Interventi

Lettere dal fronte della scuola. Cornuti e mazziati nel precariato

22 Ottobre 2020

Pubblichiamo una vivida testimonianza delle infinite traversie che i precari della scuola ancora oggi devono subire per avere una cattedra

scuola precari


Sveglia all’alba, è praticamente ancora notte. Non hai chiuso occhio, come spesso capita al coincidere di determinate vigilie. Finalmente sei stato convocato. Non hanno più peso i quattro mesi di disoccupazione intercorsi dall’ultimo anno scolastico. Non ha nemmeno più peso la consapevolezza che su molte altre province circostanti hanno già nominato tutti i supplenti necessari, o quasi, tramite graduatorie incrociate in un unico colpo da più settimane. Qua si procede a singhiozzi. È il terzo e ultimo magico giro di convocazioni e tu finalmente risulti fra i prescelti. Il contratto è buono, fino alla fine di agosto: acquistano leggerezza perfino i 150 km che ti separeranno quotidianamente dall’istituto assegnato. L’importante è poter tornare a respirare, almeno per un po’: affitto, bollette, spese, rate dell’auto, i pensieri si accavallano come lampi e dopo tanta attesa cominciano finalmente a spaventare di meno. La possibilità di mettere da parte punteggio e sperare in leggiadri futuri salti di qualità.

Sveglia concitata, dunque, e via verso l’estremo limitare montano della provincia. Un’ora e mezza di sola andata, ma non la percepisci nemmeno tanta è la soddisfazione. Giungi a destinazione, fai il tuo ingresso in quella che, ormai è certo, sarà la tua casa professionale per l’anno a venire. Parole di circostanza, firme di rito, inizi perfino quasi ad acclimatarti, assaporando forme e odori di una nuova realtà. Porti a termine la cosiddetta “presa di servizio”. Niente può andare storto ormai. E invece no. Con un ripiego di trama repentino, degno del teatro dell’assurdo o di una pellicola di David Lynch, vieni contattato telefonicamente dall’Ufficio Provinciale: «C’è stato un errore, è tutto da rifare. Lasci pure perdere la presa di servizio appena siglata e torni a casa. Abbiamo “saltato” delle persone, se ne riparla lunedì. Controlli pure il nostro sito».

Ti crolla il mondo: tutte quelle piccole preoccupazioni con cui hai convissuto da mesi riacquistano la loro titanica mole iniziale, forse pure raddoppiata. Non sono nemmeno le tre ore a vuoto di auto a pulsarti nella scatola cranica, come nel Cuore rivelatore di Poe. È la sempre più netta sensazione di rivestire il ruolo di zimbelli all’interno di un sistema superficiale e malfunzionante, eppure più grande di te. Il pensiero va anche ai colleghi “saltati” come niente fosse, immaginando la loro frustrazione nel non vedere il loro nominativo una volta aperto speranzosi il file contenente le più recenti convocazioni.

Questo piccolo aneddoto non può che essere esemplificativo, una minuta goccia all’interno del marasma nostrano che va sotto il nome di precariato scolastico. Ognuno di noi, se interrogato, può pescare dalla propria personale collezione decine di piccole simili cicatrici. Il tutto con alle spalle l’oscura scenografia di uno dei concorsi più discussi e palesemente improbi degli ultimi anni. Il tutto navigando a vista, fra gli stipendi più bassi in Europa per il settore e un intricato meccanismo di scatole cinesi scientemente studiato per fomentare la divisione interna. Camere stagne, in cui ognuno guarda il proprio vicino con sospetto, invidia e rabbia, alloggi quest’ultimo appena al di sopra o appena al di sotto di lui. Il tutto a discapito dell’unione di classe e della solidarietà umana.

Non me ne vogliano i grigi epigoni del trito e ritrito “ma tanto è un lavoro privilegiato, pensa a chi sta in fabbrica” o del “io, prima del passaggio di ruolo, mi son fatto quindici anni di precariato”. No, l’ovvia realtà dei fatti che vi sia sempre “chi sta peggio” non deve mai fornire una giustificazione al “benaltrismo” o alla divisione, ma piuttosto essere collante d’unità. No, l’ovvia realtà dei fatti che “si è sempre fatto così” non dovrebbe mai tradursi in un vendicativo e cinico lassismo, ma rappresentare piuttosto una miccia di rivalsa affinché i precari di domani non debbano più affrontare le medesime ingiustizie del passato o di oggi.

Epilogo: al tramonto di questo tragico circo, un lieto fine. Come sospettato sin dal primo momento, grazie a calcoli astronomici incrociati e consulti con colleghe coinvolte nella medesima beffa, mi è stata riconfermata la stessa identica cattedra, solo cinque giorni dopo. Ovviamente senza alcuna soluzione di continuità dalla prima presa di servizio, nonostante le varie rassicurazioni ufficiose dell’USP. L’errore primigenio che aveva spinto ai ripari ogni singolo ingranaggio di questo arrugginito sistema, congelando momentaneamente questa tornata di nomine, si trovava apparentemente al di sotto della mia posizione. Va da sé che non v’era motivo alcuno di coinvolgere anche il sottoscritto nella sospensione, dato che la grave mancanza stava al di sotto del mio punteggio. Ma tant’è: il boccone amaro da ingollare è di gran lunga più digeribile rispetto ciò che ancora devono e dovranno affrontare migliaia di compagne e compagni ancora in stallo. Di conseguenza si chiudono due occhi e si porgono entrambe le guance. Ma non sarà sempre così. Il cambiamento, sospinto dal vento di una palpabile e ben più salda consapevolezza di classe, s’insinua già nelle narici dei più attenti. Monda e spalanca i polmoni dei più giovani fra noi. Nuove leve di precari, sempre più colpiti, cornuti e mazziati. Nuove leve di precari, sempre più informati e compatti. Sempre meno disposti a porgere guance.

Matteo Nunner

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