Teoria

Imposta patrimoniale progressiva e nazionalizzazione (seconda parte)

Banche e grandi imprese sotto il controllo dei lavoratori: obbiettivi imprescindibili di un governo dei lavoratori ed elementi transitori verso il socialismo

29 Luglio 2020

Continuiamo la pubblicazione del "saggetto" del compagno Cermignani, la prima parte la trovate qui. A breve la terza e ultima.

patrimoniale 2


L'imposta patrimoniale progressiva come elemento di transizione al socialismo

Posto il quadro generale sopra delineato, risulta confermato da recenti dati statistici (con riferimento all'Italia, ma il fenomeno è evidentemente esteso a tutti i paesi a capitalismo avanzato) [1] quanto segue: il lavoro produce valore e reddito complessivo sociale, mentre, nella fase distributiva, si appropria di una quota assolutamente minore di tale reddito; i possessori/proprietari di capitale non svolgono alcun ruolo attivo nella produzione generale, ma si appropriano della quota maggioritaria del valore prodotto dal sistema sociale e la accumulano centralizzandola sotto forma di patrimonio privato.
Le classi sociali (minoritarie numericamente) che detengono il capitale in tutte le sue forme ed articolazioni (dunque possiedono i mezzi patrimoniali più ingenti e la forza economica più rilevante), da un lato, si appropriano, sotto forma di profitti, rendite e plusvalenze finanziarie-immobiliari, dell’intera quota di maggior valore sociale (prodotto dal lavoro collettivo); dall’altro, esse sfruttano un’ulteriore forma di redistribuzione regressiva del reddito a loro vantaggio, determinata sia dai meccanismi “fisiologici” del sistema tributario (minore tassazione, o addirittura completa detassazione, prevista dall’ordinamento per i profitti societari, per le rendite finanziarie, per le plusvalenze ed i redditi di capitale in genere, nonché per i grandi patrimoni), sia, come è ovvio, da fenomeni patologici ed ipertrofici, come evasione ed elusione fiscale, naturalmente presenti ed in qualche modo “tollerati” dal sistema complessivo.

Le classi lavoratrici (maggioritarie nella società), al contrario, sono gravate, sul loro reddito di lavoro dipendente (ed assimilato), ossia sulla parte di prodotto sociale che gli viene attribuita, di un eccessivo e sperequato carico fiscale, per cui esse concorrono alle spese pubbliche, per una quota di ben oltre l’80% del gettito complessivo dell’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche, principale fonte delle entrate tributarie).
Ciò genera un’enorme distorsione sul piano della giustizia distributiva, con un consistente e costante trasferimento unidirezionale di reddito e risorse: dalle classi e dagli strati sociali del lavoro dipendente (attivo e quiescente), al profitto privato ed alla rendita parassitaria.
I risultati di un recente studio sulla concentrazione della ricchezza in Italia, confermano ampiamente questa tendenza: il 10% delle famiglie più ricche detiene oltre il 50% della ricchezza nazionale e dunque del reddito/patrimonio complessivo, mentre il 50% della popolazione (la metà più povera) ne detiene meno del 10% [2].

Solo una tassazione patrimoniale di tipo “progressivo”, ossia che cresce più che proporzionalmente al crescere del valore del patrimonio soggettivo, insieme ad una imposizione ugualmente progressiva, secondo la stessa regola di crescenza più che proporzionale, sui profitti e sugli utili societari (ossia sui “redditi” dei capitalisti), potrebbe, in linea teorica, invertire l'attuale trasferimento di risorse finanziarie dal lavoro al capitale ed attuare una redistribuzione del reddito e della ricchezza complessiva più conforme a criteri razionali di giustizia (distributiva), spostando consistenti quote di prodotto sociale dalle classi possidenti (capitalisti) a quelle economicamente più svantaggiate (lavoratori e masse popolari oppresse e sfruttate o marginali), attraverso un massiccio finanziamento di attività, beni e servizi di interesse pubblico/generale, erogati direttamente dallo Stato e, più in generale, dai poteri pubblici, aventi rilevante utilità pubblico-collettiva e natura marcatamente “sociale”, nel senso che siano funzionali a garantire, tutelare e soddisfare i bisogni, gli interessi ed i diritti sociali fondamentali ed universali di tutti i cittadini (lavoro, salute e sistema sanitario pubblico, istruzione e cultura, abitazioni popolari, previdenza ed assistenza sociale, trasporti pubblici, tutela dell'ambiente e del territorio, servizi di pubblica utilità riguardanti l'erogazione dell'acqua potabile, dell'energia elettrica e del gas, la manutenzione, il recupero, il ripristino e la conservazione delle infrastrutture pubbliche, etc).

Ma la vera questione è se tale “inversione” possa essere innescata attraverso un'imposizione patrimoniale introdotta e gestita da uno Stato e da un governo del capitale (come quelli attualmente esistenti) oppure sia necessaria, in via “preliminare”, la creazione di uno Stato e di un governo della classe lavoratrice, che possa attuare “effettivamente” detto tipo di tassazione, insieme ad altre misure “transitorie” (innanzitutto il controllo operaio sulla produzione e la collettivizzazione delle grandi imprese industriali e dell'intero sistema finanziario-creditizio), nella direzione della essenziale edificazione di un sistema economico socialista che possa concretamente redistribuire in modo più giusto reddito e risorse economiche dal capitale (e dai profitti) in favore del lavoro (e dei salari), incidendo innanzitutto sui rapporti di proprietà/appropriazione privata capitalistici (quindi abolendoli e sostituendoli con la proprietà collettiva/“pubblica” dei lavoratori sui grandi mezzi ed apparati economico-produttivi, cardine di un ordinamento socialista).

La domanda è evidentemente retorica: solo un Governo ed uno Stato dei lavoratori potrebbero concretamente procedere nella direzione sopra precisata, introducendo ed indirizzando politicamente simili misure tecnico-giuridiche, verso un reale e più giusto cambiamento sociale (cioè verso un cambiamento del sistema sociale in senso più conforme ad un razionale concetto di giustizia distributiva e di uguaglianza sostanziale). Nessuno Stato borghese potrà infatti introdurre o gestire seriamente ed efficacemente un'imposta patrimoniale progressiva sulle grandi ricchezze (e neppure un'imposta reddituale progressiva sui grandi profitti), così come nessuno Stato o governo del capitale potrà mai procedere a reali collettivizzazioni o nazionalizzazioni di imprese, nell'interesse “generale” dei lavoratori e delle masse popolari. Più precisamente: essi, su un piano meramente formale ed “apparente”, potranno farlo in alcuni casi (e lo hanno fatto in passato), ma nel sostanziale ed esclusivo interesse “strategico” (di massimizzazione del profitto privato) del capitale e dei capitalisti (anche, nelle nazionalizzazioni, attraverso la corresponsione di rilevanti “indennizzi” monetari funzionali al ripristino dell'accumulazione privata) ed in ogni caso a danno dei lavoratori e delle masse popolari e semiproletarie (socializzando in realtà le perdite di aziende decotte e saccheggiate dai capitalisti, per risanarle a spese della collettività e dei lavoratori e per poi ritrasferirle – a prezzi di favore ed irrisori - ai gruppi capitalistici privati affinchè ne possano trarre, senza aver investito nulla, nuovi profitti).


Attività finanziaria pubblica ed imposizione fiscale dello Stato capitalistico: processo di accumulazione del capitale ed intervento statale nell'economia

La ragione di quanto detto risiede nel fatto oggettivo che lo Stato, in un sistema economico capitalistico, costituisce l'apparato repressivo-coercitivo di dominio politico della classe borghese su quella lavoratrice, del capitale sul lavoro; attraverso lo Stato vengono quindi “tendenzialmente” sintetizzati, tradotti/espressi ed amministrati gli interessi materiali e le volontà politiche generali delle varie frazioni del capitale (grandi e medi gruppi industriali-finanziari) e della classe (borghese) che le detiene/controlla [3].

L'attività economico-finanziaria “pubblica”, pertanto, non può essere “neutra”, ma segue necessariamente un indirizzo di classe (della classe socialmente dominante, cioè della classe capitalistica).
Con l’imposizione fiscale ed il relativo potere, lo Stato interviene nel processo di circolazione e di accumulazione del capitale (di cui lo Stato stesso rappresenta un segmento, o meglio, un elemento “derivato” e determinato dalla struttura economica, ma in relazione/interazione dialettica con essa ed in grado pertanto di influire, a sua volta, su di essa in modo rilevante); vi interviene nella sfera dei rapporti di distribuzione, prelevando coattivamente (attraverso lo “strumento tributario”) e centralizzando quote di “valore”, cioè di “prodotto sociale” ovvero di “reddito”, che, nella dinamica di produzione e riproduzione del capitale complessivo sociale, si ripartisce fondamentalmente in reddito di lavoro (salario) e reddito di capitale (plusvalore, suddiviso, a sua volta, in profitto, interesse, rendita etc.).

In altri termini, in un'economia capitalistica, lo Stato, con la sua attuale e più avanzata forma “democratico-borghese” (in tutte le sue varianti fenomeniche), rappresenta l’involucro politico-giuridico più efficace per il funzionamento dell’intero processo di produzione, circolazione ed accumulazione del capitale, sulla base della legge del “valore”, attraverso innanzitutto la garanzia fondamentale del libero acquisto e vendita di forza-lavoro: esso cioè costituisce il migliore strumento generato dallo sviluppo storico, per il mantenimento del rapporto di sovraordinazione, interno allo stesso sistema economico, tra “capitale costante” (mezzi monetari e mezzi di produzione di proprietà privata) e “capitale variabile” (forza-lavoro salariata).

Lo sviluppo delle “forze produttive” (ossia delle forze del lavoro sociale organizzato, delle capacità riconducibili alla divisione/cooperazione internazionale del lavoro, del livello tecnologico degli strumenti produttivi) e del processo “ineguale” di circolazione/accumulazione internazionale del capitale, ha dunque storicamente determinato anche l'evoluzione della “forma” politico-giuridica (a sua volta necessaria) di questa struttura dinamica, ossia la forma dello Stato moderno del capitalismo moderno, dello Stato del “capitalismo finanziario” (che è il capitalismo dei grandi gruppi industriali-finanziari, costituenti la quota più concentrata del capitale) [4].

In quest’ottica, è evidente l’incidenza dello sviluppo del mercato e del ciclo economico mondiale sull’articolazione/evoluzione delle funzioni dello Stato nazionale come involucro politico “settoriale” di un capitale sempre più internazionalizzato; di un capitale cioè frutto del “naturale” fenomeno di concentrazione e centralizzazione, della connessa progressiva compenetrazione/interdipendenza tra capitale industriale e capitale bancario (sulla base di rapporti di partecipazione societaria reciproca e diffusi e permanenti rapporti di debito-credito), della formazione di grandi e concentrati gruppi economico-finanziari (monopolistici o oligopolistici) operanti sui mercati internazionali delle merci e, soprattutto, dei capitali, della “finanziarizzazione” dell’economia (ossia del fenomeno dell’esportazione dei capitali, della sovraespansione della sfera finanziaria del sistema economico e dell’accentuazione dei tratti spiccatamente finanziari delle stesse imprese industriali-commerciali).

Ciò che si cerca di mettere in rilievo è che le forme ed il grado dell’intervento dello Stato nell’economia, dell’azione di finanza pubblica (e del binomio prelievo tributario/spesa pubblica al suo interno), della politica fiscale e monetaria, sono determinati dall’evoluzione complessiva del sistema economico e dall’andamento ciclico del processo di produzione capitalistico, nelle sue periodiche e “naturali” fasi espansive e recessive.
Si potrebbe sinteticamente affermare che, attraverso la finanza pubblica, lo Stato opera come generale collettore e distributore di capitale monetario e come elemento di sostegno attivo al ciclo economico-produttivo, nel caso in cui è necessario far affluire ingenti investimenti in settori relativamente arretrati o in crisi, ovvero redistribuire redditi tra fattori della produzione, classi e strati sociali; opera cioè come “centralizzatore” non solo di quote di plusvalore (cioè di “valore aggiunto” prodotto dalla classe lavoratrice e ripartito tra i redditi sostanzialmente di “capitale”, quali profitti, utili, dividendi, interessi, plusvalenze, rendite etc.), ma anche di una parte considerevole di salario (cioè di valore di scambio della forza lavoro), da convogliare poi, in molti modi attraverso la “spesa pubblica”, verso il capitale e soprattutto a sostegno/incremento di profitti privati e rendite, nonché, in alcuni casi (cd. “Stato sociale”), in direzione di una necessaria (e minimale) redistribuzione di quote di risorse economiche a favore di classi o strati sociali particolarmente svantaggiati; redistribuzione oggettivamente più conforme a criteri di “giustizia distributiva” e funzionale ad una parziale (e limitata) riduzione delle eccessive disuguaglianze sostanziali generate “naturalmente” dal sistema complessivo, al fine di eliminare quelle disparità e quegli squilibri di dimensione così rilevante ed eccessiva (persino per una organizzazione sociale di tipo capitalistico) da mettere in pericolo (soprattutto nelle fasi di crisi) il sistema stesso (creando situazioni di generalizzato “sottoconsumo” che ostacolano il processo di produzione/accumulazione).


Fase imperialistica e Stato del capitale

Ciò a cui stiamo assistendo (e che si è tentato di sintetizzare) rappresenta un'ulteriore ed oggettiva conferma non soltanto della piena validità scientifica della teoria e del metodo marxista come strumento di analisi della realtà economico-sociale, ma anche dell'esattezza del suo “sviluppo” leninista; le crisi finanziarie sono in effetti una delle manifestazioni “naturali” del particolare (e più elevato) stadio evolutivo “imperialistico” del sistema del capitale.
Le caratteristiche principali dell' “imperialismo” sono state individuate da Lenin (ne “L'imperialismo fase suprema del capitalismo”, 1916-1917) e costituiscono i connotati essenziali dell'attuale fase storica di estensione mondiale del modo di produzione capitalistico; esse, brevemente, sono: 1) la tendenziale concentrazione del capitale e della produzione in imprese di dimensioni sempre più ampie, con conseguente formazione dei “monopoli” (cartelli, trust, accordi ed associazioni monopolistiche tra imprese) che si ripartiscono i mercati internazionali (in proporzione alla entità della loro “forza economica”); 2) la compenetrazione tra capitale bancario e quello industriale, con progressiva formazione del capitale “finanziario”, fortemente centralizzato (cioè controllato da pochi soggetti); 3) la notevole rilevanza acquisita dall'esportazione di capitale e, conseguentemente, del modo e dei rapporti di produzione capitalistici, in tutto il mondo (in maniera, ovviamente, differenziata e diseguale, per ritmi di sviluppo, settori economici ed aree geografiche); 4) la compiuta ripartizione della Terra tra le più grandi “potenze” statali capitalistiche (espressione politica dei grandi e medi gruppi imprenditoriali capitalistici).

L'imperialismo, dunque, non è altro che il capitalismo giunto a quella fase “suprema” (“ultima”) di sviluppo contrassegnata dal dominio del capitale finanziario monopolistico, dalla massiccia esportazione/circolazione mondiale dei capitali e dalla concorrenza per la spartizione del mercato mondiale tra i grandi gruppi di imprese che rappresentano la quota più concentrata ed internazionalizzata del capitale complessivo sociale.
Lo stadio monopolistico del capitalismo non elimina affatto la concorrenza fra i grandi gruppi della concentrazione industriale e finanziaria, semplicemente ne allarga la scala alle dimensioni dei mercati internazionali.

Nella concorrenza sul piano mondiale, i gruppi societari fortemente internazionalizzati utilizzano necessariamente lo “strumento politico” costituito dagli Stati nazionali (e dalle loro “unioni continentali” - ad es. l'UE): ad essi, i conglomerati capitalistici richiedono di centralizzare il massimo di “potenza” politica in funzione della proiezione esterna della propria propria forza economica, per acquisire o consolidare le rispettive sfere di influenza e posizioni di predominio strategico sul mercato mondiale.

È proprio qui che può individuarsi il nesso strettissimo tra la crisi che si profila sui mercati mondiali e la ridefinizione delle relazioni e degli equilibri tra le potenze imperialistiche. Le crisi sono infatti inevitabilmente anche momenti di modificazione (più o meno “traumatica”) dei rapporti di forza oggettivi tra gli Stati, cioè di spostamento e ricollocazione di porzioni di forza economica che producono (dialetticamente) adeguamenti sul piano della potenza politica e strategica: il declino “relativo” degli USA, l'ascesa poderosa di Cina ed India, il faticoso tentativo di consolidamento politico europeo (a fronte di una ormai raggiunta integrazione economico-monetaria), il riemergere della potenza russa rinvigorita dallo sfruttamento della leva energetica, l'emergere del Brasile come potenza continentale, costituiscono le “forze sotterranee” che modificano gli equilibri internazionali, provocandone la rottura (parziale o generale), e, di conseguenza, causando le guerre (commerciali o militari, locali o globali).

In altre parole, i rapporti di forza economica e di potenza politica fra gli Stati dipendono, in ultima istanza, dallo sviluppo ineguale del sistema produttivo capitalistico (del mercato mondiale) e dalle sue periodiche crisi; essi, dunque, variano e si evolvono nel corso del tempo, dando luogo al fenomeno dell'ascesa e del declino delle potenze imperialistiche.

Gli Stati capitalistici (ossia tutti quelli più rilevanti attualmente esistenti in “natura”, a prescindere dalla forma più o meno “democratica”) costituiscono l'involucro politico attraverso il quale vengono rappresentati e sintetizzati gli interessi materiali strategici e le volontà politiche “generali” dei grandi gruppi industriali-finanziari (sia privati che “pubblico-statali”), che rappresentano la parte più concentrata e rilevante delle diverse frazioni nazionali del capitale. Essi sono quindi oggettivamente gli Stati (ed i governi) del capitale “finanziario”, espressione, in prevalenza, degli interessi economici e delle “volontà politiche determinate” della parte più “forte” del capitale e della classe che lo detiene.

Si può dunque, a ragione, affermare che le attuali “democrazie capitalistiche” centralizzano e traducono politicamente gli interessi generali e strategici della classe di soggetti dominante nei rapporti economici; ciò significa che esse costituiscono la “forma” politico-giuridica migliore e più efficace, tramite la quale si esprime il fondamentale rapporto di dominio-sfruttamento esistente, sul terreno economico, tra capitale (e classe di soggetti che lo controlla, cioè la borghesia) e lavoro salariato (ovvero, in particolare e direttamente, la classe operaia e, più in generale, la classe lavoratrice), cioè tra un'esigua minoranza di “predoni” e la stragrande maggioranza della società (cfr. in questo senso, non solo Lenin, sulla stretta correlazione tra ineguale sviluppo economico e politico, ma anche lo stesso Marx, che, nel terzo libro del Capitale, individua, nella forma democratica, la “forma specifica” dello Stato capitalistico).

L'imperialismo, come attuale fase storica di sviluppo del sistema economico-sociale capitalistico, è, in sintesi, il rapporto dialettico tra l'interesse generale e comune delle varie frazioni della classe capitalistica internazionale allo sfruttamento del lavoro salariato, e gli interessi “particolari” delle diverse “frazioni nazionali” del capitale, che portano le stesse a scontrarsi (anche attraverso gli Stati ed anche con mezzi militari), per la spartizione (mediante la conquista dei mercati e la ricerca di maggiori profitti) del plusvalore mondiale prodotto dalla classe lavoratrice internazionale.
La stessa evoluzione delle forze produttive e del processo ineguale di circolazione/accumulazione internazionale del capitale, ha, correlativamente, determinato lo sviluppo della “forma politica” di tale processo dinamico, ossia dello Stato moderno del capitalismo moderno: si tratta dello Stato del “capitalismo finanziario”, cioè dell' “imperialismo” che è il capitalismo monopolistico dei grandi gruppi industriali-finanziari, prodotto concreto della tendenza “storico-naturale” alla concentrazione-centralizzazione del capitale.

Nel presente stadio di pieno sviluppo del modo di produzione complessivo del capitale, esiste infatti una pluralità di centri di potere economico, riconducibili ai vari gruppi e frazioni capitalistiche, le cui “volontà politiche” condizionate dagli “interessi materiali”, trovano una sintesi, un equilibrio dialettico ed una “centralizzazione”, nel potere politico e nella pluralità di sovrastrutture (istituzionali) politico-giuridiche in cui si articola la specifica forma democratica dello Stato capitalistico contemporaneo; il che, ovviamente, non esclude, anzi accentua, la tendenza oggettiva al particolare rafforzamento del potere esecutivo (a scapito della rappresentatività del potere legislativo), in funzione di una maggiore efficacia e rapidità delle decisioni politiche.
È pertanto evidente che l'aumento dell'entità/complessità delle funzioni dello Stato moderno deve essere posto in relazione con l'evoluzione del sistema economico e con l'obiettivo fondamentale della classe dominante di garantire, preservare e perpetuare lo stesso meccanismo economico-sociale complessivo ed il centrale rapporto di dominio gerarchico e di sfruttamento del capitale sul lavoro.

In questo nesso essenziale risiede, infatti, la funzione ineliminabile dell'intervento dello Stato capitalistico nel ciclo economico, cioè nel ciclo dell'accumulazione del capitale: lo Stato diventa un elemento fondamentale del processo generale di produzione/circolazione/accumulazione del capitale; un elemento che interagisce con la struttura economico-sociale con il ruolo prioritario di sostenere e regolare l'intero sistema, soprattutto nelle periodiche crisi recessive da sovrapproduzione.

L'intervento sempre più esteso, regolare e sistematico dello Stato e dei pubblici poteri nell'economia, in funzione anticiclica o anticrisi, trova la sua ragione ultima proprio nell'incapacità strutturale dei meccanismi del mercato capitalistico di evitare le crisi economiche.
Lo Stato capitalistico interviene dunque nel processo economico (direttamente o indirettamente) attraverso l'acquisizione del ruolo di “imprenditore” (cioè la gestione diretta di imprese a capitale pubblico che operano sul mercato, o l'acquisto di partecipazioni al capitale di imprese private), l'erogazione di finanziamenti a fondo perduto, prestiti, aiuti pubblici (ad esempio, cassa integrazione, agevolazioni fiscali, trasferimenti finanziari etc.) alle imprese private, la politica fiscale e monetaria funzionali, rispettivamente, al sostegno della domanda per consumi e investimenti ed alla stabilizzazione antinflazionistica del ciclo economico, nel contesto più generale del circuito della finanza pubblica, alimentato da un prelievo tributario gravante prevalentemente sul salario (ad esempio, circa l'80% delle risorse pubbliche derivanti dalle entrate fiscali dell'IRPEF – Imposta sul reddito delle persone fisiche -, in Italia, provengono dai redditi di lavoro dipendente).


Debito pubblico ed accumulazione capitalistica

Appare necessario, a questo punto, evidenziare il nesso strutturale esistente tra l’attuale crisi del “debito pubblico” ed il processo generale di circolazione-accumulazione capitalistica centrato sulla massimizzazione del profitto privato e lo sfruttamento del lavoro “sociale”; un processo, come si è visto, caratterizzato dalla oggettiva tendenza alla sovrapproduzione di merci ed alla sovraccumulazione di capitale, derivante dall’estorsione di enormi quote di plusvalore, prodotto dalla (e sottratto alla) classe lavoratrice, ed appropriato “indebitamente” dagli strati (socialmente minoritari e parassitari) dei proprietari-possessori di capitale.

L’emissione dei titoli del debito pubblico (cioè di titoli obbligazionari pubblici) da parte degli apparati statali-governativi, espressione organica ed immediata degli interessi “strategici” del capitale “finanziario” (frutto della “compenetrazione” di capitale bancario ed industriale), e l’acquisto (quasi totalitario o comunque nettamente maggioritario) di tali titoli ad opera dei gruppi bancari-assicurativi, che costituiscono la parte più concentrata e rilevante dello stesso capitale finanziario (italiano ed europeo), rappresentano, con ogni evidenza, un modo attraverso il quale gli stessi apparati statali capitalistici (i “Governi del capitale”) sottraggono (ulteriori) enormi quantità di ricchezza (cioè di valore prodotto “socialmente”) alle classi lavoratrici ed alle masse popolari, centralizzandole ed attribuendole direttamente a coloro che controllano i gruppi bancari, i fondi comuni di investimento ed il grande capitale industriale.

Questi ultimi soggetti “istituzionali”, infatti, avendo investito le rilevanti eccedenze di capitale accumulato negli anni, (anche) in titoli del debito pubblico, hanno correlativamente acquisito un diritto di credito “privato” ad ottenere dalla collettività sociale, oltre al rimborso del capitale, anche il pagamento di ingenti somme a titolo di interessi sul prestito (in Italia circa 160 miliardi di euro all’anno); ciò comporta che, sul piano distributivo, viene, ancora una volta, costantemente attuato (attraverso il prelievo fiscale sul lavoro, il taglio della spesa pubblica ad indirizzo sociale ed il correlato finanziamento delle spese per interessi sul debito in favore dei capitalisti) un enorme e regressivo trasferimento di reddito dal salario ai profitti ed alle rendite (finanziarie e non).

Questo, insieme con la diretta compressione/riduzione dei salari, l’aumento dello sfruttamento intensivo della forza lavoro e della disoccupazione/sottoccupazione “cronica” (definita eufemisticamente dal padronato “flessibilità”), è funzionale a consentire alle classi dominanti delle “vecchie” metropoli imperialistiche, di superare (almeno temporaneamente) la crisi di accumulazione ed il marcato calo tendenziale dei profitti medi. A danno irreversibile delle classi lavoratrici ed a vantaggio assoluto delle borghesie capitalistiche.
Il tutto avviene, operativamente, mediante i meccanismi della “finanza pubblica” (binomio entrate pubbliche fiscali e “para-fiscali”-spese pubbliche), gestiti dallo Stato-Agente del capitale al fine di diminuire drasticamente salario diretto ed indiretto o sociale (pensioni, servizi sociali e pubblici, beni “comuni” etc.) e di spostare, nella misura massima concretamente possibile, “reddito complessivo sociale” dal lavoro al capitale, cioè a profitti e rendite parassitarie dei capitalisti.

Si tratta di una gigantesca e sistematica redistribuzione regressiva di reddito e risorse economiche dalle classi sociali meno abbienti e più svantaggiate a quelle possidenti e più avvantaggiate: quanto di più iniquo ed irrazionale si possa immaginare.
Infatti, se da un lato il prelievo tributario e le correlate entrate pubbliche, gravano (in Italia) per oltre l’80 per cento sul reddito di lavoro dipendente, dall’altro, lo Stato del capitale ha, negli ultimi decenni, costantemente ed ostinatamente proceduto in direzione della riduzione netta del carico fiscale sugli utili d’impresa ed in generale sui redditi di capitale (interessi, rendite finanziarie, guadagni speculativi di capitale, dividendi ed utili azionari, plusvalenze da cessione di partecipazioni societarie, plusvalenze patrimoniali d’impresa, redditi-profitti societari etc.): quindi, si verifica e si è verificata in realtà (a dispetto di ogni grossolana – e frequente - falsificazione ideologica) una detassazione univoca e marcata, “per legge” (con esenzioni, agevolazioni, aliquote proporzionali anziché progressive, riduzioni d’imposta ed imposte sostitutive etc.), dei profitti e delle rendite capitalistiche [5], a fronte di un aumento medio del prelievo fiscale (questo si, “progressivo” cioè che aumenta più che proporzionalmente al crescere dell'imponibile) sui redditi di lavoro subordinato ed assimilati, cioè su salari, stipendi e pensioni. Peraltro, le masse popolari e gli strati sociali più deboli, vengono “regressivamente” colpiti, molto più delle ricche classi dominanti, come consumatori finali, anche dalle imposte indirette ed in particolare dall’Iva (anch’essa in costante aumento) che incide su tutti allo stesso modo senza tenere conto del reddito (ossia della ricchezza) dei singoli consumatori.
A ciò deve aggiungersi, oltre ad una “sacca” di evasione/elusione fiscale - da parte di tutti gli strati borghesi – che ha raggiunto dimensioni “patologiche” e non sostenibili anche per un sistema di tipo capitalistico, una contestuale attribuzione (per così dire, “a positivo”) di sempre maggiori risorse finanziarie pubbliche alla grande impresa privata ed al capitale bancario-assicurativo, mediante contributi e finanziamenti “a fondo perduto”, prestiti agevolati, aiuti ed elargizioni di varia natura ed entità, comprese la “cassa integrazione guadagni” erogata nell’interesse esclusivo del capitale che vuole eliminare forza-lavoro dal ciclo produttivo per aumentare i profitti. Tutto questo, come detto, viene finanziato con il prelievo tributario e para-tributario sui redditi di lavoro (formalmente o sostanzialmente) dipendente.

Il meccanismo descritto produce necessariamente un deficit “cronico” del bilancio dello Stato, ossia la costante prevalenza delle uscite sulle entrate pubbliche (differenziale che, per evidenti ragioni, aumenta in modo sensibile nelle fasi di crisi economica e di decremento occupazionale), con contestuale ricorso sistematico all’indebitamento pubblico per reperire le risorse finanziarie a copertura delle maggiori spese (oppure, più frequentemente negli ultimi tempi, limitando il ricorso ad ulteriore indebitamento e comprimendo la spesa sociale).
I titoli del debito pubblico, collocati sui mercati internazionali al pari di ogni “prodotto finanziario”, garantiscono ai possessori un tasso di interesse fisso, una rendita “sicura”; essi vengono pertanto acquistati, in grande quantità, dai soggetti che dispongono di eccedenze o surplus di capitale da valorizzare: dunque, in particolare dai grandi gruppi bancari-finanziari, insieme a quelli industriali strutturalmente integrati con i primi, che hanno accumulato, grazie soprattutto allo sfruttamento del lavoro ed ai trasferimenti di ricchezza collettiva, il surplus in questione.

Questo consente al capitale finanziario di proseguire (anche nelle fasi recessive) nella sua dinamica di accumulazione del plusvalore, a danno del lavoro: gli interessi sul debito “sovrano” dovranno, in un periodo di crisi produttiva, essere pagati dagli Stati capitalistici riducendo drasticamente le risorse finanziarie destinate ai servizi pubblici e sociali (cd. salario “indiretto”: istruzione, servizio sanitario nazionale, previdenza ed assistenza sociale, trasporti pubblici locali e nazionali, beni e servizi pubblico-collettivi in generale). Ed è quello che puntualmente si sta verificando, in modo certamente diseguale e differenziato, in Grecia, in Italia, in Spagna, in Francia, negli USA ed in tutti gli altri paesi a capitalismo “sviluppato”.
Gli “agenti-rappresentanti” del capitale finanziario-industriale fanno il loro lavoro apparentemente solo “tecnico” (in realtà essenzialmente “politico”), il grande capitale bancario-assicurativo (ma anche industriale-commerciale, strettamente connesso con il primo) “incassa” e ringrazia (in tanti modi) i suoi incaricati, i lavoratori e le masse popolari “pagano” (in tutti i sensi).

In effetti nulla di nuovo, Marx aveva ragione in pieno: la faccenda è assimilabile ad un “mandato” senza rappresentanza “espressa”; i governi del capitale sono il “comitato d’affari della borghesia”, avendo un “mandato” da parte della classe dominante ed agendo per conto e nell’interesse di quest’ultima (senza ovviamente dichiararlo apertamente).


Crisi del debito sovrano, sviluppo capitalistico ed intervento statale nell’economia

Sintetizzando il contesto complessivo analizzato, si può affermare quanto segue: l’intero processo di accumulazione capitalistica si fonda sul “plusvalore” estratto dal lavoro; esso quindi altro non è se non accumulazione di plusvalore, cioè trasformazione del valore “ulteriore” creato dal lavoro salariato (dal “proletariato”), in capitale “costante” (nelle sue varie forme), accentrato, detenuto e controllato dalla classe capitalistica, esigua minoranza sociale.

È questa, in ultima istanza, la base dell’immenso ed ingovernabile meccanismo sociale di sfruttamento che, periodicamente ma regolarmente, produce crisi di sovrapproduzione/sovraccumulazione, crescita di capitale “fittizio” (che in sostanza è capitale “cartaceo”, cioè titoli, azioni, obbligazioni private e pubbliche, moneta, contratti e rapporti speculativi etc., generati dall’espansione della circolazione finanziaria e del credito), rottura delle “bolle” speculative con inevitabili ricadute sul circuito finanziamento-produzione-distribuzione-consumo, progressiva concentrazione/centralizzazione del capitale (e del potere) nelle mani di pochi e corrispondente aumento della “massa della miseria” del proletariato mondiale.

L’attuale crisi, indubbiamente la più grave del dopoguerra, trova appunto origine nello sgonfiamento dell’economia del debito (anche “pubblico”), che si riversa sulla produzione industriale e sui servizi, a causa della conseguente restrizione del credito da parte del sistema bancario, della maggiore difficoltà di reperimento di capitali sui mercati finanziari e del connesso ulteriore calo depressivo della domanda per investimenti nonché, attraverso il correlato calo della produzione ed aumento della disoccupazione, della domanda per consumi (la cui restrizione genera, a sua volta, un'ulteriore diminuzione della produzione ed incremento della disoccupazione).

È pertanto chiaro che lo sviluppo delle funzioni dello Stato moderno deve essere posto in relazione con l’evoluzione di questo sistema economico e con l’obiettivo strategico della classe capitalistica di gestire, garantire, preservare e perpetuare lo stesso meccanismo economico-sociale complessivo di valorizzazione/accumulazione innestato sul centrale rapporto di dominio/controllo del capitale sul lavoro.
In questo nesso essenziale risiede, come detto, la funzione ineliminabile dell’intervento dello Stato capitalistico nel ciclo economico, cioè nel ciclo dell’accumulazione del capitale: lo Stato diventa un elemento fondamentale del processo generale di produzione-circolazione del capitale; un elemento che interagisce con la struttura economico-sociale con il compito prioritario e generale di sostenere, indirizzare e regolare l’intero sistema (e gli interessi delle sue classi dominanti), soprattutto nelle periodiche crisi di sovrapproduzione e sovraespansione della “sfera finanziaria”.
In questo senso specifico, il capitale (e la classe capitalistica) utilizza il “suo” Stato per scaricare i costi delle “sue” crisi sistemiche sulla classe lavoratrice, prelevando/accentrando (principalmente attraverso la leva fiscale ed i trasferimenti finanziari pubblici alle imprese private) quote consistenti di salario (o, più genericamente, di valore prodotto dal lavoro) ed attribuendole al profitto ed alla rendita.


La nazionalizzazione delle grandi imprese e delle banche sotto il controllo dei lavoratori ed il programma socialista

Dal quadro generale sopra delineato, può dunque dedursi che il nucleo centrale dello sfruttamento capitalistico sulla forza lavoro salariata è costituito dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, cioè degli strumenti necessari alla produzione materiale delle condizioni concrete fondamentali della vita individuale e collettiva: è infatti il riconoscimento giuridico-politico in capo a soggetti privati della proprietà e del controllo sui grandi capitali, ossia sui grandi mezzi di produzione (complessi aziendali, fabbriche, medie e grandi imprese, banche, grandi patrimoni etc.), che consente l'effettivo esplicarsi e riprodursi del rapporto capitale-lavoro nella sua intima essenza di rapporto sociale di dominio e di sfruttamento del primo sul secondo e che permette, in definitiva, l'appropriazione, da parte di un'esigua minoranza sociale parassitaria (la classe capitalistico-imprenditoriale che, appunto, possiede/detiene i predetti mezzi produttivi), del valore “ulteriore” (aggiuntivo) prodotto dalla classe lavoratrice internazionale nel processo economico complessivo.
L'apparato dello Stato capitalistico è la “macchina”, lo strumento politico necessario a garantire (con la “forza” centralizzata ed organizzata) l'interesse strategico della classe dei soggetti che controllano il capitale (i mezzi di produzione e la ricchezza) a preservare, mantenere e perpetuare il proprio potere e l'enorme meccanismo sociale di sfruttamento e di dominio sulla forza-lavoro salariata, nonchè di appropriazione “privata” della ricchezza collettiva.

Stando così le cose (e le cose, nella loro realtà oggettiva, stanno effettivamente così), spezzare il meccanismo di sfruttamento del lavoro significa, per la classe lavoratrice, abolire i rapporti di proprietà/appropriazione capitalistici, ossia abolire/eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione materiale complessi e concentrati, istituire su di essi una nuova forma di proprietà comune/collettiva (socialista) e superare completamente la forma giuridico-politica dello Stato capitalistico.

Occorre, in altre parole, che la maggioranza della classe lavoratrice prenda coscienza della necessità storica di “collettivizzare” sotto il proprio controllo, cioè di “socializzare” (per dirla con le parole di Marx ed Engels, di “trasferire alla società”) i grandi mezzi di produzione (le grandi e medie imprese e, soprattutto, i gruppi bancari-finanziari-assicurativi cioè il grande capitale industriale e finanziario), come primo passo per uscire dalle inevitabili e distruttive (per i lavoratori) crisi capitalistiche, nonché per iniziare a costruire un sistema economico di tipo socialista, democraticamente pianificato, più razionale e più equo.

Abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione significa, dunque, espropriare senza alcun indennizzo i capitalisti e trasferire il possesso ed il controllo delle grandi e medie aziende, delle fabbriche, delle industrie, delle imprese commerciali di rilevanti dimensioni, delle banche, delle assicurazioni, delle società finanziarie (che sfruttano il lavoro altrui, opprimono, licenziano), dalle mani degli stessi capitalisti (assoluta minoranza sociale) a tutti i lavoratori (maggioranza della società) o meglio a nuovi organi politico-istituzionali rappresentativi dei lavoratori (i Consigli) che costituiranno, coordinati territorialmente tra loro, il tessuto connettivo fondamentale del nuovo Stato dei lavoratori.
È essenziale, in questo senso, che l'espropriazione delle aziende avvenga senza indennizzo per i padroni al fine di evitare qualunque tipo di trasferimento di capitale monetario che possa riprodurre un ciclo di accumulazione privata; così come è essenziale che venga mantenuto un costante controllo operaio (attraverso i comitati di fabbrica dei lavoratori) sulla produzione aziendale (l'esempio storico è costituito, in questo senso, dalla legge sovietica sul controllo operaio del 1917).

Una nuova democrazia consiliare (basata cioè sul potere politico dei Consigli dei lavoratori, eletti solo dal popolo lavoratore e rappresentativi di tutte le masse sfruttate dal sistema capitalistico, ossia della stragrande maggioranza della attuale società) è lo strumento “istituzionale” (politico-giuridico-amministrativo) indispensabile per procedere alla costruzione di un'organizzazione economica socialista che elimini lo sfruttamento capitalistico e l'appropriazione privata del valore prodotto dalla società, ripartisca socialmente la ricchezza creata tra tutti i cittadini lavoratori secondo criteri di giustizia e razionalità, cancellando radicalmente profitto privato e rendita patrimoniale parassitaria. Ciò, conseguentemente, consentirebbe, in una dinamica progressiva, di aumentare sensibilmente le retribuzioni di tutti i lavoratori, di annullare in modo irreversibile e radicale la disoccupazione, riducendo l'orario di lavoro a parità di salario (tutti effetti diretti e, in qualche modo, “automatici” dell'eliminazione del profitto capitalistico), e di fornire/garantire, gratuitamente o a bassi prezzi “politici”, efficienti servizi pubblici diretti a garantire interessi e bisogni pubblico-collettivi di rilevanza sociale (istruzione pubblica, assistenza e cure sanitarie, trasporti pubblici, pensioni ed assistenza sociale ai disabili, agli inabili al lavoro ed ai soggetti socialmente svantaggiati, edilizia abitativa popolare dignitosa e di elevata qualità, servizi sociali e culturali, tutela dell'ambiente naturale, sicurezza del territorio, delle infrastrutture e delle persone, etc.).

Dunque, il punto essenziale è che solo l'eliminazione dei grandi profitti privati (attraverso la collettivizzazione delle grandi imprese industriali-finanziarie) e la soppressione delle grandi rendite parassitarie (mediante l'istituzione di una imposizione patrimoniale marcatamente progressiva), possono liberare enormi ricchezze (ora accaparrate da pochi soggetti) da redistribuire, secondo criteri di giustizia, all'intera società, ponendo le basi per una più civile e ragionevole/razionale convivenza collettiva.
È necessario, per questo, ripartire dall'esperienza storica e dal modello insostituibile della Rivoluzione d'Ottobre, per svilupparlo sulle sue stesse basi e migliorarlo (evitando, ovviamente, le degenerazioni ed i crimini dello stalinismo, che ha rappresentato la negazione assoluta delle stesse conquiste rivoluzionarie).

In altri termini, sul piano della oggettiva necessità storica in stretta relazione dialettica con il ruolo del Partito marxista, cioè della coscienza collettiva più avanzata della classe lavoratrice), occorre sostituire allo Stato ed al governo del capitale, strumento di oppressione e sfruttamento della stragrande maggioranza della società ad opera di (relativamente) pochi parassiti privilegiati, lo Stato ed il governo dei lavoratori, fondato sul potere politico dei Consigli/Comitati dei cittadini-lavoratori, composti da delegati-rappresentanti eletti dal popolo lavoratore [6], non privilegiati rispetto al resto della società, sempre e comunque revocabili dalle masse lavoratrici e popolari rappresentate.

Occorre sostituire al sistema capitalistico (fondato sullo sfruttamento irrazionale, “anarchico”, distruttivo di risorse sotto tutti i profili), un sistema economico-sociale completamente diverso, un sistema di produzione collettivista, socialista, democraticamente pianificato, che elimini le distorsioni del capitalismo, che costruisca progressivamente una società più razionale, più logica, più civile ed evoluta, e, quindi, più giusta ed equilibrata. I due elementi sono legati tra loro in modo indissolubile: senza Stato socialista non c'è economia socialista, senza economia socialista non c'è Stato socialista.

In sostanza, il socialismo (o “fase inferiore del comunismo”), consistente essenzialmente nell'instaurazione, sui grandi e medi mezzi/strumenti di produzione strutturati in aziende di dimensioni socialmente rilevanti, della proprietà pubblico-collettiva “socialista” riconducibile, in ultima istanza, ai lavoratori (rappresentati ed organizzati politicamente ed istituzionalmente nello Stato socialista dei Consigli del popolo lavoratore e nel suo ordinamento giuridico), non abolisce affatto integralmente il “plusvalore” (che continua inevitabilmente a costituire, nella sua accezione più ampia, il “valore ulteriore” rispetto al salario generato dal lavoro collettivo associato, combinato e complessivamente interconnesso), ma, eliminando la proprietà privata dei mezzi di produzione socialmente rilevanti (cioè la proprietà privata del capitale), sopprime totalmente e radicalmente “soltanto” il profitto privato ovvero l'appropriazione privata di tale plusvalore da parte di pochi soggetti a danno di molti. In altri termini, il socialismo riporta il capitale (“potenza sociale”, secondo la terminologia marxiana) sotto il controllo della classe lavoratrice (assoluta maggioranza sociale) e dunque sotto il controllo della società nel suo complesso, organizzata politicamente nello Stato socialista; facendo ciò esso non elimina immediatamente il rapporto di produzione capitale-lavoro, ma (attraverso la proprietà pubblico-collettiva ed il controllo socialista sul capitale stesso cioè sui grandi, concentrati e socialmente rilevanti mezzi di produzione, quindi sulle aziende di medio-grandi dimensioni e complessità nonché, ovviamente, sulle banche ed il capitale finanziario) sopprime il carattere di classe di tale rapporto ovvero sopprime lo sfruttamento e l'oppressione del capitale sul lavoro tipici del sistema capitalistico-borghese incentrato sulla proprietà privata capitalistica e sul profitto.

Nel sistema economico-sociale socialista, dunque, il valore ulteriore ed aggiuntivo prodotto dal lavoro collettivo organizzato nelle aziende “pubbliche”, per una parte viene restituito immediatamente ai lavoratori attraverso consistenti aumenti salariali e significative riduzioni di orario o tempo di lavoro, e, per la restante parte (dedotta una quota necessaria alle aziende per gli investimenti ed il ripristino degli strumenti produttivi soggetti ad usura), vene integralmente acquisito, attraverso il sistema delle entrate tributarie, dallo Stato socialista ed utilizzato per finanziare ed erogare gratuitamente tutti i servizi pubblici universali a rilevanza sociale e di interesse collettivo/generale (sistema sanitario nazionale e tutela della salute, abitazioni, istruzione, cultura, tutela ambientale, prestazioni socio-assistenziali, pensioni di anzianità e di vecchiaia, trasporti pubblici, infrastrutture, servizi di utilità pubblica in generale, ricerca scientifica e culturale etc.), garantendo pienamente ed in modo integrale i fondamentali diritti sociali universali ed il generale diritto alla dignità personale di tutti i consociati.

Si può dunque affermare che nel socialismo, da un lato, il plusvalore viene drasticamente razionalizzato e perde la sua connotazione negativa (attraverso la riduzione del tempo di lavoro e dell'intensità della prestazione lavorativa, resa possibile dallo sviluppo delle forze produttive e del progresso tecnologico, nonché attraverso aumenti salariali per i lavoratori), dall'altro e per la restante quota (che rappresenta il “valore ulteriore” rispetto ai salari che necessariamente ogni organizzazione sociale produce mediante il lavoro complessivo), lo stesso plusvalore permane ma viene “collettivizzato” cioè acquisito, mediante l'imposizione fiscale sulle aziende pubbliche, da parte dello Stato socialista e redistribuito in favore dell'intera collettività sociale secondo principi razionali di giustizia ed uguaglianza (formale/sostanziale) e sotto forma di beni e servizi pubblici di interesse generale e diretti a soddisfare tutti i bisogni individuali e collettivi dei consociati (cioè tutti i loro “diritti sociali”).

Il sistema socialista è ovviamente compatibile con la piccola proprietà personale e con le attività economico-produttive di modeste dimensioni esercitate da soggetti privati (lavoratori autonomi e piccoli imprenditori) in forma individuale o associata/collettiva (cooperativa), all'interno di un mercato controllato e limitato alla piccola produzione ed al correlato scambio di beni e servizi (si veda in proposito la politica della NEP attuata da Lenin e dai bolscevichi nei primi anni successivi alla Rivoluzione).

Sullo sfondo emerge in conclusione ciò che costituisce la causa e la premessa oggettiva necessaria di tutto ciò: la contraddizione ultima ed insanabile fra sviluppo storico delle forze produttive della società e rapporti di produzione/proprietà capitalistici; cioè l’inconciliabile contrasto, scoperto dalla scienza marxista, tra l’oggettiva e progressiva “socializzazione” della produzione e dei processi lavorativi, da un lato, ed i rapporti di appropriazione “privata”, da parte di pochi, del prodotto sociale del lavoro collettivo, dall'altro; contrasto e contraddizione antitetica che conduce, attraverso una tipica “mediazione” dialettica (logico-razionale e reale, allo stesso tempo), alla sintesi costituita dal socialismo come sistema economico-sociale superiore ed appunto più razionale, fondato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione (cioè del “capitale” inteso, per usare ancora le parole di Marx nel “Manifesto”, come “potenza sociale” da riportare sotto il controllo della intera società), sull'appropriazione collettiva del valore complessivo generato dalla forze produttive del lavoro associato e combinato (oggettivamente sviluppato in senso “socialista” dallo stesso capitalismo) e sulla egualitaria e giusta distribuzione della stessa ricchezza sociale prodotta (beni di consumo e servizi di utilità pubblica) in funzione del soddisfacimento dei bisogni individuali e generali di tutti i lavoratori e di tutti i consociati.

Ancora una volta è illuminante Lenin, in “Che cosa sono gli amici del popolo”: “Le cose vanno in modo del tutto diverso quando si giunge, grazie al capitalismo, alla socializzazione del lavoro (…). Ne risulta che nessun capitalista può fare a meno degli altri. È chiaro che il detto “ognuno per sé” non è più applicabile in nessun modo ad un simile regime: qui oramai ognuno lavora per tutti e tutti lavorano per ciascuno. (…) Tutte le produzioni si fondono in un unico processo sociale di produzione, mentre ogni produzione è diretta da un singolo capitalista, dipende dal suo arbitrio e gli dà prodotti sociali a titolo di proprietà privata. Non è forse chiaro che la forma della produzione entra in contraddizione inconciliabile con la forma dell’appropriazione? Non è forse evidente che quest’ultima non può non adattarsi alla prima, non può non divenire anch’essa sociale, cioè socialista?”.



Note

1 - Banca d’Italia, “Rapporto sulla stabilità finanziaria”, Dicembre 2010

2 - CGIL – Dipartimento delle politiche economiche, “Un’imposta sulle grandi ricchezze come imposta per il futuro”, 25 marzo 2011.

3 - Cfr. sull'argomento, V.I. Lenin, “Stato e Rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione”, Trad. it., Milano, 2003

4 - Cfr. Mandel, “Introduzione alla teoria economica marxista”, Roma, 1992

5 - In Italia, ad esempio, si è assistito negli ultimi anni ad una marcata riduzione dell'aliquota (proporzionale e non progressiva) dell'Irpeg/Ires (imposta sul reddito delle persone giuridiche/delle società, cioè l'imposta sui profitti societari) che è stata portata in poco tempo dal 37% (Irpeg nel 2000), al 36% (nel 2001/2002), al 33% (Ires dal 2004 al 2007), al 27,5% (dal 2008 al 2016), fino al 23% (aliquota che entrerà in vigore nel 2017).

6 - Quando si parla di “popolo lavoratore” come base materiale e giuridica degli organi rappresentativi della nuova “democrazia socialista”, si fa ovviamente riferimento, in senso ampio, innanzitutto alla classe lavoratrice in tutte le sue articolazioni e stratificazioni (anche “semiproletarie”), attiva e quiescente (ossia pensionata o transitoriamente disoccupata), ma anche a tutte le masse popolari sfruttate (in un sistema capitalistico), oppresse, in ogni caso svantaggiate sul piano naturale o sociale; l'esclusione dalla rappresentanza politica è pertanto limitata alle classi capitalistiche e sfruttatrici.

Mario Cermignani

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