo delle cliniche private. Non contesto la logica della conclusione, che anzi trovo ineccepibile (le cliniche private sono aziende capitaliste a tutti gli effetti), ma si tratta di una logica formale e non dialettica, che porta oltretutto a sbocchi “moderati”.

Quando si rivendica il salario medio garantito ai disoccupati non ci si rivolge forse formalmente allo Stato borghese? Quando chiediamo giustamente il permesso di soggiorno a tutti i lavoratori migranti, e la parità integrale dei diritti con i lavoratori autoctoni, non facciamo forse altrettanto? E non è lo stesso quando rivendichiamo la riduzione drastica dell'orario di lavoro a parità di paga, che per essere generale richiede una legge, o la patrimoniale di (almeno) il 10% sul 10% più ricco?
Ogni rivendicazione parziale, sia essa sociale o semplicemente democratica, si rivolge formalmente al capitalista e/o allo Stato, che è poi il capitalista collettivo. Ma nessuno si sogna fortunatamente di accusare queste rivendicazioni elementari di subalternità alla borghesia. Così come nessuno si sognerebbe di accusare di complicità col capitale la rivendicazione di un aumento salariale o di un contratto di svolta per il solo fatto di rivolgersi ai capitalisti.

La funzione delle rivendicazioni di classe è quella di organizzare la lotta, di unificarla, di sviluppare la coscienza dei lavoratori in funzione della contrapposizione ai capitalisti e allo Stato. La rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle aziende che chiudono o licenziano va proprio in questa direzione: travalica i confini della fabbrica e assume lo Stato come controparte di classe. Contrappone gli operai alla propria borghesia e al proprio governo.

È del tutto evidente che si tratta di una rivendicazione incompatibile con gli attuali rapporti di produzione e di proprietà. Ma non è affar nostro occuparci della compatibilità della piattaforma di lotta. Anche perché in un quadro di grande crisi capitalista persino le rivendicazioni del vecchio programma minimo sono largamente incompatibili. È la ragione per cui burocrati sindacali e riformisti vari ci spiegano ogni giorno che occorre rinunciarvi nel nome del “realismo”. La nostra funzione è esattamente opposta: quella di far prendere coscienza agli operai che i loro diritti e bisogni più elementari passano per il rovesciamento del capitalismo e la conquista del potere. La nostra funzione è quella di costruire un ponte tra le rivendicazioni ed esigenze immediate e la necessità della rivoluzione.

Per questo l'Internazionale Comunista di Lenin e di Trotsky elaborò un programma di rivendicazioni transitorie che facessero da ponte tra il presente e il futuro. La rivendicazione delle nazionalizzazioni senza indennizzo e del controllo operaio erano parte di quel programma. Perché non dovremmo recuperare e riattualizzare quell'attrezzo?


“NON CI SONO I RAPPORTI DI FORZA”. UN'OBIEZIONE MAL POSTA

Alcuni compagni nella discussione hanno obiettato che si tratterebbe di una rivendicazione astratta, perché ignora i rapporti di forza reali. Ma si tratta di una obiezione mal posta.

I rapporti di forza reali sono sicuramente degradati. La classe operaia è segnata a livello di massa da un arretramento profondo dei livelli di mobilitazione, di coscienza, di organizzazione, per non parlare della rimozione di ogni riferimento internazionalista. È indubbio. Come sono indubbie le responsabilità politiche e sindacali di chi ha sospinto questo arretramento. Ma se dovessimo misurare le nostre rivendicazioni sul livello di mobilitazione di massa degli operai oggi, l'intera piattaforma del Patto d'azione dovrebbe essere cestinata. Esiste forse oggi una mobilitazione di massa capace di sorreggere la rivendicazione della riduzione generale dell'orario, del salario ai disoccupati, della patrimoniale del 10% sul 10% più ricco? È evidente che no. Eppure nonostante “i rapporti di forza reali”, noi giustamente avanziamo con determinazione la nostra piattaforma contro corrente. Perché?

Perché il fondamento delle rivendicazioni di classe non è il rapporto di forza dato, o la coscienza immediata dei lavoratori, ma l'esigenza obiettivamente posta dalla dinamica della lotta di classe e dalla dimensione della crisi capitalista. E ha come fine lo sviluppo della lotta, della sua organizzazione, della sua coscienza, cioè la modifica dei rapporti di forza. Ciò che vale per le altre rivendicazioni, vale allora per la rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio. Di fronte alla minaccia di un milione di licenziamenti, a centinaia e migliaia di chiusure aziendali, delocalizzazioni, passaggi di proprietà sulla pelle dei salariati occorre una rivendicazione unificante che si ponga sul terreno di quello scontro, e che aiuti l'aggregazione di una forza di classe capace concretamente di fronteggiarlo.

È un punto importante. Non stiamo parlando della proposta ideologica di un'economia mista, con lo sviluppo di un settore pubblico accanto a quello privato, dentro l'economia capitalista, secondo la tradizione riformista del PCI degli anni '50 o '60. Stiamo parlando di una rivendicazione anticapitalista che si pone sul terreno della lotta di classe, a partire dalla difesa del lavoro. E che fa leva sulla difesa del lavoro per sviluppare la coscienza anticapitalista e ribaltare i rapporti di forza. Perché la funzione di una piattaforma non è registrare la realtà, ma puntare a trasformarla.


OCCUPAZIONE DELL'AZIENDA E NAZIONALIZZAZIONE

“Per rispondere alle chiusure aziendali rivendichiamo il salario medio garantito ai disoccupati. Se vi fosse, i padroni ci penserebbero bene a licenziare, e lo Stato si guarderebbe dal sostenere o avallare i licenziamenti”. Questa è un'obiezione che è ricorsa a più riprese nella discussione. Ma è un'obiezione sbagliata da tutti i punti di vista.

Perché mettere in contrapposizione tra loro rivendicazioni che non sono affatto contrapposte?
Ogni rivendicazione assume il proprio significato nella relazione con l'insieme della piattaforma. Il salario medio garantito ai disoccupati è una richiesta sacrosanta della nostra comune piattaforma, ma non contraddice la difesa del lavoro. Tanto è vero che la distinguiamo giustamente dalla rivendicazione del reddito universale teorizzato dalle scuole negriane. La richiesta del salario garantito ai disoccupati serve semmai a organizzare, estendere, unire la loro lotta con quella dei lavoratori, perché contrasta il lavoro precario come strumento di ricatto sia sui disoccupati che sugli occupati. Non a caso la poniamo in connessione con la rivendicazione più generale della cancellazione delle leggi di precarizzazione del lavoro e della drastica riduzione dell'orario di lavoro a parità di paga.

Immaginare il salario ai disoccupati come una sorta di correttivo del capitalismo per cui Stato e padroni non licenzierebbero più significa nutrire o alimentare un'illusione riformista priva di ogni fondamento reale. E significa fare il verso proprio alle fantasie postoperaiste tutte protese a immaginare un nuovo equilibrio sociale tra capitale e lavoro fondato sul reddito universale. Un'illusione utopica tanto più nel quadro della grande crisi capitalista. Ma anche un rischio: quello di avallare e coprire di fatto con la propria fantasiosa utopia le forme reali di nuovi ammortizzatori sociali che governo, padroni, burocrazie sindacali stanno cercando per offrire un paracadute a basso costo per i licenziamenti annunciati.

Tanto più sarebbe una follia assumere il salario ai disoccupati come asse della nostra proposta e intervento nelle mille vertenze a difesa del lavoro. Gli operai della Whirlpool, come in centinaia di altre aziende, stanno lottando per difendere il proprio lavoro. Può essere utile informarli che noi ci occupiamo del loro futuro di possibili disoccupati, ma il primo problema che loro ci pongono è come fanno a restare lavoratori. E ce lo pongono nel momento stesso in cui il loro padrone li getta in mezzo a una strada. I burocrati sindacali, come in ogni vertenza, si fanno mediatori col governo e coi vecchi azionisti per concordare una soluzione a perdere, sia che passi attraverso un cambio di proprietà sia che preveda l'intervento di Invitalia. L'esito annunciato di queste politiche è in ogni caso la distruzione di posti di lavoro e/o il peggioramento delle condizioni di lavoro, come mostra l'esperienza di questi dieci anni.

Noi invece come avanguardia abbiamo il compito di indicare agli operai una soluzione alternativa del problema che loro ci pongono, in aperta contrapposizione al padrone.

L'occupazione della fabbrica o dell'azienda da parte dei lavoratori è la prima indicazione da dare. È l'organizzazione diretta della forza al livello imposto dal nemico di classe. Ciò che significa costituire una cassa di resistenza a sostegno della lotta prolungata. Ma proprio l'occupazione dell'azienda chiama in causa il tema della proprietà. Travalica i confini di una normale vertenza sindacale e pone il problema di chi comanda. La rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo degli operai, cioè dell'esproprio degli azionisti, è la proiezione naturale dell'occupazione dell'azienda.

Ovviamente non si tratta di una soluzione da perseguire azienda per azienda in ordine sparso, tanto meno di una illusione autogestionaria di autosfruttamento dei lavoratori in ambito di mercato, e cioè in concorrenza con altre aziende e altri lavoratori (magari dopo aver investito la propria liquidazione nell'acquisto delle quote azionarie). Si tratta invece di assumere l'occupazione delle aziende che licenziano e la loro nazionalizzazione senza indennizzo come rivendicazione unificante di centinaia di vertenze, in una logica di ricomposizione unitaria del fronte di classe, a partire dal proletariato industriale. E si tratta di ricondurre questa rivendicazione alla prospettiva di un governo dei lavoratori, il solo che possa concretamente realizzare questa misura.


I “RISULTATI CONCRETI” E IL TEMA DELLA FORZA

“Dobbiamo occuparci di risultati concreti, non di rivendicazioni rivoluzionarie”: quante volte ci siamo sentiti ripetere da burocrati sindacali questa litania cosiddetta "realista". Potremmo dire che tutte le rivendicazioni del Patto d'azione sono esposte a questo luogo comune.

Ma questo luogo comune capovolge perfettamente la realtà delle cose. Nei periodi di crisi i “risultati concreti” sono raggiungibili solo come sottoprodotto di azioni radicali. I padroni sono disposti a concedere qualcosa solo quando hanno paura, solo quando si sentono minacciati nei loro diritti di proprietà e nelle posizioni di potere.
Lo stesso vale per lo Stato borghese. Lo stesso ciclo di lotta della logistica che ha visto SICobas in un ruolo protagonista ha strappato concessioni perché ha praticato i metodi della lotta dura (picchetti, scioperi prolungati, casse di resistenza, blocchi stradali, confronto duro con le forze di polizia...), gli stessi metodi criminalizzati dai decreti Salvini su dettatura dei padroni. Si tratta allora di incorporare questa lezione nel ragionamento sulla piattaforma, e sulle forme di lotta che l'accompagnano.

L'occupazione delle aziende che licenziano, combinata con la rivendicazione della loro nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio, pone il tema di una svolta radicale nelle forme di lotta del movimento operaio. Occupare l'azienda e impedire al padrone di portar via un solo bullone; eleggere un comitato di sciopero da parte dell'assemblea occupante come struttura di autorganizzazione della lotta al di là delle diverse appartenenze sindacali; coordinare le fabbriche occupate attraverso reti territoriali di delegati eletti, sino a un coordinamento nazionale (come fecero i lavoratori delle fabbriche occupate in Argentina a ridosso della crisi del 2001); promuovere ovunque e centralizzare una cassa di resistenza nazionale a sostegno della lotta; ricomporre attorno alle fabbriche occupate una rete di solidarietà e di organismi di lotta (disoccupati, studenti...) sono nel loro insieme l'investimento nella forza, una forza uguale e contraria a quella impiegata dai padroni e dallo Stato. Non c'è altra via per perseguire una prospettiva anticapitalista. Non c'è altra via per strappare concessioni.

Naturalmente la radicalità della lotta e delle rivendicazioni non è mai garanzia di vittoria. In compenso la rinuncia alla radicalità nel nome della “concretezza” e del “realismo” è normalmente la garanzia della sconfitta. Sviluppare nella classe la comprensione di questa verità è uno dei nostri compiti come avanguardia.

I lavoratori e le lavoratrici sono disponibili a seguire queste rivendicazioni e questi metodi di lotta? Si può rispondere a questa domanda solo mettendosi alla prova nella lotta di classe. Di certo migliaia di lavoratori Alitalia erano disponibili nel 2008 a occupare le piste ad oltranza a sostegno della rivendicazione della nazionalizzazione dell'azienda: furono boicottati dall'azione congiunta della burocrazia CGIL e dei vertici SdL (futura USB). Di certo i lavoratori FIAT di Termini Imerese erano disposti nel 2009 e nel 2011 a occupare lo stabilimento per sbarrare la strada a Marchionne: furono dissuasi dai dirigenti FIOM, che pur aveva la maggioranza in fabbrica. Di certo i lavoratori Whirlpool erano disposti il 31 ottobre scorso a occupare l'azienda e a rivendicarne la nazionalizzazione, ma si devono confrontare con una direzione sindacale, territoriale e nazionale, che ha come unico fine quello di confinare i lavoratori nel “rispetto delle regole”. Quelle regole stabilite dal padrone e dalla Prefettura.

Ciò che ogni volta è mancata è una direzione alternativa della lotta. Un'avanguardia organizzata dei lavoratori in grado di assumere su di sé la responsabilità di orientare la lotta su binari diversi. Questa direzione alternativa non si improvvisa nel momento cruciale dello scontro, perché allora è troppo tardi. Deve radicarsi prima tra i lavoratori, guadagnare la fiducia dei più combattivi, conquistare sul campo la propria riconoscibilità. Solo così, quando lo scontro arriva, può emergere come riferimento alternativo ed egemone. La discussione sulle parole d'ordine è parte da sempre della formazione dell'avanguardia.

Penso che il Patto d'azione debba misurarsi anche con questo ordine di temi, che non a caso attraversano la riflessione dell'avanguardia di classe internazionale, a partire dall'Europa, dagli USA, dall'America latina. Questo in ogni caso è il senso propositivo del nostro contributo.

Marco Ferrando

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