Dalle sezioni del PCL

Dello stupro, della borghesia, dell’anticomunismo

Sul caso del "Centro stupri" a Lignano Sabbiadoro (Udine)

14 Luglio 2020

L’indagine giudiziaria non potrà mai evidenziare quella commistione politico-sessista nella vicenda del “Centro stupri”, ideato da un gruppo di eredi di famiglie borghesi

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“Comunisti di merda!”. Ricorrevano a questa frase gli organizzatori friulani di quell’iniziativa (o attività?) denominata “Centro stupri” – e mediaticamente popolarizzata da essi stessi attraverso l’esposizione delle t-shirt “di ordinanza” – per difenderne la legittimità.

Questi individui, infatti, mettevano la cosa subito in chiaro meglio di qualsiasi sociologo accademico chiamato in causa su questa storia. Grazie a quel pragmatismo imprenditoriale acquisito dall’antropologia padronale che li ha forgiati, individuavano nel comunismo un nemico del loro richiamo allo stupro. Per loro, dunque, chi critica l’iniziativa del “Centro stupri” è un “comunista di merda”.
Così facendo, Alberto Dall’Ava e gli altri eredi di ricchi imprenditori sigillavano dentro una cornice politica il loro progetto mediatico. Da questo siamo legittimati a considerarli alla stregua di militanti politici. Ma dopo tutto, essendo il rapporto sessuale uomo-donna un rapporto informato dai rapporti sociali storicamente esistenti (e vale per ogni relazione di tipo sessuale), possiamo davvero restare sorpresi da questo richiamo antinomico? Possiamo davvero restare sorpresi dal fatto che questi giovani borghesi identifichino la resistenza allo stupro con la lotta comunista? Per dei figli di capitalisti come sarebbe possibile, del resto, distinguere, sul piano sostanziale, l’avere disponibilità del corpo sessuale femminile dall’avere disponibilità del corpo lavorativo di salariate subordinate alla proprietà capitalista? Per essi la logica non è contraddittoria. Dal loro punto di vista di classe borghese, se il comunismo combatte il capitale per liberare il lavoro (che è fornito da corpi, in quanto risorsa naturale), è chiaro che il comunismo combatte il capitale anche per liberare il corpo femminile dal suo utilizzo subalterno finalizzato a soddisfazioni genitali maschili.

La presenza di alcune giovani donne nella serata di “gala” dedicata al lancio del “Centro stupri” in quella discoteca di Lignano conferma la natura politico-ideologica dell’iniziativa. L’identificazione con gli interessi della parte avversa è tipicamente l’esito della presenza dell’humus ideologico alienante e manipolatore che forma falsa coscienza. Quanti proletari votano per partiti borghesi e persino fascisti, contro il proprio interesse di classe? Oggi, la stragrande maggioranza. Quante donne subordinano la definizione della propria soggettività all’accettazione dell’interesse maschile che riescono a suscitare? Qui si entra a gamba tesa nella questione della tolleranza della violenza patriarcale nelle relazioni di coppia e in ambito familiare. Così le ragazze presenti alla festa del “Centro stupri” tolleravano, o anche vi partecipavano convinte, l’esposizione sui social delle t-shirt incriminate pur di vedersi garantire l’accettazione della propria presenza in quella compagnia. Siamo, quindi, di fronte ad una subcultura che è radicata ideologicamente nel gruppo in questione, e come tale, quest’ultimo non può essere ridotto semplicemente a una infelice sorgente goliardica.


BORGHESIA, SESSISMO E LIBERTÀ DI STAMPA

L’episodio, al di là dell’aspetto cronachistico e giudiziario (sono otto gli iscritti nel registro degli indagati della procura di Udine, ma si parla di un aumento del numero), ha messo in evidenza questioni ben più significative sul piano delle relazioni sociali e la loro gerarchia di classe: da un lato il carattere espressamente ideologico dell’iniziativa di questi futuri “datori di lavoro” (di cui abbiamo richiamato l’essenza nelle righe precedenti), e dall’altra parte il potere di classe insito nel peso delle loro famiglie sull’apparato informativo regionale. Giornaliste del "Messaggero Veneto" di Udine (gruppo GEDI) non sono "riuscite" a scrivere i nominativi dei protagonisti per oltre una settimana. Di più: nemmeno Pina Rifiorati, che presiede il comitato Pari opportunità dell’Ordine degli avvocati udinesi, è riuscita a pronunciare un nominativo delle famiglie in questione, quando intervistata dal quotidiano citato. E il blocco informativo ha raggiunto persino la redazione del TG3 RAI di Trieste. Ma ne riparleremo tra poco. Ricordiamo, per onestà intellettuale, che i loro nomi sono apparsi per la prima volta su Tpi.it sin dal 23 giugno: Alberto Dall’Ava, Francesco Diasparra, Matteo Ciotti (che non indossava la t-shirt sponsorizzata “Centro stupri”, ma che a tale nome ha prenotato il tavolo al Kursaal di Lignano, e che su Twitter si rivela elettore di Salvini, e al quale piace scrivere “comunisti di merda”), Luca Cristofoli, Giacomo Luvisoni, Giovanni e Giacomo Minini, Gianluca Vidoni, Andrea Zovatto.

Ma vediamo l’identikit di classe borghese di alcuni di loro. Cominciando da quello che da più parti vedono come l’ispiratore del progetto: Alberto Dall’Ava.
È il figlio di Carlo Alberto Dall’Ava, azionista di maggioranza del gruppo dell’industria della carne DOK Dall’Ava di San Daniele del Friuli. Un assetto societario costruito anche con l’intervento di Friulia SPA, la finanziaria della Regione. Il gruppo esporta i suoi prosciutti sino in Giappone, e gli è stato dedicato da “Repubblica” un articolo dettagliato il 13 maggio 2019, a firma di Stefano Pesce, in occasione dell’edizione di Tuttofood a Milano.
Ma Carlo Dall’Ava, oltre che referente regionale per l’industria alimentare di Confapi, nonché presidente di FIPE-Confcommercio di Udine, è stato per cinque anni console onorario della Federazione Russa. Lo stesso Alberto sta per aprire un locale a pochi passi dal municipio di Udine, in pieno centro storico: chissà se ci saranno reazioni del sindaco leghista Fontanini (e dell’assessora alle Pari opportunità, pure leghista, Asia Elisa Battaglia) rispetto a questa “promozione turistica” direttamente in loco nella piazza del Lionello.
Francesco Diasparra è figlio di uno dei soci della holding immobiliare Ferret RE e già partner del Gruppo Sisal attraverso Friulgames di Tavagnacco. Ferret RE, attiva in tutto il Nord, negli ultimi tempi si è fatta notare per una serie di acquisti che vanno dal capoluogo friulano sino a Trieste, comprendente lotti importanti come l’Hotel Europa nella zona della stazione ferroviaria udinese, facente parte di un piano che punta all’intero comprensorio. Tramite la Paco SRL ha nel patrimonio parte degli edifici dell’ex gruppo industriale Vidoni e quelli di Itavia, mentre nella zona triestina Ferret RE ha messo in saccoccia l’area dell’ex distretto militare vicina al castello di San Giusto nonché la partecipazione nel Birrificio Cittavecchia di Sgonico. Non mancano nel portafoglio gli investimenti nei settori delle case di cura e nell’immobiliare degli studentati.
I fratelli Giovanni e Giacomo Minini appartengono alla famiglia proprietaria della Minini & C. SRL di Cassacco, che con la Mininiplastic opera come terzista nel design, illuminotecnica ed automotive, con partenariati nazionali ed europei.
Vi è poi la curiosità di Giacomo Luvisoni, che non compare tra gli indagati, che è fratello dell’attrice Alice, tra i protagonisti di Skam, serie trasmessa da Netflix e Tim Vision.

C’è stato anche chi ha ricordato un episodio accaduto al Caffè Contarena di via Cavour a Udine la sera del 6 aprile 2018. In quell’occasione, ad un certo punto della serata, qualcuno aveva pensato di irrorare l’ambiente con spray urticante costringendo i presenti all’evacuazione del locale. Sembra che qualche esponente del “Centro stupri” fosse coinvolto nella responsabilità della vicenda.

Tutto questo non è stato una vicenda di ragazzotti «idioti, viziati, immaturi, coglioni» e quant’altro è stato detto: no! Per noi la vicenda è stata, e resta, una vicenda politica! E non ce ne meravigliamo per nulla. Ed è proprio per evitare la politicizzazione (nemica assoluta del potere borghese) che il silenzio stampa sui nomi dei protagonisti è stato il vero “pezzo” giornalistico della storia. Verrebbe da dire che le signore Luana De Francisco, Laura Pigani, Maura Delle Case, Alessandra Ceschia (e altre, con le quali ci scusiamo per la dimenticanza) sono state a loro volta vittime concrete dell’azione sessista messa in atto dagli otto (o dai nove): come giornaliste ma soprattutto come donne sono state limitate nella loro libertà professionale. Nei loro articoli dedicati alla vicenda sul “Messaggero Veneto” non hanno potuto riportare le identità dei protagonisti. Solo dopo la comunicazione della Procura dell’esistenza di indagati sono apparsi i nomi, ma senza i collegamenti ai rispettivi clan familiari.
Certo colpisce che giornaliste come la De Francisco, che abbiamo apprezzato per le sue coraggiose indagini sulla presenza mafiosa nel Friuli-Venezia Giulia, e che ricordiamo con piacere agli inizi di carriera come precisa reporter, nell’isontino, delle attività di Democrazia Proletaria nella campagna per le dimissioni presidenziali del “gladiatore” Cossiga, siano state silenziate nei loro articoli sulla vicenda di Dall’Ava e soci.

Dicevamo che il blocco informativo sui nominativi ha “contagiato” anche la redazione RAI del TG3 regionale, capitanata dall’udinese Rino Giusa. Le edizioni quotidiane sono riuscite a non pronunciare i nominativi degli eredi di queste famiglie borghesi nemmeno quando un servizio a firma di Sebastiano Franco ricordava che il sito tpi.it li elencava uno ad uno (25 giugno). E neppure quando venne menzionata l’intestazione proprietaria al Dall’Ava Senior del locale Jonnie Luanie, in occasione della sua chiusura temporanea in quanto luogo d’inizio della pubblicità del “Centro stupri”, il curatore del servizio Roberto Bonaldi se la sentì di rivelare la parentela genitoriale coinvolta. Rimane il ricordo di una stizzita Marinella Chirico (28 giugno, h 19:30) che in studio, all’apertura del TG, definisce “incommentabili” le peripezie del gruppo, ma forse stizzita anche per il bavaglio mediatico sui nomi da parte dell’azienda radiotelevisiva di Stato.

Questi aspetti sono per noi portatori di maggior interesse persino rispetto al futuro giudiziario della vicenda, gestita dal sostituto procuratore Claudia Danelon, o degli esposti denuncia depositati dall’associazione “Zero su Tre” e da qualche gruppo di donne del PD, risvegliate dal torpore mefitico dell’ambiente antifemminista di cui fanno parte (a proposito, si ricordano che Debora Serracchiani, allora presidente della Regione, ci ha insegnato che lo stupro da parte degli autoctoni è meno grave?). Sicuramente più puntuale è stata la presa di posizione della CGIL che, seppur con qualche pizzico di bromuro, ha perlomeno richiamato esplicitamente l’aspetto politico reazionario dell’iniziativa degli otto (o dei nove o più).


MATERIALISMO E AUTOAMMINISTRAZIONE SESSUALE

Consapevoli che la contraddizione di genere (ed il suo portato sessista) è anteriore alla contraddizione di classe, non si può certo fare astrazione dal fatto che il capitale, nel corso del suo sviluppo storico, raggruppando i mezzi sociali di produzione, favorendone la crescita quantitativa (e per essa qualitativa) senza precedenti, razionalizzandone con precisione scientifica il loro utilizzo, abbia inserito in questo tipo di organizzazione razionalizzata anche l’inquadramento della donna quale mezzo di produzione della specie, in particolare della forza-lavoro. Ed è per questo che scientemente la donna costituisce il segmento debole per eccellenza del mercato del lavoro. La ruolizzazione cui viene sottoposta (maschilizzazione professionale, lavoratrice iperprecaria, dequalificata e sottopagata, disoccupata, casalinga, sostituta del welfare, ecc.) non è separata dal ciclo della valorizzazione capitalistica e dalle conseguenti normazioni a suo sostegno coercitivo. È per questo che un conseguente programma femminista non può prescindere dalla questione di classe. A maggior ragione se si parla di sessualità.
Negli attuali rapporti borghesi, la cittadinanza alla sessualità è ancora concessa più agli uomini che alle donne, più ai ricchi che ai proletari, più agli eterosessuali che ai GLBTQ. Ed inoltre il sesso può diventare l'oppio di cui si servono i padroni per addormentare il proletario, e soprattutto la donna proletaria. Bisogna distinguere, infatti, tra liberazione sessuale rivoluzionaria e pseudoliberazione sessuale, la quale può essere accettata da un ordinamento sociale all'apparenza permissivo, ma che in realtà lo fa solo per i propri scopi di profitto e di neutralizzazione della conflittualità di classe. Del resto qui ritorna anche la chiarificazione su basi materialistiche della prassi autodeterminante: se non c’è autodeterminazione per poter fare qualcosa al di fuori della replicazione indotta dei ruoli, la prassi stessa si riduce al mero diritto di entrare in una riserva protetta.
E come materialistica deve essere l’interpretazione della vicenda del “Centro stupri” (una vicenda di autorappresentazione del dominio borghese), materialistica deve essere anche l’investigazione delle condizioni sociali attraverso le quali si concretizza l’agibilità reale dell’espressione sessuale degli individui. Noi siamo convinti della necessità di proclamare una fondazione del materialismo visto anche come libera espansione della materia carnale, e proprio per questo una libertà anche da pretese classificazioni biologiche (quasi tassonomiche) per mezzo delle quali si limita, di fatto, lo sviluppo di una consapevole amministrazione sessuale affrancata da ruoli preordinati. Un corpo, cioè, che è Essere e non “avere”. Poiché il materialismo è soprattutto questo: affermazione dell’essere. E se la condizione di tale sviluppo è dipendente dalle basi materialistiche della riproduzione dei sistemi vitali sociali, allora tutto ciò richiede un passaggio ineludibile, seppur non sufficiente: la liquidazione della proprietà capitalistica e dei rapporti economici e sociali da essa derivanti.

Partito Comunista dei Lavoratori - Friuli-Venezia Giulia

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