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1970-2020, la lezione dei moti di Reggio Calabria

14 Luglio 2020

Un'iniziativa del PCL in Calabria sui moti di Reggio

reggio70


I moti di Reggio Calabria furono uno snodo significativo della storia italiana. Il dibattito che oggi si sta sviluppando è paralizzato dalla riproposizione banale di posizioni che, da un lato, si presentano come una rivolta di popolo contro un ceto politico prevaricatore guidata dai “boia chi molla” e, dall’altro, rivendicano al gruppo dirigente del PCI il “merito” di avere garantito la stabilità delle istituzioni. In questi termini si perde, in maniera interessata, l’occasione di una riflessione adeguata.

Su questi problemi la Commissione meridionale del Partito Comunista dei Lavoratori ha, invece, promosso una conferenza che ha discusso aspetti essenziali sui quali riflettere per farne tesoro in questo momento cruciale.
Nel clima di omologazione oggi imperante va indubbiamente rilevata la scarsa attenzione che gli organi di informazione hanno riservato all’iniziativa. Essa è partita dalla lucida ricostruzione dei fatti sviluppata dal compagno Brunetti, all’epoca segretario regionale del PSIUP, che è partito dal riferimento generale al contesto italiano.

Negli anni seguiti alla nascita del centrosinistra, la società meridionale vide lo sviluppo di mobilitazioni di massa di grande rilievo condotte da lavoratori, contadini e da settori importanti delle giovani generazioni. Dopo la repressione delle lotte per la riforma agraria, stroncate nel dopoguerra dalle stragi di Melissa, e il consolidamento di un blocco reazionario e mafioso nel Sud, le masse finalmente tornavano in campo.
Ciò accadeva anche nella città di Reggio Calabria, con ferrovieri, studenti, ampi settori di un proletariato cresciuto con lo sviluppo demografico e l’inurbamento di migliaia di lavoratori che si stavano mobilitando contro emarginazione e sfruttamento.
La mobilitazione toccava aspetti di grande significato, come l’opposizione all’imperialismo, l’occupazione delle scuole, il riconoscimento dei diritti del lavoro.
C’era, in altri termini, la possibilità di costruire un grande movimento che unisse la società meridionale alle masse del Nord e alle loro lotte.
Il malessere del Sud emergeva con la manifestazione di bisogni di massa che talvolta venivano espressi anche con elementi di confusione. Quando questo malessere si incrociò con la scelta del capoluogo regionale, la sinistra avrebbe dovuto essere presente nella società con una proposta che giocasse al rialzo e ponesse al centro la necessità di spezzare l’ordine sociale sulle questioni del lavoro, della mafia, e che parlasse con la voce dell’anticapitalismo; se ciò fosse avvenuto, le masse di Reggio Calabria non sarebbero state consegnate all’egemonia della destra.

Il gruppo dirigente del PCI fece totalmente altro, con una scelta che rimuoveva le indicazioni di Gramsci e cancellava il compito di unire le masse di tutto il paese, per privilegiare invece il suo ruolo di forza politica nazionale che garantisse la tenuta dell’ordine sociale e la stabilità delle istituzioni borghesi.
Le posizioni del PSIUP calabrese, che si muovevano su una prospettiva radicalmente diversa e di classe, furono pesantemente attaccate come irresponsabili e costrette all’isolamento, anche con la complicità del gruppo dirigente nazionale dello stesso PSIUP.
Posizioni che furono ben altra cosa rispetto a quelle prodotte in maniera estemporanea da esponenti di Lotta Continua.
A ben considerare, la posizione assunta dal PCI era in stretta continuità con la linea imposta al partito da Togliatti e da tutto il gruppo dirigente staliniano con la svolta di Salerno.
La sconfitta sui fatti di Reggio, che il responsabile meridionale del PCI Gerardo Chiaromonte classificò come “una ragazzata di quattro teppisti”, portò conseguenze pesanti, con il definitivo arroccamento del PCI al governismo e alla collaborazione di classe. Tutto ciò con conseguenze che ricadono fino ad oggi, momento in cui globalizzazione e imperialismo producono, anche per la crisi del movimento operaio, una miseria più grande e nuovi spaventosi sviluppi.

Cinquanta anni dopo i moti si evidenzia come la Caporetto della sinistra governista, che è durata nel tempo, ha contribuito a una crisi generale gravissima.
Nel suo quadro si collocano la situazione di un’area mediterranea sempre più povera e uno sconvolgimento che tocca aree geografiche e sociali sempre più grandi.
La speranza che l’Europa degli imperialisti possa produrre un riequilibrio è solo una pia illusione. Solo un’Europa diversa basata sull’unione dei lavoratori del vecchio continente e delle masse dei paesi poveri costrette all’immigrazione può invertire la rotta. La proposta di un piano per il nuovo lavoro e un’economia non più fondata sul capitalismo è di fondamentale importanza.

Altri aspetti sono stati puntualizzati dal compagno Pino Siclari, coordinatore della Commissione meridionale del PCL. La cecità delle burocrazie politiche e sindacali e il loro naufragio sui fatti di Reggio emersero anche con la sottovalutazione del problema del capoluogo inserita nella riforma che al momento del varo della Costituzione introduceva l’ordinamento regionale. Essi avevano tutto il tempo per disinnescare questa mina vagante e per evitare tutte le sue catastrofiche conseguenze sulla realtà sociale calabrese. Le scelte adottate dal PCI diedero spazio all’egemonia reazionaria e consentirono alla destra di costruire un blocco sociale contrapposto al movimento operaio e collaterale, se non collegato, alla strategia della tensione e delle stragi.
L’errore proseguì nel tempo; ancor prima del governo Andreotti, in Calabria si costituì una maggioranza regionale allargata al PCI.
Poi il compromesso storico, la svolta dell’EUR con i sacrifici che, imposti nel sacro nome dello sviluppo del Sud, avrebbero penalizzato ulteriormente le masse meridionali.
E poi ancora la mutazione dell’identità esteriore del PCI e la sua inequivoca collocazione nel campo delle forze borghesi con la nascita del PDS e dei DS.
Infine una considerazione sul lascito culturale dell’egemonia reazionaria: la protesta contro i misfatti dei “politici”.
L’odierna “antipolitica” non può essere considerata una proiezione di quel delirio "rivoluzionario" che oggi si ripropone con Grillo e Salvini?
In questo momento di emergenza, a una sinistra più debole e mal messa si ripropone lo stesso dilemma di allora: o essere l’elemento di garanzia per il mondo di lorsignori o parlare il linguaggio della rivoluzione.

Altri interventi, come quelli dei compagni Demetrio Cutrupi e Antonio Messineo, hanno puntualizzato la responsabilità di quei gruppi dirigenti che lasciarono campo aperto alla destra e resero ancor più esplicito l’abbandono delle categorie politiche di Antonio Gramsci. Quelle categorie politiche che invece la conferenza del PCL ha rimesso al centro, e con le quali ha letto i moti di Reggio, rendendo la loro lezione utile sul terreno della prospettiva politica nel nome e per conto dell’interesse dei lavoratori.
L’iniziativa si è conclusa con l’annuncio di una prossima sessione degli "itinerari gramsciani” dedicata ai moti di Reggio e con l’indicazione di un’assemblea meridionale della sinistra di opposizione da tenersi nei mesi a venire.

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione meridionale

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