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Io sono Tempesta, o la banalità del cinema

30 Novembre 2020
tempesta


Nel nostro sito ci siamo già occupati di cinema quando abbiamo scritto del Festival del cinema cinese di Budapest. Lo abbiamo fatto per una ragione molto semplice. I rapporti di forza tra le classi nel mondo di oggi non si mostrano solo con il dominio e la forza bruta, ma anche con l’egemonia culturale, cioè con la capacità di convincere una buona parte della popolazione – soprattutto moltissimi lavoratori e moltissime lavoratrici – della bontà delle proprie idee. La borghesia, pertanto, può così convincere la classe lavoratrice che non esiste altro mondo possibile, che nel mondo in cui viviamo si vive benissimo, che non ha senso pensare a possibili cambiamenti né tantomeno pensare di metterli in pratica. Quando ciò accade efficacemente e per un lungo periodo di tempo, la classe lavoratrice si trova in una situazione di oggettiva debolezza. Inutile dire che non è possibile apportare alcun cambiamento, per quanto minimo, se lavoratori e lavoratrici sono convinti che tutto sommato nel mondo di oggi si stia bene, o che in ogni caso non ha senso, non vale la pena tentare nessun cambiamento.

Come insegna Gramsci, questa manipolazione delle menti avviene anche – o forse bisognerebbe dire: soprattutto – con la produzione culturale apparentemente più banale e senza importanza. Gramsci aveva analizzato i vecchi romanzi di appendice (cioè quelli che all’epoca comparivano a puntate in appendice, cioè sulle ultime pagine di alcune riviste o giornali). Che importanza potevano avere? Similmente, che importanza può avere un film popolare?
Invece può averne tanta. Certo, i casi in cui un film specifico abbia una grande influenza sull’opinione pubblica sono pochi. Ma spesso è difficile misurare l’efficacia del singolo film: è l’insieme della produzione culturale che conta.

Facciamo un esempio: negli anni ’80 film di Sylvester Stallone come Rambo II, Rambo III e Rocky IV sono stati delle cartucce specifiche nell’arsenale della guerra fredda culturale degli Stati Uniti. Tony Shaw e Denise J. Youngblood nel loro libro Cinematic Cold War hanno fatto notare che Rambo II esprime fondamentalmente uno sfogo, una vendetta per la sconfitta USA in Vietnam. In questo film, un americano da solo uccide decine o centinaia di vietnamiti e libera dei prigionieri di guerra americani. Stallone stesso aveva dichiarato che il film serviva per sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica sui prigionieri di guerra americani segretamente detenuti dal Vietnam dopo la fine delle ostilità. Probabilmente, in realtà, i prigionieri di guerra dei quali parla il film non sono mai esistiti, ma non ha importanza. Il vero è solo un momento del falso.
Anche Rambo III ha avuto un tema specifico: la glorificazione del popolo afgano che combatteva l’invasore sovietico. Ora, al di là del giudizio che si può avere su quella guerra, sul quale non ci soffermiamo, la narrazione è stata del tutto unilaterale. È certamente vero che vi fu opposizione popolare ai sovietici, ma il film si guarda bene dal dire che quella opposizione fu anche realizzata da islamisti (il regime afgano prima della guerra era laico e pro-sovietico), foraggiati da Washington, e che in seguito da amici sarebbero diventati nemici.
Così, il coraggioso Rambo non sottolinea che sono stati proprio quegli islamisti a imporre alle donne il famigerato burqa (e poi, anni dopo, la first lady Laura Bush ci avrebbe raccontato che la guerra – stavolta USA – all’Afghanistan serviva proprio per liberare le donne dal burqa!).
Un simile contenuto politico è anche in Rocky IV. Qui Stallone sveste i panni del reduce per indossare quelli del pugile, ma sempre ugualmente forte e coraggioso, che dovrà battersi contro un pugile sovietico (e assassino). Anche qui i particolari irreali non mancano. Intanto è assai improbabile che l’URSS abbia mandato il suo primo pugile all’estero negli anni ’80, così come assai improbabili sono tutte le “pompature” e gli allenamenti ipertecnologici che rendono il pugile sovietico una macchina per uccidere – ma non forte abbastanza per battere Rocky, che invece si allena in modo semplice e schietto, “americano”.

Come dicevamo, è l’insieme che conta. Film diversi possono rappresentare i rapporti tra le classi, la povertà e la ricchezza in modo diverso. Oggi è normale sbeffeggiare il realismo socialista nel cinema liquidandolo come una trasposizione di una realtà desiderata. Certamente questo elemento fu presente, ma è anche vero che quei film rappresentavano l’idea di un cambiamento in atto (si pensi ai classici di Ejzenstejn come Ottobre, La corazzata Potemkin, Sciopero). O prendiamo un film italiano come La classe operaia va in paradiso. A suo tempo quel film fu molto criticato dall’estrema sinistra perché rappresentava gli studenti e gli operai rivoluzionari come dei mezzi imbecilli. Ma ciò non toglie che nel complesso il film rappresenti comunque una sfida, un conflitto, dei lavoratori che cercano di ribellarsi al dispotismo di fabbrica, anche se alla fine sembrano sconfitti e impossibilitati a raggiungere un qualunque cambiamento della propria condizione.

Veniamo invece a Io sono Tempesta, il film di Daniele Lucchetti del 2018 del quale si vuole qui dare una breve analisi critica da un punto di vista marxista. Il film è chiaramente ispirato alla parabola di Silvio Berlusconi, dato che mostra un ricco uomo d’affari, interpretato da Marco Giallini, che viene condannato per truffa e costretto ai servizi sociali come pena. Tra la storia reale e il film vi sono anche altri punti di contatto. Oltre alle giovani e bellissime prostitute delle quali si serve Tempesta (così si chiama il nostro milionario), salta fuori anche la battuta della crisi che non c’è perché «i ristoranti sono pieni».

La prima impressione è questa: il film è un po’ deludente perché – lo si dice senza nessuna ironia – la realtà è molto più interessante, incredibile, paradossale e tragicomica della finzione. Guardando alla parabola politica vera di Silvio Berlusconi, oggi ridotto ai margini della politica borghese, la storia di Numa Tempesta sembra davvero noiosa.

Ma ci sono altre osservazioni da fare. Il film è di una banalità incredibile per come presenta retoricamente ricchezza e povertà, ricchi e poveri. Siamo davvero alla fiera del banale: Tempesta è normalmente scocciato del dover assistere dei poveracci in un centro di primo soccorso dove si offrono docce, cibo e assistenza psicologica agli ultimi. Ma, magie dell’interclassismo e della bontà umana, i rapporti cambieranno, il ricco e i poveri si capiranno. I poveri riceveranno addirittura in dono delle visite alla megavilla di Tempesta (in realtà un gigantesco albergo vuoto) dove, almeno per qualche notte, potranno apprezzare l’ebbrezza del lusso e della vita borghese (a uno di essi non mancherà neanche l’intimità con una delle bellissime e (si presume) costosissime prostitute, simbolicamente una vera e propria arrampicata sociale).
Lieto fine garantito: mentre Tempesta finisce in galera, i poveri con il suo aiuto avvieranno attività redditizie.

Francamente, la prima impressione che fa questo film è: per carità. La fiera del banale. Per come vengono rappresentate povertà e ricchezza in questo film, si potrebbe dire che i temi, triti e ritriti, sono quelli da Principe e il povero: tra ricchi e poveri, incomprensione e invidia iniziale, in seguito avvicinamento e amicizia, lieto fine dove i poveri diventano ricchi e il ricco finisce in galera.
Ricchezza e povertà sono presentati in questi film come dei valori assoluti e antitetici, divini. Non vi sono sfumature, né nessun tentativo di mostrare la realtà in modo più complesso: problemi generali e interconnessioni, la povertà di uno che potrebbe fare la ricchezza di un altro ecc. Qualche indizio di coscienza di classe è presente, ma è davvero fugace. In questa realtà, i miserabili se vogliono migliorare la propria condizione devono o avere la fortuna di incontrare un milionario come Tempesta o sperare nell’aiuto divino. Eppure sono presenti temi importanti che si sarebbero potuti sviluppare in modo più serio. Le bellissime prostitute di Tempesta sono in realtà delle studentesse di psicologia, che devono consolare un ricco sofferente.
Del resto, al giorno d’oggi non c’è più gente che soffre. O se qualcuno soffre sono i ricchi, non certo i poveri. Questo fa pensare al fatto che nella realtà ci sono davvero delle donne che devono prostituirsi per sopravvivere, ma nel film questo tema si chiude in una battuta. Ci sono anche dei migranti, ma nessuna elaborazione è fatta sul fatto che a essere poveri siano sia italiani che migranti.
È proprio vero che i migranti vivono nel lusso a spese dello stato? Che rubano il lavoro agli italiani? Se è così, perché in uno stesso ricovero per poveri ci sono sia gli uni che gli altri? Non si dice neanche che, a paragone, un povero migrante sta comunque peggio di un povero italiano, perché il migrante è vittima del razzismo di stato, mentre l’italiano no. Né si fanno vedere migranti che lottano assieme agli italiani per i propri diritti.
Ma il film sarebbe stato più realista anche se avesse presentato una realtà in negativo, per esempio conflitti tra italiani e migranti, o addirittura conflitti intestini fra i migranti stessi. Chi conosce un minimo la realtà, e non per sentito dire, sa benissimo che queste sono cose reali, che succedono veramente. Ma non in questa favola cinematografica.

Alcune considerazioni sul lato giudiziario della storia. L’uomo d’affari truffatore viene condannato ai servizi sociali e poi addirittura alla galera. Certo, queste cose succedono davvero: in alcuni casi degli imprenditori vengono condannati per aver violato la legge, e talvolta finiscono anche in galera (molto raramente, in realtà). Ma non si dice niente del crimine sistematico commesso dai capitalisti contro gli sfruttati, un crimine che ovviamente nessun tribunale borghese condannerà mai. E lascia un po’ perplessi il fatto che secondo alcuni critici questo film sia una trasposizione della crisi economica e morale del paese. Come se la crisi la soffrissero tutti, come se fra la loro morale e la nostra – cioè fra quella dei borghesi e quella dei lavoratori coscienti – non vi sia una enorme differenza.
Francamente, questo film lascia un po’ l’amaro in bocca. Una cosa è certa: se i lavoratori e le lavoratrici di tutte le razze vorranno cambiare la propria condizione, dovranno capire che il mondo presentato in Io sono Tempesta è una favola. La realtà è diversa.

Elia Spina

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