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La sconfitta di Trump è un bene, la vittoria di Biden non è la soluzione

La grande polarizzazione americana. La necessità di un partito di classe indipendente

10 Novembre 2020
trump


Larga parte del commentario borghese europeo plaude alla vittoria di Biden come all'America ritrovata, il ritorno rassicurante alla stabilità istituzionale e alla conciliazione sociale.
Ma la realtà è assai più complicata di questa rappresentazione rituale.
La borghesia plaude al ritrovato centro liberale nel momento stesso della massima polarizzazione politica americana dell'intero dopoguerra. Il voto del 3 novembre è lo specchio distorto di tale dinamica. La partecipazione al voto è senza precedenti dall'anno 1900, come lo è il risultato in voti assoluti di entrambi i contendenti. Né il Partito Democratico né il Partito Repubblicano avevano mai riscosso un simile suffragio elettorale. Il vincitore Biden ha superato di oltre dieci milioni di voti il risultato riportato da Hillary Clinton quattro anni fa (76 milioni contro 66). Il candidato sconfitto ha superato di otto milioni di voti il proprio exploit del 2016 (71 milioni contro 63).


LA STRAORDINARIA POLARIZZAZIONE DEL VOTO USA

Una radicalizzazione straordinaria dello scontro politico in America ha dunque soffiato nelle vele dei due elettorati contrapposti. Trump ha fatto il pieno della provincia profonda americana, urbana e rurale: piccola e media impresa, salariati dei sobborghi, il mondo della campagna, il popolo legato ai valori tradizionali della vecchia America bianca (Dio, patria, famiglia), ma anche un 30% dei latinos, ostili agli afroamericani e alla nuova immigrazione dal Messico. Biden ha invece raccolto il grosso del voto urbano, a partire dalle grandi metropoli. Ha recuperato una parte del voto operaio bianco che si era indirizzato su Trump nel 2016, in particolare negli stati dei Grandi Laghi; ha raccolto il grosso del voto cittadino impiegatizio; ha motivato al voto “contro Trump” il grosso degli afroamericani (86%), inclusa parte rilevante di coloro che quattro anni fa non avevano votato Hillary (Georgia); ha soprattutto polarizzato il voto dei giovani tra i 18 e i 29 anni (61%).

Si è molto parlato del peso della pandemia sugli orientamenti di voto. In realtà la pandemia ha agito come fattore indiretto su entrambi i lati dello scontro. La popolazione più acculturata delle città ha reagito alla crisi sanitaria e alla disastrosa gestione che Trump con un'ulteriore determinazione antitrumpiana. La provincia profonda ha vissuto le prescrizioni sanitarie come lesione della libertà e soprattutto dei propri interessi economici, raccogliendosi a maggior ragione attorno a Trump, contro la “dittatura sanitaria” dei poteri oscuri della città.

Ma il fattore che più ha influito sulla dinamica di polarizzazione è stato il grande movimento di massa che nella primavera scorsa ha scosso l'intero territorio degli Stati Uniti, a partire dai centri urbani. Il più grande movimento che l'America aveva vissuto nel secondo dopoguerra non poteva non lasciare una traccia sul terreno elettorale, in particolare nelle metropoli.
Lo straordinario successo democratico nei centri urbani è molto eloquente. A Detroit il Partito Democratico incassa il 94% dei voti, determinanti per la vittoria in Michigan. A Philadelphia prende l'80% dei voti, determinanti per la conquista della Pennsylvania. Ad Atlanta la valanga democratica capovolge l'esito elettorale della Georgia, dove i democratici non vincevano dai primi anni '90, e dove hanno pesato gli 800.000 nuovi elettori registratisi per votare contro Trump. Le elezioni comunali tenutesi a Portland, Oregon, città simbolo della ribellione antirazzista, sono un piccolo spaccato rivelatore: i democratici prendono il 48%, la seconda lista a sinistra dei democratici prende il 41%, la terza lista, anch'essa a sinistra, prende il resto. Più in generale ha votato in massa contro Trump la gioventù bianca e nera che si è mobilitata nelle piazze, in particolare la giovane generazione femminile. E questa ribellione di piazza delle città ha motivato a sua volta, al polo opposto, la corsa al voto della reazione “legge e ordine”, quella che invoca il pugno di ferro della polizia contro i sovvertitori della tradizione americana.


LA POLARIZZAZIONE INTERNA AI DUE SCHIERAMENTI

La polarizzazione non ha solamente gonfiato i due blocchi sociali contrapposti, si è anche riflessa in forma distorta all'interno dei due schieramenti.

Il fronte repubblicano è stato dominato dal trumpismo. Durante i suoi quattro anni di presidenza, Trump ha destabilizzato nel profondo il Grand Old Party, trasformandolo almeno in parte in un partito a propria immagine e somiglianza. Non il vecchio partito conservatore, ma un nuovo partito populista reazionario. Campagna elettorale, liste, eletti, recano in buona misura questa impronta. Le relazioni nuove tra l'ambiente di Trump e il sottobosco delle milizie reazionarie che lo sostengono sono figlie di tale contesto.
Quale sarà ora il riflesso della sconfitta di Trump all'interno del campo repubblicano? La vecchia guardia repubblicana vorrebbe far leva sulla sconfitta per liberarsi dell'intruso e riconquistare il partito. Di certo non vuole seguire il leader sconfitto nella avventura della contestazione del voto, moltiplicando i rischi di destabilizzazione del sistema. Ma per la stessa ragione, Trump non vuole mollare la presa. Forte di un voto ineguagliato in tutta la storia repubblicana, il Presidente sconfitto rivendica la vittoria, avvia contenziosi legali presso tutte le Corti d'appello degli stati contesi, minaccia il ricorso alla Corte suprema dove spera di poter contare su una maggioranza fedele. Nei fatti, Trump prova a prendere in ostaggio il Partito Repubblicano, anche per salvarsi dai debiti e dalle controversie giudiziarie che lo riguardano.

Anche il campo democratico esce scosso dal voto. Biden ha vinto, ma la maggioranza democratica alla Camera si è assottigliata, mentre al Senato solo la vittoria nelle due elezioni suppletive della Georgia a inizio gennaio potrebbe assicurare ai democratici il pareggio. Biden userà la situazione creatasi in funzione di una politica di collaborazione col settore non trumpiano dei repubblicani; una politica che corrisponde perfettamente al suo curriculum politico e ai suoi legami organici con Wall Street. Non a caso il primo messaggio del nuovo Presidente è stato quello di rassicurare le big corporations sul tema fiscale. Ma una parte consistente dell'elettorato democratico rifiuta la continuità col passato. I milioni di giovani, bianchi, neri, ispanici, che hanno attraversato per mesi le strade d'America, rivendicando la rottura col razzismo, il disarmo della polizia, la fine della precarietà sociale, il rifiuto della dittatura del profitto, non l'hanno fatto per «tornare alla normalità». La normalità è per loro il nemico da battere. Hanno votato in massa contro Trump ma non hanno fiducia in Biden. Il successo elettorale delle candidate “socialiste” nelle liste del Partito Democratico è un riflesso di questa domanda di svolta.


LE ILLUSIONI RIFORMISTE SPIAZZATE DALLA REALTÀ

Lo stato maggiore del Partito Democratico ha già iniziato ad addossare alle candidate “estremiste” la responsabilità della mancata onda blue e la stroncatura di non poche carriere. Ocasio-Cortez, la trentunenne portoricana del Bronx che ha vinto nel proprio collegio con oltre il 70% dei voti, protesta contro questa campagna moderata e rivendica il coinvolgimento della sinistra nel futuro governo. In altri termini, non vuole essere scaricata dopo essere stata usata. Ma il problema non è l'ottenimento o meno di un ministero nel governo di Biden. È che il governo Biden rappresenta organicamente Wall Street, che ha salutato la sua elezione col crepitio della Borsa. È il governo della prima potenza imperialista del mondo. Pensare che quel governo possa realizzare la svolta sociale e democratica che i giovani americani chiedono significa rinnovare l'eterna illusione smentita di tutta la storia degli Stati Uniti.

La verità è che i Socialisti Democratici d'America (DSA), che hanno moltiplicato i propri consensi, sono messi con le spalle al muro ancora una volta dal loro stesso successo. O capitolano al Partito Democratico e al suo governo, dopo aver capitolato alla candidatura di Biden, come già di Clinton, oppure rompono dando vita a un proprio partito indipendente, all'opposizione del governo Biden. Il fatto che Ocasio-Cortez lasci intendere che se non sarà coinvolta nel governo Biden potrebbe lasciare la politica (La Repubblica, 10 novembre) dà la misura di come il gruppo dirigente della sinistra – quello per cui si sbraccia Il Manifesto di casa nostra – non abbia intenzione di rompere coi democratici, perché non vuole rompere col riformismo. E non rompe col riformismo perché non vuole rompere coi democratici. Piuttosto preferisce abbandonare la scena.

Di certo la classe operaia americana non ha bisogno di un ministro a braccetto di Wall Street, né può abbandonare il campo della lotta. Ha invece bisogno più che mai di un proprio partito, fuori e contro il vecchio regime di alternanza tra democratici e repubblicani. Un partito indipendente dei lavoratori e delle lavoratrici degli Stati Uniti che rompa con la classe capitalista in una prospettiva di rivoluzione.
L'alta percentuale di giovani americani che dichiara di preferire il socialismo al capitalismo non misura la coscienza, ma certo indica una pulsione nuova. Dare una coscienza rivoluzionaria a questo anticapitalismo latente è il compito dei marxisti rivoluzionari negli Stati Uniti. E non solo negli Stati Uniti.

Partito Comunista dei Lavoratori

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