Teoria

Imposta patrimoniale progressiva e nazionalizzazione (prima parte)

Banche e grandi imprese sotto il controllo dei lavoratori: obbiettivi imprescindibili di un governo dei lavoratori ed elementi transitori verso il socialismo

23 Luglio 2020
patrimoniale


Pubblichiamo la prima delle tre parti di un articolo che, partendo dall'analisi del fondamento dell'imposizione fiscale sul reddito e sul patrimonio, ripercorre i principi ed i concetti basilari della teoria economica marxista e descrive il ruolo e la funzione dello Stato del capitale nella sua fase imperialistica, all'interno del processo generale di produzione ed accumulazione; individua quindi gli obiettivi della nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle banche e delle grandi aziende e dell'imposta progressiva sui grandi patrimoni come elementi necessari per la transizione rivoluzionaria al socialismo ed al governo del lavoratori, inserendo lo sviluppo razionale della realtà economico-sociale complessiva verso il comunismo nel contesto dei principi del materialismo dialettico, base filosofica essenziale del marxismo.


La centralità del “fenomeno fiscale” nel processo di produzione/accumulazione del capitale: un'analisi marxista del fondamento dell'imposizione tributaria sul reddito e sul patrimonio

I concetti economico-giuridici (e dunque le definizioni giuridico-tributarie) di reddito d’impresa e reddito di lavoro dipendente (le due principali categorie di reddito fiscalmente rilevante), si incardinano sul dato strutturale rappresentato dal rapporto sociale fondamentale del modo di produzione capitalistico, ossia il rapporto “capitale-lavoro”: esso è un rapporto di produzione materiale, che assume la veste giuridica di “rapporto di proprietà” tra il soggetto (o, più precisamente, la classe di soggetti) che ha il possesso/controllo del capitale costante (mezzi o strumenti di produzione) ed il soggetto (la classe di soggetti) che dispone soltanto della propria forza-lavoro o capacità lavorativa (cioè la possiede e ne è giuridicamente “proprietario”), dovendola necessariamente vendere sul mercato, attraverso un “negozio giuridico” (cioè un contratto di lavoro avente ad oggetto lo scambio tra una prestazione lavorativa ed un salario), alla classe sociale che detiene i mezzi produttivi (e dunque controlla le imprese) ed al corrispettivo valore di scambio - o prezzo - costituito dal salario, per procurarsi i mezzi di sussistenza.

Giuridicamente (e sul piano esclusivamente “logico-formale”/astratto), dunque, il contratto (ed il correlato rapporto) di lavoro subordinato è un contratto di “scambio” tra attività lavorativa (prestazione a cui si obbliga sul piano giuridico il lavoratore) e retribuzione o salario (prestazione a cui si obbliga, sempre sul piano giuridico ed in modo reciproco rispetto alla prestazione del lavoratore, il datore di lavoro) ed è un contratto a prestazioni corrispettive o “commutativo”, cioè un contratto di “scambio” tra prestazioni reciproche ed (astrattamente) equivalenti/uguali; in esso, dunque, vige, in linea teorica ed astratta (e secondo la scienza giuridica), un principio di tendenziale equivalenza/uguaglianza, corrispondenza “sostanziale” (di tipo “concettuale”) o proporzionalità tra l'entità/valore delle prestazioni scambiate, dovendo tale strumento giuridico conformarsi ad un generale e razionale principio di “giustizia commutativa” tra le parti, che consiste nel dovere rendere una prestazione corrispondente ed uguale/equivalente a quella che si riceve.

In altri termini, le due prestazioni scambiate (lavoro e salario) trovano reciproco fondamento razionale giustificativo l'una nell'altra. Il “valore di scambio” (o prezzo) della forza-lavoro sul mercato (cioè della prestazione lavorativa offerta dalla classe lavoratrice alle imprese, o, meglio, alla classe sociale dei proprietari delle imprese) è appunto il “salario” o la retribuzione, che costituisce il reddito derivante dal lavoro subordinato e che il lavoratore riceve come controprestazione correlata alla prestazione costituita dall'attività lavorativa fornita all'impresa o, comunque, al datore di lavoro. Tale retribuzione, sotto il profilo dei principi fondamentali dell'ordinamento giuridico, dovrebbe, in ogni caso, essere proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e comunque sufficiente a garantire al lavoratore stesso un'esistenza “libera e dignitosa” (come, ad esempio, recita l'art. 36 della Costituzione italiana, una delle Costituzioni democratiche oggettivamente più avanzate sul piano sociale).
Questo nel “mondo” (razionale ed astratto) dei concetti e dei principi giuridici generali.

Il discorso però cambia radicalmente se si analizza la oggettiva e concreta realtà economico-sociale, nel contesto della quale il rapporto di produzione capitale-lavoro (all'interno di un sistema di tipo capitalistico) è inevitabilmente, nella sua intima essenza sostanziale, un rapporto di effettivo dominio/controllo del capitale stesso sulla forza-lavoro produttiva (vale a dire innanzitutto sulla classe operaia industriale) ed in generale su tutta la forza-lavoro salariata, nelle sue varie articolazioni e stratificazioni: tale dominio/controllo è finalizzato prioritariamente allo sfruttamento intensivo e prolungato della stessa forza-lavoro, funzionale all'estrazione del massimo livello di plusvalore “mediamente” possibile (valore aggiuntivo prodotto dal lavoro ed appropriato senza corrispettivo salariale dal capitalista), attraverso l'aumento della produttività/ritmi lavorativi, il prolungamento del tempo di lavoro assoluto e/o la riduzione-compressione dei salari.

È evidente che dal descritto rapporto di produzione/proprietà capitale-lavoro deriva il connesso (e speculare) rapporto di distribuzione “profitto-salario”, cioè la relazione di ripartizione quantitativa del valore complessivo realizzato nel processo produttivo sociale, tra i singoli soggetti che vi partecipano.
Sul piano economico, sono infatti redditi di lavoro subordinato tutti quelli derivanti dalla remunerazione di un’attività lavorativa prestata alle dipendenze di altri, mentre sono redditi di capitale-impresa tutti quelli derivanti dal possesso/controllo di un capitale (sia in forma di beni durevoli di produzione – complessi aziendali –, sia in forma monetaria/finanziaria, ossia sotto la forma di somme di denaro di una certa consistenza, di titoli rappresentativi di un finanziamento/credito o di quote di partecipazione al capitale di una società).
La base materiale del reddito d’impresa (vale a dire del profitto), dei redditi di capitale (interessi, dividendi/utili derivanti dalla partecipazione al capitale di società o enti – dunque, sostanzialmente, quote di profitti -, proventi comunque derivanti da rapporti aventi ad oggetto impiego di capitale, ma anche, in senso ampio, plusvalori immobiliari e finanziari, rendite e redditi di natura fondiaria e finanziaria in genere), così come del reddito di lavoro dipendente (salario), è pertanto costituita dall'unitario processo economico generale di produzione-circolazione-valorizzazione del capitale, imperniato sul centrale “meccanismo” della produzione di “plusvalore” (valore “ulteriore” riconducibile al plusprodotto generato dal lavoro collettivo o “sociale” e non attribuito alla classe lavoratrice ma alla classe dei capitalisti) e della sua continua trasformazione in capitale costante (fenomeno della accumulazione-concentrazione-appropriazione “privata” del plusvalore da parte della classe “possidente”, sotto forma prima di reddito e poi di patrimonio).

Nella imputazione dei redditi, il citato meccanismo generale viene evidentemente considerato con riferimento alla particolare fase della distribuzione individuale (e dunque tra le classi sociali) del valore complessivo prodotto dal sistema [1].
Si tratta quindi di un “meccanismo sociale” incentrato sull'appropriazione (senza alcuna controprestazione equivalente o corrispettivo) da parte della classe che ha la “proprietà privata” dei mezzi di produzione (cioè del “capitale”), del valore ulteriore (rispetto al salario) prodotto dal lavoro associato, combinato ed interdipendente (lavoro “sociale” o collettivo) cui è oggettivamente costretta, dallo sviluppo economico (cioè dallo sviluppo delle forze/capacità produttive dello stesso lavoro sociale), la classe lavoratrice. Appare pertanto chiaro che il capitale è essenzialmente costituito da valore-lavoro altrui espropriato ed accumulato e che l'intero processo di produzione capitalistica non è altro che una gigantesca “espropriazione sociale” da parte di pochi nei confronti della maggioranza della società, dunque fondamentalmente una negazione del diritto “naturale” di proprietà dell'uomo sul prodotto del proprio lavoro diretto e personale (ovviamente inserito e “dialettizzato” all'interno di un più ampio contesto sociale/collettivo) [2]. Ciò implica logicamente la profonda iniquità e non razionalità di tutte le attuali regole di distribuzione/ripartizione del prodotto sociale.

Nella predetta dinamica economico-sociale, fondata comunque sul rapporto capitale-lavoro (e, come detto, considerata nella particolare fase della distribuzione individuale del valore complessivo generato dal sistema), può rinvenirsi in ogni caso una fonte produttiva “generale” del reddito imputabile, mediante una relazione di “possesso” (vale a dire attraverso un rapporto di “distribuzione” tra profitti, interessi, rendite e salari), ai singoli soggetti (direttamente o indirettamente) coinvolti; è questa ripartizione che viene “normativamente” considerata come indice di capacità contributiva ai fini del concorso alle spese pubbliche ossia ai fini dell'imposizione fiscale sul reddito.

Riassumendo il quadro delineato, si può constatare (dall'osservazione empirica del complesso fenomeno economico-sociale) che, escludendo i redditi da attività lavorativa, tutte le categorie giuridico-tributarie fondamentali per la misurazione del “reddito imponibile” (ovvero di quella particolare capacità economica costituita dall'incremento patrimoniale imputabile soggettivamente e qualificabile come presupposto oggettivo dell'obbligazione tributaria) – e che si risolvono sostanzialmente nelle (speculari) categorie economiche del profitto industriale e commerciale (reddito d'impresa), degli interessi, degli utili/dividendi da partecipazione societaria e delle rendite finanziarie (redditi di capitale), dei “guadagni occasionali” da capitale (redditi “diversi”, tra i quali le plusvalenze patrimoniali e finanziarie assumono un ruolo centrale), della rendita fondiaria (redditi fondiari e proventi immobiliari) – rappresentano altrettante “forme modificate del plusvalore”, generato dalla forza-lavoro salariata nel processo complessivo di produzione/circolazione/accumulazione del capitale e distribuito tra le varie frazioni e strati della “classe” di soggetti che assume una posizione di sovraordinazione (“dominante” di fatto) nei rapporti economico-sociali in virtù del possesso/controllo (proprietà) del capitale stesso, in forma finanziaria, immobiliare o di mezzi materiali di produzione (aziende) [3].

Inoltre, considerando anche il valore di scambio (o prezzo) della stessa forza-lavoro (cioè il salario e, dunque, il “reddito di lavoro dipendente”) si può dire che le norme fiscali, come strumenti di “misurazione giuridica della capacità economica individuale” [4] funzionale al conseguimento delle entrate tributarie, trovano il loro fondamento sociale “strutturale” nel processo produttivo e nel “valore complessivo” da esso scaturente, con particolare riferimento alla fase della sua distribuzione tra i singoli soggetti che partecipano al processo medesimo, occupandovi una specifica posizione sociale.

La circolazione complessiva del capitale è, infatti, un fenomeno oggettivo costituito da un unico movimento circolare che passa attraverso le medesime fasi successive:
1) il primo movimento (che si verifica sul mercato) è la trasformazione di una somma di denaro (espressione monetaria di una determinata quantità di valore che deve fungere da capitale) in mezzi di produzione (capitale costante) e forza lavorativa (capitale variabile);
2) la seconda fase del movimento è rappresentata dal “processo produttivo” in senso stretto, funzionale attraverso il lavoro (organizzato nell’impresa) alla trasformazione dei mezzi di produzione in “merce” il cui valore sia più elevato del valore delle sue parti costitutive e che quindi racchiuda in sé il capitale (costante e variabile) anticipato all'inizio più una quota di “plusvalore” (valore del prodotto supplementare del lavoro subordinato, organizzato ed interdipendente);
3) la terza fase è quella della vendita sul mercato delle merci prodotte, con realizzazione effettiva dell'equivalente monetario del valore incorporato nelle merci stesse (dunque, dello stesso plusvalore).
Tale valore (in forma monetaria) dovrà, in una successione ciclica, essere nuovamente trasformato in capitale (costante e variabile), reinnescando continuamente il processo circolare di produzione/valorizzazione e ponendo le basi materiali dell'accumulazione e della concentrazione del capitale (nelle mani di una minoranza sociale di soggetti che ne detiene la “proprietà privata”) [5].

Occorre tenere presente, per capire meglio la base strutturale dell'analisi, che la forza-lavoro umana, in un sistema economico-sociale di tipo capitalistico, costituisce l'unica “merce” in grado di svolgere una duplice funzione: la conservazione di tutti i valori incorporati nei mezzi di produzione esistenti (macchinari, strumenti di lavoro, edifici, impianti, infrastrutture, etc.) e la creazione di valore “nuovo” (aggiuntivo/ulteriore), di cui il “plusvalore” (in senso stretto) rappresenta una parte. Una quota di tale valore nuovo va, in fase di distribuzione, allo stesso lavoratore subordinato per il suo mantenimento (preservazione e riproduzione della forza-lavoro); essa è rappresentata dal salario (prezzo o valore di scambio sul mercato della stessa forza lavoro o “capitale variabile”). L'altra parte costituisce appunto il “plusvalore”, ossia il valore del prodotto “supplementare” (“sovrapprodotto” rispetto al capitale variabile cioè al salario) creato dal lavoratore subordinato (o meglio dalla classe dei soggetti che vende la propria forza-lavoro sul mercato) nel tempo di lavoro “supplementare” (“pluslavoro”) ed acquisito senza corrispettivo dalla classe sociale di soggetti che detiene, possiede o controlla giuridicamente (e chiaramente “di fatto”) i mezzi di produzione (mobili ed immobili) ed il capitale finanziario (cioè, complessivamente, il “capitale costante”), nonché l'intero processo produttivo [6].

Ciò consente al capitale di realizzare mediamente il più elevato tasso di profitto possibile, nelle varie e concrete condizioni dei rapporti di forza tra le classi: il tasso di profitto (ovvero il margine di utile per l'impresa capitalistica) si pone, infatti, in rapporto di immediata e diretta correlazione con il plusvalore, inteso come valore ulteriore (il “maggior valore” rispetto ai costi dei fattori impiegati) generato dalla forza-lavoro (in particolare ed in via prevalente, dalla classe operaia) nel processo produttivo, di cui, come detto, si appropria, senza dare nulla in cambio, il capitale e la classe che lo detiene (la borghesia).

Posto dunque quanto sopra, c’è un altro punto fermo da analizzare: tutte le definizioni di “reddito imponibile” ricostruibili sulla base dell’esame delle varie norme positive che si sono stratificate nel corso del tempo, si collegano al concetto economico-giuridico di patrimonio e, in sostanza, concordano nel ritenere che il reddito assunto ad oggetto dell’imposta relativa consiste in un incremento (o “accrescimento”) del patrimonio, attribuibile ad un determinato soggetto con riferimento ad un intervallo temporale definito, e concepibile solo in termini di “valore” economico (dunque, misurabile in denaro, equivalente monetario del valore).
Tale “accrescimento” implica quindi una “quantità di valore” ulteriore (reddito) che si aggiunge al patrimonio originario (cioè all'insieme “statico” dei diritti proprietari e di credito e dunque, in sostanza, al “capitale” nel senso più ampio), posseduto dal soggetto all’inizio del periodo di riferimento dell’imposta, incrementandolo.
Peraltro, specularmente, deve evidenziarsi come il patrimonio sia a sua volta costituito dall'accumulazione/stratificazione/concentrazione di redditi nel corso del tempo.

Vi è dunque, in sintesi, una strettissima correlazione dialettica tra il concetto economico-giuridico di reddito e quello di patrimonio in quanto essi rappresentano razionalmente le caratteristiche essenziali dello stesso fenomeno sociale, rispettivamente dal punto di vista dinamico (il reddito) e da quello statico (il patrimonio).
È comunque necessario precisare che il reddito, come fenomeno economico-sociale “naturale” (e perciò “reale” nella sua materialità), costituito essenzialmente da accrescimenti di valore dei beni capitali, non può mai essere frutto diretto, necessario ed esclusivo di una sola causa, scaturendo piuttosto da un complesso di fattori concorrenti, anche tra loro apparentemente indipendenti (che in realtà si intersecano ed influenzano reciprocamente in modo “dialettico”).

La molteplicità di cause può però ricondursi, in sostanza, a quella che rappresenta l’unica (ed ultima) base materiale (o fonte produttiva) di tutte le categorie reddituali previste dalla normativa tributaria; tale base, come si è illustrato, è costituita dal processo economico generale/unitario di circolazione-valorizzazione del capitale, incardinato sul centrale meccanismo della produzione di “valore” e di “plusvalore” (cioè di valore “aggiuntivo” riferibile al “plusprodotto” generato dal “lavoro collettivo” o “lavoro complessivo sociale” organizzato soprattutto nelle strutture produttive aziendali di dimensioni medio-grandi) e della sua continua trasformazione-accumulazione (attraverso la fase “distributiva”) in capitale costante cioè, in definitiva, in “patrimonio”, posseduto e controllato dalla classe dei “proprietari” e costituito essenzialmente da immobili, attività finanziarie/monetarie e “aziende” (capitale “produttivo” in senso stretto), tutti elementi patrimoniali suscettibili di produrre redditi [7].
Nel descritto processo economico-sociale, innestato sul rapporto capitale-lavoro (e considerato nella particolare fase della distribuzione individuale del valore complessivo generato dal sistema), può dunque essere individuata, in ogni caso, la fonte produttiva “generale” non solo del reddito imputabile, mediante una relazione di “possesso” (e dunque attraverso un rapporto di “distribuzione” tra profitti, interessi, rendite e salari), ai singoli soggetti (direttamente o indirettamente) coinvolti, ma anche del patrimonio/capitale ripartito/distribuito ed accumulato (in modo ineguale) tra soggetti (la minoranza sociale) che ne hanno la “proprietà” e soggetti (maggioranza sociale) che ne sono privi (del tutto o quasi).


La produzione capitalistica ed il processo di accumulazione/concentrazione del capitale/patrimonio

In termini matematici, quanto affermato è traducibile nella seguente formula che indica il “saggio di profitto” capitalistico: pr = pl/C+V; ciò significa che il saggio di profitto (pr) è uguale al rapporto tra il plusvalore (pl) e l'insieme del capitale (capitale costante C più capitale variabile V); esso dunque è direttamente proporzionale al plusvalore ed inversamente proporzionale al capitale variabile (il salario). La predetta equazione implica la formula che esprime il saggio di plusvalore (ossia il saggio di sfruttamento della classe lavoratrice): pl/V. Essa descrive il rapporto tra il plusvalore ed il salario (il capitale variabile V) ed indica il “modo in cui il valore nuovo si distribuisce tra capitalisti ed operai” [8].

Tutta la produzione capitalistica può dunque rappresentarsi nel seguente schema concettuale: C+V+pl, in cui C è il “capitale costante”, cioè il capitale trasformato in macchine, strumenti di produzione, edifici, impianti, mezzi monetari (equivalenti del valore prodotto ed accumulato) etc.; V è il “capitale variabile” ossia quella parte del capitale monetario utilizzata per acquistare la forza-lavoro salariata (si tratta dunque del complesso delle retribuzioni per prestazioni di lavoro subordinato o “salario”), unico elemento che produce “valore nuovo”, che consente il processo di accumulazione e che permette al capitalista di aumentare il proprio capitale attraverso la realizzazione e l'appropriazione del plusvalore (pl) (sotto forma di profitto conseguente allo scambio/vendita sul mercato delle merci prodotte).

La logica economica di tutto il sistema capitalistico è dunque quella della concorrenza tra i soggetti economici sul mercato e del connesso impulso all'aumento della produttività del lavoro (rapporto tra la quantità di prodotto e la quantità di tempo di lavoro “socialmente necessario” alla produzione) mediante lo sviluppo/perfezionamento della tecnologia (mezzi meccanici strumentali alla produzione).
Di conseguenza il sistema, nel suo complesso, tende all'incremento costante della produzione di merci (beni e servizi) e della quantità complessiva di plusvalore da realizzare/accumulare attraverso il profitto; è un andamento fondamentalmente espansivo che ha come effetto l'aumento della cd. “composizione organica del capitale” (che è il rapporto tra il capitale costante ed il complesso del capitale C/C+V), ossia l'accrescimento del peso quantitativo del capitale costante C (in progressiva accumulazione) rispetto all'insieme del capitale, con l'ulteriore conseguenza di generare il fenomeno della tendenziale riduzione del saggio medio di profitto, posto che se, nella frazione pr = pl/C+V, aumenta C, il valore della frazione stessa si riduce.

Detta riduzione tendenziale del saggio medio di profitto obbliga i capitalisti (al fine di mantenere invariato lo stesso saggio di profitto pl/C+V) ad aumentare il saggio di plusvalore (il tasso di sfruttamento della classe operaia) pl/V, incrementando l'estrazione di plusvalore (assoluto e relativo) e/o riducendo i salari.
L'operazione fondamentale dell'economia capitalistica è quindi la produzione di plusvalore; la realizzazione effettiva del plusvalore attraverso lo scambio sul mercato delle merci prodotte (il cui effetto sul piano distributivo è rappresentato dal profitto privato del capitalista), consente l'accumulazione del capitale, ossia la trasformazione in capitale supplementare (o, con terminologia giuridica, in “patrimonio” privato) di una parte del plusvalore generato dal lavoro collettivo subordinato e appropriato senza corrispettivo dalla classe capitalistica (mentre un'altra parte – relativamente minore - dello stesso plusvalore viene consumata improduttivamente sempre dalla classe dominante): l'accumulazione o valorizzazione del capitale si identifica pertanto con il processo di capitalizzazione del plusvalore prodotto dal lavoro, cioè con il processo circolare di trasformazione in capitale (aziende, edifici, macchine, infrastrutture, ulteriore patrimonio aggiuntivo ed altra forza-lavoro) di gran parte del plusvalore (cioè del lavoro non pagato alla classe lavoratrice e tradotto in proprietà privata dei capitalisti).

Lo stesso aumento della composizione organica del capitale costituisce quindi un effetto del processo di capitalizzazione/accumulazione, cioè, come si è visto, di produzione di plusvalore da parte della classe operaia e della sua trasformazione in capitale/patrimonio posseduto dalla classe socialmente dominante [9].
Un ulteriore effetto tipico del processo di accumulazione del capitale (e dell'aumento della sua composizione organica) è, attraverso la concorrenza tra capitalisti, quello della concentrazione/centralizzazione dello stesso capitale sotto il controllo di un numero sempre più ristretto di soggetti (con corrispondente aumento della proletarizzazione di ampi settori sociali intermedi e trasformazione di un rilevante numero di piccoli e medi imprenditori indipendenti e di lavoratori autonomi in lavoratori formalmente e/o sostanzialmente subordinati) e della formazione di grandi gruppi industriali-finanziari oligopolistici o monopolistici.

Si assiste dunque ad una fase di sviluppo del sistema economico-sociale (quella attualmente ancora in corso), in cui si ha la piena conferma del più ampio processo (previsto da Marx ed analizzato poi da Lenin ne “L'imperialismo fase suprema del capitalismo”, scritto nel 1916) di concentrazione/centralizzazione del capitale, della connessa compenetrazione tra capitale industriale e capitale bancario/creditizio (attraverso rapporti di partecipazione societaria reciproca e diffusi/permanenti rapporti di debito-credito), della formazione di grandi gruppi economico-finanziari (cd.“conglomerati” finanziari) operanti sui mercati internazionali delle merci e soprattutto dei capitali, della “finanziarizzazione” dell'economia mondiale (ossia del fenomeno dell'esportazione dei capitali, della “sovraespansione” della sfera finanziaria del sistema economico e dell'accentuazione dei tratti spiccatamente finanziari delle stesse imprese industriali), nonché dei riflessi immediati di tutti i predetti fattori oggettivi sul settore propriamente produttivo deputato alla generazione di plusvalore.

In termini più generali, banche, gruppi finanziari ed assicurativi, società di gestione del risparmio, fondi comuni di investimento, fondi “speculativi”, fondi pensione, fondi “sovrani” (o statali) sono, nell'attuale fase di sviluppo del sistema economico, i veri protagonisti di questo enorme meccanismo di centralizzazione: essi raccolgono i capitali da privati, imprese ed anche enti pubblici o istituzioni statali, li accentrano e li convogliano in investimenti azionari, obbligazionari, immobiliari, in strumenti e contratti finanziari di vario genere, agendo su tutti i mercati mondiali (finanziari e non).

Si tratta in sostanza di una fase di marcata “finanziarizzazione del capitale”, caratterizzata dall'enorme sviluppo dei mercati dei capitali, dall'incremento rilevante delle attività finanziarie (investimenti, anche – e soprattutto - puramente speculativi, in titoli, azioni, obbligazioni, prodotti finanziari derivati da tali titoli e strutturati su di essi, etc.) e dall'acquisizione di una crescente autonomia “egemonica” sovranazionale da parte dello stesso capitale finanziario (costituito proprio dalla connessione tra capitale industriale e capitale bancario/monetario) sul capitale propriamente produttivo.


Le crisi capitalistiche come crisi di sovrapproduzione di merci e di sovraccumulazione di capitale

La descritta tendenza (espansiva) del sistema economico capitalistico alla produzione illimitata di merci (beni e servizi, ossia “valori di scambio”) e la ricerca costante (ed “anarchica”) della massimizzazione del profitto privato, genera inevitabilmente (oggettivamente) le cicliche crisi di sovrapproduzione, dovute appunto all'eccesso di produzione rispetto alla capacità di assorbimento della domanda di mercato (saturazione del consumo solvibile), con l'effetto immediato della mancata realizzazione del plusvalore incorporato nelle stesse merci, del calo dei margini di profitto e della successiva (e conseguente) interruzione (o rallentamento) dello stesso processo generale di produzione ed accumulazione del capitale; da ciò deriva il marcato calo degli investimenti produttivi, l'aumento della disoccupazione (e della miseria sociale generalizzata con la creazione di un sempre più vasto “esercito industriale di riserva” composto da forza-lavoro inoccupata o sottoccupata) e l'ulteriore calo recessivo della capacità complessiva di consumo e della domanda aggregata.

Le crisi del sistema sono dunque determinate da sovrapproduzione di valori di scambio e sovraccumulazione di capitale: si tratta, nella sostanza, di enormi quantità di capitale “eccedente” (accumulato in eccesso) che non trovano occasione di valorizzazione nei settori produttivi (ossia non trovano concrete possibilità di investimento che possano generare profitto attraverso lo sfruttamento “produttivo” del lavoro e quindi attraverso l'estrazione di plusvalore, reinnescando la dinamica dell'accumulazione).

La diminuzione tendenziale del saggio di profitto (che nelle fasi di crisi subisce indubbiamente un'accelerazione) e la descritta sovraccumulazione di capitale (che appunto genera ingenti “surplus” di capitale monetario non reinserito nel processo produttivo di circolazione/valorizzazione) costringono il capitale stesso a cercare nuovi “sbocchi” (nella sfera finanziario-speculativa, nei nuovi mercati, nello sviluppo capitalistico di nuove aree geografiche, in nuovi settori economici etc.) potenzialmente funzionali ad una sua ulteriore valorizzazione (nel caso di valorizzazione fittizia, tramite speculazione finanziaria, un capitale si accresce a scapito degli altri, ma l'accumulazione generale non aumenta di un centesimo) [10].

Il fenomeno, quindi, rappresenta l'effetto normale dello sviluppo economico capitalistico ed è generato direttamente dal processo di riproduzione ed accumulazione, che determina ciclicamente “eccedenze” (o “surplus”) di capitale, le quali vengono “valorizzate” dai soggetti detentori (in ragione dei fisiologici cali di redditività degli investimenti nei settori propriamente industriali) soprattutto nel “segmento” finanziario, cioè sui mercati finanziari internazionali (nel più ampio quadro oggettivo dell'esportazione/circolazione dei capitali a livello mondiale).

Questo comporta indubbiamente un notevole impulso alla progressiva compenetrazione ed interdipendenza tra capitale industriale e capitale bancario-assicurativo, un maggior rilievo (quantitativo e qualitativo) dei connotati e degli elementi (“assets”) finanziari del patrimonio dei gruppi industriali-commerciali ed una sempre più stretta interconnessione tra attività produttive ed attività finanziarie: non esistono infatti attualmente separazioni nette tra gruppi di imprese industriali e/o commerciali e gruppi finanziari/bancari (e, quindi, tra percettori di profitti e percettori di interessi/rendite/plusvalenze finanziarie); i gruppi capitalistici più concentrati e più forti (ma anche, in una certa misura, i gruppi di media dimensione) operano costantemente sui mercati finanziari, acquisendo titoli societari partecipativi, titoli obbligazionari (privati e pubblici), investendo in generale in tutte le attività e gli strumenti finanziari ed intervenendo sui mercati dei cambi valutari [11].

Si è parlato, a ragione, di un “regime di accumulazione finanziarizzata mondiale” [12], che orienta lo sviluppo del capitalismo determinandone le condizioni di finanziamento [13].
Nel concreto, lo sviluppo capitalistico asiatico, ed in particolare la poderosa crescita, nell'ultimo quindicennio, della potenza industriale e commerciale cinese, trainata dall'esportazione di merci a basso costo e da cambi sottovalutati (ma fondamentalmente generata dallo sfruttamento intensivo di un enorme serbatoio di forza-lavoro salariata, strappata all'arretratezza delle campagne e trascinata nella modernità delle fabbriche capitalistiche), ha prodotto un enorme sovraccumulazione di plusvalore e corrispondenti flussi di capitali “eccedenti” in uscita, da riciclare ed investire prevalentemente nella metropoli imperialistica statunitense, la cui industria dei servizi finanziari (grandi banche, Borsa, fondi comuni di investimento e società di gestione del risparmio – che svolgono la funzione strategica di raccolta dei capitali al fine di concentrarli ed impiegarli in valori mobiliari, titoli e strumenti finanziari o immobiliari) garantiva la migliore capacità tecnico-oganizzativa di gestione ed allocazione degli stessi flussi sui mercati.

Ma i predetti flussi di capitale (o di risparmio, cioè il cd. “saving glut”) provenienti dalle economie emergenti, sono stati talmente consistenti da non trovare collocazione e rendimenti adeguati nel solo investimento produttivo, “tracimando” quindi negli investimenti puramente speculativi, che hanno generato una “bolla” (ossia un crescita abnorme e fittizia dei prezzi/valori di scambio) nei settori finanziario ed immobiliare.

In altri termini, l'esportazione di capitali provenienti dall'Asia (oltre che dalle economie della rendita petrolifera arabo-mediorientale) e riciclati (soprattutto attraverso i “fondi sovrani” di quei paesi) nelle piazze finanziarie di New York e Londra, ha alimentato il credito facile e l' “innovazione” finanziaria, che, a sua volta, ha costruito (mediante soprattutto gli strumenti finanziari derivati fondati su titoli di credito inesigibili o deteriorati) la piramide del “capitale fittizio” e gonfiato la bolla immobiliare-finanziaria.

In tale ottica, è evidente che non può esistere alcuna separazione fra “sfera finanziaria” e “sfera produttiva” del processo complessivo di circolazione del capitale, poiché la prima dipende direttamente (e dialetticamente) dalla seconda; in modo speculare, trattandosi appunto di parti interconnesse di un fenomeno economico-sociale unitario, gli effetti della crisi (e della “rottura” inevitabile delle bolle speculative) nel segmento finanziario-creditizio non possono non ripercuotersi ed estendersi (come in effetti si è verificato) al complesso dell'economia “reale” (ossia, attraverso l'aumento delle insolvenze e la conseguente drastica restrizione del credito, alla produzione ed al consumo, non solo americani o inglesi ma, ovviamente, mondiali).

Si tratta cioè di una crisi delle condizioni e dei meccanismi globali di creazione del credito e di valorizzazione complessiva del capitale, generata in ultima istanza dallo sviluppo “ineguale” (differenziato per aree geografiche e settori economici) del sistema economico capitalistico e del mercato mondiale, che si trasforma, con i riflessi del rallentamento americano ed europeo sulla crescita asiatica, in una vera e propria crisi del ciclo internazionale, con una ampia caduta generale di investimenti, consumi e produzione.



NOTE

1 Per un approfondimento dell’analisi economica, cfr. Marx, “Introduzione alla critica dell’economia politica”, 1857; Id., “Per la critica dell’economia politica”, 1859; Id, “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, 1857; Id., “Il Capitale”. Libro primo, 1867, ed. it., Roma, 1974

2 Cfr. Marx-Engels, “Il Manifesto del Partito Comunista”, cap. II, “Proletari e Comunisti”, ed. it., Milano, 1978

3 Cfr. K.Marx, “Il Capitale” cit.

4 L'espressione è di R. Lupi, Diritto tributario, Parte speciale, Milano, 2007

5 K. Marx, “Il Capitale. Critica dell'economia politica”. Libro I, 1867, ed it., Roma, 1974

6 K. Marx, “Il Capitale”, Libro primo cit.; E. Mandel, “Introduzione alla teoria economica marxista”, ed. it., Roma, 1992.

7 Si rinvia ancora a K. Marx, “Introduzione alla critica dell’economia politica”, 1857; Id., “Per la critica dell’economia politica”, 1859; Id, “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, 1857; Id., “Il Capitale”. Libro primo, 1867, ed. it., Roma, 1974

8 Cfr. E. Mandel, “Introduzione alla teoria economica marxista”, Roma, 1992

9 E. Mandel, “Introduzione alla teoria economica marxista”, Roma, p. 52 ss.

10 Cfr. Lucas, “Crolli, investimenti e propensioni imperialiste nella Cina capitalista”, in Unità di classe – Giornale comunista dei lavoratori, ottobre 2015

11 Maitan L., “Finanziarizzazione del capitale: causa o effetto?” in “Tempeste nell'economia mondiale”, Roma, 1998

12 Chesnais F., “La mondializzazione finanziaria”, 1996

13 Aglietta M., “Macroeconomia finanziaria”, 1995

Mario Cermignani

CONDIVIDI

FONTE