Internazionale

Cile, la tragedia del riformismo (terza parte)

Il 4 settembre 1970 la vittoria di Allende

8 Settembre 2020

Qui la prima parte, qui la seconda parte

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6. VERSO IL GOLPE DISARMANDO... I LAVORATORI

Tra la primavera e l’estate del 1973 la crisi cilena evolve rapidamente verso l’epilogo. Per valutare correttamente questo esito è importante tener fermo che il conflitto che oppone la borghesia cilena all’Unidad Popular è subordinato in ultima analisi all’evoluzione dello scontro principale, che resta quello fra la borghesia e il proletariato. In breve, è il fallimento dell’Unidad Popular nel compito di controllare le masse, e non il suo "estremismo”, che fa decidere la borghesia per la sovversione e il rovesciamento violento del governo Allende. Questa decisione matura fra la fine dello sciopero dei camionisti (ottobre 1972) e lo scacco del fronte borghese nelle elezioni (marzo 1973). È proprio in seguito al fallito paro di ottobre, infatti, che si delinea la combinazione di fattori che porta al golpe. Sul versante dell’Unidad Popular, falliscono sia l’estremo tentativo di placare la DC e la borghesia contrattando i “limiti” delle riforme e fornendo ogni sorta di garanzie sul terreno istituzionale, sia lo sforzo di bloccare la radi­caliz­zazione delle masse e la tendenza alla loro autorganizzazione indipendente. Sul versante della borghesia, l’esaurimento degli ultimi mezzi “ordinari” per ristabilire la situazione porta alla definitiva unificazione del blocco dominante e al superamento delle residue remore circa la soluzione finale da affidare ai militari. In mezzo, si collocano i tentativi dei lavoratori di contrastare le tendenze del “proprio” governo e dei “propri” partiti al ripiegamento e alla resa, di allargare e unificare la rete della propria autorganizzazione, di prepararsi in vista di uno scontro che si annuncia sempre più chiaramente come imminente e decisivo. Ma mentre la controri­voluzione riesce a darsi una strategia, un’organizzazione e una direzione centralizzate, sono proprio questi fattori essenziali che fanno difetto al proletariato cileno nel momento decisivo.

Nel maggio del 1973 anche nella DC prevale l’opzione pro-golpista con l’elezione a segretario di Patricio Aylwin, esponente della destra intransigente, e l’approvazione di un documento che impegna il partito a fare ogni sforzo per impedire che il Cile «diventi una dittatura marxista». Da questo momento la DC assume un ruolo centrale nella preparazione politica del golpe, il cui scopo è delegittimare il presidente Allende e creare il pretesto che giustifichi l’intervento delle forze armate.

Fra i militari le posizioni dei lealisti sono sempre più precarie (48) e la macchina del golpe è avviata. Agli inizi di giugno un gruppo di sottufficiali e di marinai incontrano i senatori Altamirano, socialista, e Garreton, del Mapu, e Miguel Enriquez, segretario del Mir, a cui forniscono informazioni dettagliate sui cospiratori e i loro piani. Ma l’incontro viene spiato e nelle settimane successive sono incarcerati segretamente per iniziativa della Marina 400 sottufficiali con l’accusa di cospirazione contro le forze armate. Benché Allende e il governo siano informati della cosa, nessuno interviene.


Il tancazo

Il 29 giugno si verifica un primo tentativo di sollevazione militare, il “tancazo”. Un reparto di blindati del II reggimento di Santiago penetra nel ministero della difesa e intima la resa alla guardia del palazzo della Moneda. Il tentativo fallisce per il rapido intervento di forze "leali" al governo al comando del generale Prats in persona. La situazione sembra di nuovo sotto controllo del governo. In realtà, come scriverà il generale Pinochet nelle sue memorie, il tentativo fallito è servito come prova generale che ha consentito ai futuri golpisti di verificare l’allineamento delle forze all’interno delle forze armate, di saggiare le capacità difensive del governo e il suo sostegno popolare, di individuare le forze dei cordones indu­striales e della sinistra pronte a reagire.

La reazione popolare è imponente ma le direzioni maggioritarie operano per ricondurla nel quadro della legalità, spargendo a piene mani illusioni sulla lealtà democratica delle forze armate. Eppure un numero crescente di lavoratori, attraverso i cordones industriales, si pone il problema della costituzione di una milizia operaia e della preparazione della resistenza armata al golpe. Ma i cordones non avranno il modo e il tempo di risolverlo. Per farlo, dovrebbero andare oltre e contro il “loro” governo, pur continuando a difenderlo contro la destra; dovrebbero prepararsi a sostituire le direzioni ufficiali, pur agendo con il massimo di unità d’azione con le masse che ancora ad esse si affidano. Ma affinché i cordones possano svolgere questo ruolo, sarebbe indispensabile la presenza e la battaglia egemonica di un partito come quello di Lenin nel 1917 in Russia. Ma questo partito in Cile non c’è e la strada verso l’ottobre rosso sarà troncata da un settembre nero.


La “Ley de control de armas”

Il governo e l’Unidad Popular, invece, sperano di scongiurare reazioni estreme della classe dominante facendosi carico direttamente delle sue esigenze, anche repressive. Paradig­matica la storia della Ley de control de armas (legge sul controllo delle armi), che sospende l’inviolabilità del domicilio e consente all’esercito perquisizioni senza mandato alla ricerca di armi. Il progetto di legge, presentato dal demo­cristiano Carmona nell’ottobre 1972, non avendo ricevuto il veto del presidente che avrebbe potuto bloccarlo, viene approvato dal parlamento e diventa esecutivo. Il giornale del Partito socialista attribuisce il fatto all’«imper­donabile omissione di qualche funzionario», ma il funzionario, rintracciato, si difende spiegando che «tanto il presidente Allende che la maggioranza dei parlamentari dell’Unidad Popular consideravano positivo il progetto di legge» (49). Di fatto l’esercito utilizzerà questa legge per scatenare una campagna generalizzata di perquisizioni ed arresti volta a prevenire e a disorganizzare una possibile resistenza operaia (50). Solo pochi giorni prima del golpe, il 7 settembre, durante un’ondata di perquisizioni ai bastioni operai delle fabbriche dell’Area social, fra cui le fabbriche tessili Sumar e Lanera Austral, l’esercito procede alla fucila­zio­ne di un operaio. Allende non trova di meglio che convocare i generali per chiedere loro di ordinare ai subalterni di moderare il proprio impeto nel corso delle perquisizioni.


L’ultima prova di forza

Il 27 luglio comincia un nuovo sciopero dei trasporti che paralizza il paese. Questa volta, dichiara il capo dei camionisti Leon Villarin, «lo sciopero avrà termine solo dopo la caduta del governo Allende».

Ai primi di agosto, un’assemblea degli ufficiali della guarnigione di Santiago chiede al generale Prats, ministro della difesa, queste misure immediate: un accordo fra il governo e la DC, l’assegnazione delle imprese dell’Area social alle forze armate, la messa fuori legge dei cordones industriales... È l’enunciazione del programma dei golpisti nella forma di una sorta di ultimatum al governo. Avrà come risposta, il 23 agosto, le dimissioni del generale Prats dai suoi incarichi di ministro della difesa e di comandante il capo dell’esercito. Sarà sostituito ai vertici delle forze armate dal generale Augusto Pinochet. È palese il significato di questo cambio: il prevalere ai vertici delle forze armate dei settori golpisti. Con tutto ciò, Allende e il governo continuano a illudersi e a rassicurare il paese sulla lealtà democratica delle forze armate cilene.

Ai primi di settembre si uniscono allo sciopero dei camionisti altri settori dei ceti medi: medici, farmacisti, avvocati, commercianti all’ingrosso e dettaglianti. La stampa borghese è scatenata e “El Mercurio” arriva a chiedere al presidente di togliersi di mezzo suicidandosi.

Il 4 settembre, terzo anniversario della vittoria elettorale di Allende, si svolgono in tutto il paese enormi manifestazioni di massa. Solo a Santiago scende in strada un milione di lavoratori. È una grande prova di forza, ma questa forza non sarà utilizzata e non troverà una direzione alternativa che la orienti all’azione. Ancora oggi fa impressione vedere le fotografie di queste fitte schiere di lavoratori che sfilano armati di... bastoni, perché il governo si rifiuta di consegnare loro le armi che pure essi chiedono con crescente insistenza e consapevolezza di ciò che sta maturando.

Il 10 settembre, poche ore prima che il golpe cominci a Valparaiso, il ministro della difesa di UP, Orlando Letelier, convoca una conferenza stampa per annunciare che il presidente ha intenzione di annunciare una «soluzione politica alla crisi» del paese. Si riferisce alla decisione di Allende di chiedere all’elettorato con un referendum se il governo può proseguire o deve dimettersi. Allende in verità pensa di non poter vincere il referendum, la cui convocazione è dunque un modo per uscire di scena in modo indolore, preservando una parvenza di legalità ed evitando (così valuta Allende) la tragedia del colpo di Stato (51). Si tratta, in buona sostanza, di una dichiarazione di resa di fronte al golpe annunciato. Ma neppure quest’estrema rinuncia sarà sufficiente a fermare i militari; otterrà solo il risultato di far anticipare di qualche giorno la data del colpo di Stato (52).


L’11 settembre 1973

Arriva dunque annunciato, la mattina dell’11 settembre, l’ultimo atto dell’insurrezione militare in atto da tempo. La Junta militar, formata dai capi delle diverse forze armate e dei Carabineros e guidata da Augusto Pinochet, proclama lo stato d’assedio (sarà revocato solo l’11 marzo 1978), chiude il parlamento e proibisce ogni attività politica. Assume tutti i poteri concentrando nelle proprie mani il potere esecutivo, legislativo e costituzionale. Soprattutto si dedicherà per alcuni anni a dare la caccia agli oppositori e ai «comunisti» (53). Si tratta in verità di una guerra unilaterale contro la sinistra e il movimento operaio e popolare, un esempio di quel tipo di intervento che la Dottrina della sicurezza nazionale degli Stati Uniti avrebbe successivamente definito, con riferimento specifico ai conflitti in Salvador e Nicaragua negli anni Ottanta, guerra a bassa intensità.

La dittatura militare durerà fino alla fine degli anni Ottanta e cercherà non solo di sradicare il movimento operaio ma anche di cambiare in profondità il paese. Riuscendoci. Al punto che a trent’anni di distanza l’eredità del golpe e della dittatura pesa ancora sulla vita politica e sul clima sociale del Cile. Forse il primo segno di rottura in questa interminabile continuità è stato lo sciopero generale che si è svolto lo scorso 13 agosto, il primo dopo la caduta della dittatura (1990). Ma è a suo modo significativo della sconfitta storica subita dal movimento operaio che esso si sia svolto contro un presidente della repubblica, Lagos, che si pretende “socialista”, governa in coalizione con la DC e attua una politica liberista.


La resistenza e la repressione

Purtroppo i dirigenti di UP, prigionieri di una strategia illusoria, non vogliono vedere la minaccia che sta prendendo forma e finiscono per consegnare disarmato il movimento operaio cileno ai suoi carnefici. L’11 settembre trova i militanti di Unidad Popular impreparati ad affrontare il golpe e senza una strategia di riserva. Dispongono, soprattutto la sinistra socialista, di poche armi leggere, quelle utilizzate per la sicurezza dei dirigenti e delle sedi, nulla di fronte ai mezzi dispiegati dalle forze armate. Gli operai di alcune fabbriche e dei cordones industriales della cintura di Santiago resistono con armi leggere e qualche mitragliatrice per alcuni giorni, poi sono sopraffatti. Contribuisce alla sconfitta la decisione della CUT di proclamare lo sciopero generale con occupazione delle fabbriche. Rinchiusi e isolati i lavoratori nei posti di lavoro, i militari non trovano subito una adeguata risposta nelle strade e possono successivamente procedere più facilmente a colpire e a smantellare fabbrica per fabbrica la resistenza di una classe operaia demoralizzata dalla decapi­tazione della propria direzione e dalla mancanza di ogni informazione.

Il Mir dispone di armi leggere e di qualche mitragliatrice, di un minimo di preparazione e di un embrione di struttura militare clandestina. Ma la resistenza a un colpo di Stato non si può improvvisare. Così, dopo un incontro con i dirigenti della sinistra socialista, i suoi dirigenti decidono di riservare le armi per occasioni migliori e danno l’ordine di seppellirle. Nei giorni successivi militanti del Mir tentano alcuni assalti a caserme e a commissariati per recuperare altre armi, ma senza successo. Il Mir è anche l’unica forza che ha cercato in precedenza di fare un lavoro di penetrazione nelle forze armate per conquistare elementi di base e provocarne la disgregazione dall’interno, anche se con risultati ancora limitati; si ha comunque notizia di tentativi di opposizione interna, in particolare nella Marina, stroncati dai comandi con decine di fucilazioni.

Ma in sede di bilancio bisogna ammettere che gli episodi di resistenza armata a Santiago e altrove sono stati episodi isolati e destinati alla sconfitta. Non si assiste in Cile a nessuna guerra civile – come pretenderà la giunta militare per giustificare la repressione prolungata – ma solo a una guerra unilaterale delle forze armate, sostenute dalla borghesia e dall’impe­rialismo, contro il movimento operaio e la sinistra.

In effetti, la repressione è stata pianificata con cura. La reazione ha fatto la radiografia delle forze motrici della rivoluzione cilena distinguendo tre gruppi da colpire: 1) “i motori del marxismo”, ossia gli attivisti locali, dei cor­dones industriales, ecc. iscritti o meno ai partiti, ossia coloro che realmente «muovono il popolo»; 2) “i dirigenti del marxismo”, ossia i quadri politici dell’UP, intellettuali e dirigenti studenteschi; 3) “i dirigenti e i funzionari del governo e i gerarchi dell’UP”. I primi devono essere arrestati e fucilati immediatamente; quelli del secondo gruppo devono essere arrestati, torturati e condannati a pene di lunga durata; quelli del terzo gruppo devono essere detenuti per un certo tempo e poi espulsi dal paese (54). Si tratta in buona sostanza di un programma di decapitazione della classe operaia, una sorta di genocidio di classe volto a distruggere la forza organizzata e la coscienza militante dei lavoratori cileni per decenni. Bisogna purtroppo aggiungere che la dittatura ha sostanzialmente portato a termine questo sporco lavoro per conto della borghesia cile­na e dell’imperialismo.


Il prezzo della “via pacifica al socialismo”

Difficile dare cifre precise della repressione. Amnesty International calcolava alla fine del 1974 una cifra di 15 mila uccisi, coincidente con quella stimata dai rinchiusi nei campi di concentramento confrontando le informazioni fornite dai prigionieri provenienti da tutto il paese. La Commissione cilena per i diritti umani ha fornito in seguito questi dati: almeno 15 mila assassinati, oltre 2.200 detenuti scomparsi, 155 mila detenuti in oltre 160 campi di concentramento e 164 mila esiliati. Ecco, in cifre, il prezzo della “via pacifica” al socialismo. Una via che invece che al socialismo ha condotto alla facile vittoria di una delle più feroci controrivoluzioni della storia e a un prezzo di sangue senza precedenti per l’avanguardia di uno dei movimenti operai più forti fino ad allora in America latina.

Il realtà, le reboanti promesse sul poder popular e sulla partecipazione dei lavoratori al potere dello Stato hanno nascosto il fatto fondamentale: anche per Allende e l’Unidad Popular, il popolo e i lavoratori non avevano il diritto di armarsi, un privilegio che la costituzione vigente dello Stato (borghese), a cui Allende e l’Unidad Popular si sono sempre attenuti, riservava alla casta militare.


Il neoliberismo militare

I teorici liberali, che hanno celebrato trionfi planetari dopo il crollo dello stalinismo, pretendono che esista una stretta associazione fra liberismo economico e democrazia politica, soprattutto che il primo sia una sorta di base strutturale e di garanzia della seconda, la qua­le sarebbe in pericolo ogni volta che lo Stato si intromette nel libero mercato.

L’e­sempio cileno è la smentita fattuale più clamo­rosa di queste pretese. Esso mette in luce proprio la relazione opposta: il liberismo economico, per potersi imporre in un paese con un forte movimento operaio, richiede di sopprimere la democrazia politica e di instaurare uno Stato forte, meglio ancora una spietata dittatura militare, allo scopo di controllare o annullare la reazione delle masse sfruttate (55). Così come hanno fatto i militari al potere in Cile dal 1973 al 1990 che, come è noto, hanno adottato alcuni economisti della scuola liberista di Milton Friedman come propri consiglieri economici (i “Chicago boys”). In verità, non sono le idee astratte ma i concreti rapporti di classe instaurati dalla dittatura che spiegano i “successi” economici (molto relativi in verità) del neoliberismo in Cile. Sulla base dell’anni­chilimento delle organizzazioni dei lavoratori e della confisca di ogni diritto democratico delle masse, il capitalismo cileno ha avuto modo di rilanciare il saggio di sfruttamento della forza lavoro, e dunque dei profitti, a livelli senza precedenti. Lo smantellamento di molte riforme economiche dei governi precedenti (ma non di tutte: la dittatura ha conservato la nazionalizzazione del rame; così, per un paradosso della storia, il rame nazionalizzato dal “comunista” Allende è diventato uno dei pilastri economici della dittatura. (56)), i ponti d’oro al capitale straniero, le privatiz­zazioni in tutti i settori dell’economia, dalla produzione ai servizi alle assicurazioni sociali, lo smantellamento delle protezioni sociali e delle organizzazioni sindacali e l’ultraflessi­bilità del mercato del lavoro, hanno consentito una radicale ristrutturazione del modello economico cileno (diventato nei decenni successivi un paradigma planetario) e un rilancio per qualche anno dell’accumulazione del capitale a tassi di crescita asiatici (57). Senza con ciò sopprimere, anzi accentuando notevolmente, la natura dipendente dell’economia cilena, che ha conosciuto una vera e propria esplosione dell’indebitamento estero (58) e una accresciuta dipendenza dagli alti e bassi dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale e dal sistema monetario e finanziario internazionale.


7. UN BILANCIO STORICO E POLITICO INELUDIBILE

In sede di bilancio storico e politico dell’esperienza di Allende e dell’Unidad Popular, è necessario andare oltre le parole della propaganda di una parte e dell’altra e attenersi ai fatti storici e al concreto agire politico dei soggetti coinvolti. E questi dicono che il governo Allende, fin dalle sue premesse, non si pose sul terreno della transizione al socialismo, fosse pure graduale e pacifica. Il suo orizzonte fu dichiaratamente la moder­niz­zazione delle strutture economico-sociali e la democratizza­zione delle strutture politiche del paese entro il quadro borghese.


Una politica di fronte popolare

Questo passaggio venne presentato a volte come la precondizione per avviare, in un secondo momento e nel quadro della legalità vigente, una transizione «pacifica, democratica e pluralista» (Allende) al socialismo. Ma anche se questo fosse stato il sincero convincimento di Allende e di una parte dei gruppi dirigenti dell’Unidad Popular, ciò non contraddice e non contrasta con la qualificazione dell’Unidad Popular come una variante delle politiche di fronte popolare, una formula politica che il movimento operaio internazionale, egemoniz­zato dallo stalinismo e dalla socialdemocrazia, aveva già sperimentato più volte, e sempre con esiti negativi, se non catastrofici, dalla metà degli anni Trenta in poi (59).

Senza dubbio l’azione riformista del governo Allende fu senz’altro ampia e per certi aspetti radicale quanto quella di nessun altro governo nel quadro del sistema. Ma questo impegno riformatore si fermò davanti alla sacralità dello Stato borghese, della sua legalità e delle sue istituzioni. Allende non mise mai in discussione l’assoluta preminenza delle istituzioni statali borghesi e arrivò a fare concessioni su concessioni alla borghesia e ai militari su questo terreno, mentre cercò di frenare l’iniziativa dei lavoratori che autonomamente cercavano di costruire organismi di tipo nuovo che potevano rappresentare un pericoloso dualismo di poteri.


Le ragioni del golpe

Tuttavia, né le rassicurazioni verbali, né le garanzie politiche offerte da Allende furono abbastanza per la borghesia cilena (e per l’imperialismo nordamericano). La vera colpa di Allende e del governo di Unidad Popular fu quella di aver provocato in Cile una crisi rivoluzionaria che rischiava di sfuggire al loro controllo e di aprire le porte a una vera rivoluzione sociale.

E qui sta il punto: l’11 settembre 1973 i carri armati di Pinochet non si mossero solo per ri­muo­vere il presidente socialista ma soprattutto per schiacciare una classe operaia che aveva alzato troppo la testa, che aveva umilia­to la borghesia durante il paro dell’ottobre 1972, che dimostrava di voler andare oltre i limiti fissati dal governo e di essere in grado di realizzare trasformazioni politiche e sociali rivoluzionarie. Questo era intollerabile per la borghesia cilena e per l’imperialismo nordame­ricano.

La moderazione e la volontà di collaborazione di classe non bastarono ad Allende per salvare le riforme e la democrazia. Al contrario, quella politica e la fiducia nella “lealtà democratica” delle forze armate, contribuirono al disastro: consentirono ai militari e all’imperia­lismo di preparare indisturbati la controrivo­luzione, consegnarono disarmati – in senso metaforico e in senso letterale – i lavoratori e il popolo cileno ai propri massacratori. Prepararono insomma la strada a una delle più grandi tragedie del movimento operaio in America latina e nel mondo.


Il fallimento della “via pacifica”

Alla luce di tutto questo, la valutazione da dare dell’esperienza di Allende e dell’Unidad Popular è chiara: si è trattato non tanto e non solo di una drammatica sconfitta, quanto e soprattutto del tragico fallimento di una strategia po­li­tica. Allende e l’Unidad Popular avevano promesso di trasformare il paese attraverso una via pacifica e democratica, anche se più lunga e graduale. In questo senso l’Unidad Popular cilena fu effettivamente la prova del nove del rifor­mismo. Questa prova è fallita.

Eppure le masse cilene avevano dimostrato di avere le forze, la volontà e la determinazione per un altro sbocco. Stavano cercando, confusamente, di costruire un altro potere, erano pronte a molti sacrifici per difendere i cambiamenti che il governo aveva varato e per al­tri ancora più radicali. Solo pochi giorni prima del golpe un milione di lavoratori era sceso in piazza a Santiago e altre centinaia di migliaia in tutto il paese, e molti chiedevano al “proprio” governo le armi per difendersi. Ma non furono ascoltati.

Una rivoluzione che si ferma a metà strada si scava la fossa con le proprie mani. Questo è l’insegnamento della tragedia cilena. Ma per condurre una rivoluzione fino in fondo non basta l’azione spontanea delle masse. Occorre che essa sia coordinata, unificata, resa consapevole ed efficace da una strategia e dunque da una direzione politica che non la voglia frenare o deviare ma guidare, stimolare, portare a compimento. In altre parole, non ci può essere una rivoluzione vittoriosa senza un partito rivoluzionario radicato nelle masse, sperimentato, capace di conquistare la maggioranza dei lavoratori alla prospettiva della conqui­sta del potere.

Questo è mancato in Cile trent’anni fa. Ma questa non è una lezione che riguarda solo il Cile. È un insegnamento di cui occorre facciano tesoro tutti coloro che si propongono di cambiare il mondo. Perché un mondo diverso sia davvero possibile.




Note

(48) Un episodio sinto­matico: il generale Prats viene fischiato nel corso di un incon­tro con gli ufficiali del­la regione di Santiago.

(49) In Luis Vega, op cit.; riferito da M. Novello, op. cit.

(50) Nell’agosto del 1977, in occasione del suo primo comitato centrale dopo l’instau­razione della dittatura, il PC cileno si auto­criticò per la man­canza di una sicura politica militare nel corso dell’UP; ma il riferimento non è alla mancanza di una poli­tica per disarticolare dal basso e dall’interno le forze armate della borghesia, ma alla mancanza di un’iniziativa per ingraziarsi i vertici delle stesse.

(51) Questa interpretazione dell’estrema mos­sa di Allende viene og­gi confermata dall’al­lo­ra segretario del PC cileno Luis Corvalan. Si veda l’intervista al Corriere della sera del 9 settembre 2003.

(52) I primi a essere messi al corrente delle intenzioni di Allende furono gli stessi golpi­sti, dal momento che il presidente aveva infor­­mato Pinochet della sua decisione già il 9 mattina. Questo detta­glio apparentemente di scarsa importanza con­ferma che l’obiettivo del golpe non era tanto rimuovere Allende quanto stroncare la rivoluzione.

(53) Dieci mesi dopo, ecco cosa dice il mini­stro degli inter­ni della giunta militare (El Mercurio del 16 luglio 1974): «Nel paese esiste un governo militare e una situazione di stato d’assedio e di guerra interna.» (Luis Vitale, cit. op.).

(54) J. Garcés e Saul Landau, Orlando Letelier: Testimonio y Vindicación (citato da M. Novello, op. cit.).

(55) Con riferimento al regime di Pinochet mol­ti hanno utilizzato correntemente la cate­goria di “fascismo” ma, al di là di molte affinità nei metodi di esercizio della repressione, si trat­ta di una assimilazione impropria, politi­camente fuorviante. In realtà la giunta militare cilena non ha mai cer­cato di creare un ve­ro e proprio movimento politico o un partito di massa ideologicamente definito attorno a sé. Ha ovviamente ricevuto il sostegno delle forze fasciste cilene, molto attive contro l’UP, ma complessivamente secondarie nel quadro del do­minio militare. Soprattutto, è stata spin­ta a prendere il potere e ha esercitato per alcuni anni una dittatura feroce e totali­taria dalla borghesia cilena e dall’imperiali­smo nordamericano, non da un movimento di massa reazionario della piccola borghesia. Viceversa, la creazione di un movimento di questo tipo è stata per certi aspetti sollecitata e utilizzata come alibi per giustificare l’assu­nzione del potere da parte dei militari.

(56) Le entrate statali del rame nazionalizzato ammontarono a 20 miliardi di dollari nel decennio 1974-84!

(57) Il prezzo sociale di questi “successi” è stato ovviamente meno pub­blicizzato: in realtà il Cile ha conosciuto ini­zialmente alcuni anni di iperinflazione e re­ces­sione (1974-76), una caduta del 50% dei salari reali e una disoc­cu­pazione superiore al 20% della forza lavoro fino alla metà degli an­ni Ottanta; le ricette libe­riste hanno inoltre prodotto un gran nu­mero di fallimenti fra i piccoli produttori e i contadini, la formazione di un ampio settore informale e di un esteso esercito di lavoratori pre­cari, soprattutto donne, nelle città e nelle campagne.

(58) Da 4 miliardi di dollari nel ’73 a 15 mi­liardi di dollari nel ’85.

(59) Allende, in una famosa intervista con­cessa a Regis Debray nel dicembre del 1970, negava che l’Unidad Popular fosse un fronte popolare, con l’argomento che non subiva l’egemonia di un par­ti­to borghese (come l’al­leanza degli anni Tren­ta) ma vi dominava l’egemonia dei partiti operai e il suo fine era il socialismo (Regis Debray, La via cilena, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 79-80 e 117-119). Pur negando che l’UP mirasse al socialismo, an­che Luis Vitale affer­ma (nel 1995) che l’U­nidad Popular non fu un fron­te popolare per­ché essa era egemonizzata dai partiti di sinistra e il partito radicale vi aveva un ruolo mar­gi­nale (Luis Vitale, op. cit.). Ma la natura di fronte popolare non dipende dal ruolo che in una coalizione gioca effettivamente un par­tito o un settore della borghesia ma dal fatto che le direzioni operaie ricerchino con essi un accordo di fatto, limi­tando al quadro bor­­ghe­se la portata della propria azione. Su que­sto punto Trotsky ha messo in luce già negli anni Trenta che, di fronte all’ascesa delle masse e alla “fuga” del­la borghesia dal fronte popolare che ne segue, i gruppi dirigenti riformisti sono disposti a cercare un accordo e ad allearsi persino «con l’ombra della borghesia», ossia con partiti borghesi di secondo piano (tale era il Partito Radicale in Cile alla fine degli anni Sessanta), pur di non sconfessare una politica che è, per l’essenziale, volta a mantenere entro il qua­dro dello Stato borghese l’azione del movimento operaio in un contesto di radicalizzazione delle masse. L’egemonia dei partiti di sinistra nel fronte popolare cileno non cambia la sostanza delle cose. D’altro can­to, si può immaginare una dimostrazione più chiara e definitiva della natura di fronte popo­lare del governo di UP della sua ricerca, spa­smodica dalla metà del 1972, di un accordo con la DC, o il coinvol­gimento nel governo addirittura dei vertici delle forze armate? Chi rappresentavano e per conto di chi agi­­va­no i generali e gli ammiragli, se non della classe dominante?

Tiziano Bagarolo

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