Interventi

Default e rivoluzione

12 Maggio 2020

La nostra critica all'intervento di Giulio Palermo

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Abbiamo recentemente ospitato sul nostro sito un contributo del compagno Giulio Palermo sul tema del debito pubblico, un contributo peraltro ospitato anche da altri siti di estrema sinistra. In questa sede vogliamo da un lato interloquire con le posizioni espresse dal compagno, dall'altro esplicitare la netta divergenza con l'ipotesi politico strategica che Palermo avanza.


DEFAULT UNILATERALE: UNA PROPOSTA COMUNE

Il testo del compagno Palermo pone al centro della propria proposta la cancellazione unilaterale del debito pubblico. È un fatto positivo e niente affatto scontato all'interno della sinistra cosiddetta radicale. Anzi. Imperversano a sinistra, persino in quella che si definisce comunista, vere e proprie apologie del debito pubblico, con tutte le varianti possibili. Alcuni lo declinano in salsa europea, con l'evocazione dei mitici eurobond, ed oggi coronabond, quale via finalmente scoperta per la riforma sociale della Unione (capitalistica) Europea, alla coda dell'europeismo borghese liberale. Altri lo traducono in salsa nazionale, con la proposta dei “bond patriottici”, subordinandosi in realtà agli ambienti nazionalistici reazionari diversamente populisti. In entrambi i casi la politica del debito pubblico, cioè dell'indebitamento con le banche, è presentata come la via del progresso sociale, in contrapposizione alla “austerità liberista”. Per entrambi il riferimento è lord Keynes, un liberale anticomunista degli anni '20 e '30, trasformato in icona del progressismo sociale per via della valorizzazione del ruolo salvifico dello Stato borghese.

La contrapposizione del compagno Palermo a tutte queste teorie è il senso stesso, pare di capire, del contributo proposto. Il testo sviscera e documenta bene la vera natura di classe delle politiche del debito pubblico, sia esso acceso con le banche nazionali o con fondi europei: un grande travaso di risorse pubbliche nel portafoglio delle banche e dei loro grandi azionisti. Soldi prelevati dalla tasche dei lavoratori e trasferiti in quelle dei capitalisti. In particolare il testo si sofferma sul meccanismo dell'avanzo primario (il rapporto tra entrate e uscite al netto del pagamento degli interessi) quale leva di finanziamento del debito e degli interessi sul debito. Un meccanismo particolarmente oliato in Italia, dove l'avanzo primario annuale è costante dal 1992 (con due sole eccezioni).
A tutto questo Palermo contrappone la soluzione del default: «L'idea che avanzo è semplice: non pagare proprio niente. Non contrarre nuovi debiti e non rimborsare quelli vecchi. Questo è il solo modo di difendere gli interessi della classe lavoratrice europea».
Inoltre il testo propone non un default pilotato, cioè concordato col capitale finanziario, come in Grecia nel 2012, ma un default unilaterale: «senza ambiguità, il debito deve essere ripudiato in rottura col mondo bancario, non in accordo con esso».

Fin qui tutto bene. La rivendicazione della cancellazione unilaterale del debito è avanzata da sempre dal nostro partito. In particolare negli anni della grande crisi del 2008/2012 opponemmo la parola d'ordine della cancellazione unilaterale del debito pubblico a tutte le soluzioni (per lo più immaginarie) ipotizzate dalle organizzazioni riformiste e centriste: la riforma della BCE (Rifondazione Comunista), la rinegoziazione del debito da parte degli Stati del sud Europa in una sorta di Alba mediterranea (Rete dei Comunisti), la distinzione tra debito “illegittimo” da cancellare e debito “legittimo” da salvaguardare (Sinistra Critica e poi Sinistra Anticapitalista). Così oggi, di fronte alla nuova grande crisi, la nostra parola d'ordine della cancellazione del debito pubblico verso il capitale finanziario, assieme alla rivendicazione della patrimoniale straordinaria, si pone in aperta contrapposizione a tutte le posizioni europeiste borghesi o sovraniste che albergano attualmente a sinistra. Dunque la posizione che il compagno Palermo oggi avanza ribadisce, con buoni argomenti, senso e ragioni della nostra proposta di sempre. Anche per questo abbiamo voluto segnalarla.


UNA PROSPETTIVA RIVOLUZIONARIA O UNA ILLUSIONE RIFORMISTA?

Il problema si pone quando Palermo si avventura sul significato da attribuire al default unilaterale in relazione alla prospettiva politica e strategica.

«Scrollarsi di dosso il peso del debito — con lo stop immediato al pagamento degli interessi e ai rimborsi dei titoli che arrivano via via in scadenza — non segna la fine dello sfruttamento capitalistico. Alleggerisce semplicemente il peso della crisi sulla classe lavoratrice. Non è il socialismo, non è la rivoluzione: il modo di produrre rimane lo stesso, il lavoro salariato resta, così come la generale dipendenza del lavoro dal capitale pubblico e privato. Ma il profitto ne esce ridimensionato, lo sfruttamento si riduce, la politica recupera un po’ di autonomia e il capitale finanziario smette di essere il soggetto che detta legge ai governi e calpesta i diritti.».

È uno scenario irreale. Una sorta di spazio sospeso dove il capitalismo resta ma lo Stato grazie al default si renderebbe autonomo da esso. “I governi” (borghesi) restano, ma recupererebbero autonomia dal capitale. Dove e quando potrebbe mai realizzarsi uno scenario simile? La storia non offre esempi di Stati e governi al di sopra delle classi e della loro lotta. Naturalmente possono esservi diverse forme storiche di organizzazione del potere borghese, segnate anche da diversi equilibri nella relazione col capitale. Fu ad esempio – in forme molto diverse tra loro – il caso del regime di Bismarck nella fase di ascesa del capitalismo, o dei regimi fascisti nella fase della sua decadenza, o di regimi bonapartisti “progressisti” in paesi dipendenti. Ma in nessun caso è mai esistito uno spazio di neutralità dello Stato (e del governo che lo gestisce e su di esso si basa) nel quadro del dominio capitalista. Lo Stato borghese è inseparabile dal capitale. Pensare ad una sorta di limbo storico intermedio nel quale, per via del solo default unilaterale, senza rivoluzione e socialismo, i governi (borghesi) possano perdere la propria natura di classe, ripropone una vecchia utopia riformista. Un'illusione che fa a pugni oltretutto con le critiche positive che il testo riserva proprio alle posizioni riformiste in fatto di debito pubblico che oggi dominano nella sinistra.


TRANSIZIONE SENZA RIVOLUZIONE?

L'obiezione per cui nella posizione di Palermo si tratterebbe solo di uno stadio della “transizione al socialismo” non solo non risolve il problema ma lo aggrava. E non perché il problema della transizione non si ponga, ma per la ragione esattamente opposta: come può esservi transizione al socialismo senza rivoluzione, senza conquista proletaria del potere e senza rottura con l'apparato borghese dello Stato? Scriveva Rosa Luxemburg in polemica con Bernstein:

«I rapporti politici e giuridici innalzano tra la società capitalista e quella socialista una barriera sempre più elevata. Lo sviluppo delle riforme sociali e della democrazia non fanno breccia in questa barriera, ma al contrario la irrigidiscono e la rafforzano. Essa potrà essere abbattuta unicamente dal colpo di maglio della rivoluzione, cioè della conquista del potere politico da parte del proletariato.» (Riforma sociale o rivoluzione?, 1899).

È la questione strategica decisiva. Il marxismo rivoluzionario nella sua lunga storia ha polemizzato con tutte le teorie di una possibile “democrazia progressiva”, di una possibile transizione graduale al socialismo senza rottura rivoluzionaria. Sia quando alle origini del movimento operaio quella teoria conobbe una declinazione anarcoriformista (la transizione dal basso del mutualismo di Proudhon) sia quando si è tradotta nella visione parlamentare e governista della socialdemocrazia, e a partire dal 1935 dei partiti comunisti stalinizzati attorno alla teoria dei fronti popolari. Da Marx ed Engels a Luxemburg, da Lenin a Trotsky, il filo rosso della polemica marxista si è concentrata su questo aspetto centrale: la necessità della rivoluzione come apertura della transizione, contro ogni rimozione o diluizione del tema del potere e della sua conquista. Perché mai il default unilaterale sarebbe in grado di aggirare questo nodo?


IL DEFAULT NELLA TRADIZIONE RIVOLUZIONARIA

Al contrario, proprio la giusta rivendicazione del default unilaterale, della rottura col capitale finanziario, va posta in relazione alla prospettiva rivoluzionaria. Così è stato sempre.

Marx ed Engels posero il tema dell'abolizione del debito pubblico prima in Le lotte di classe in Francia dal 1848 e il 1850 e poi nell'Indirizzo alla Lega dei Comunisti del 1850, proprio in contrapposizione ai democratici piccolo borghesi e a un loro eventuale governo: «Se i democratici reclameranno che si regolino i debiti dello Stato, i proletari reclameranno che esso faccia bancarotta... Il grido di battaglia del proletariato dev'essere: rivoluzione in permanenza».
La Lega Spartaco guidata da Rosa Luxemburg indicò l'abolizione del debito pubblico nel programma fondamentale della rivoluzione tedesca. La rivoluzione bolscevica realizzò l'abolizione del debito pubblico della vecchia Russia tra i suoi primi provvedimenti. Il tema del default è stato sempre ancorato a quello della rivoluzione, mai posto come sostituto di questa. Non a caso fu sempre connesso alla rivendicazione della nazionalizzazione generale delle banche e del monopolio statale del credito, sotto il controllo della classe lavoratrice e delle sue strutture di autorganizzazione.

Peraltro se anche – in condizioni eccezionali e del tutto improbabili – un governo borghese dovesse mai adottare un default integrale e l'imperialismo lo accettasse, i suoi benefici non andrebbero certo ai lavoratori. Come mostra ad esempio il default contraddittorio realizzato dall'Argentina nel 2001. Perché solo l'esproprio dei capitalisti, il monopolio statale delle banche, la nazionalizzazione del commercio estero, lo sviluppo di una economia democraticamente pianificata, può consentire ai lavoratori di capitalizzare il default da un punto di vista di classe. E sono tutte misure che implicano la conquista del potere politico. Per questo la rivendicazione del default va oggi avanzata come parte di un programma transitorio complessivo che concorre a spiegare la necessità della rivoluzione, non come parola d'ordine mirata ad aggirare, diluire, rimuovere questa necessità.


UN PARTITO LENINISTA BASATO SUL PROGRAMMA

Il compagno Palermo conclude il suo testo con l'evocazione e l'auspicio di «un soggetto politico collettivo che sappia sviluppare queste condizioni oggettive e indirizzarle in senso rivoluzionario». Ma un soggetto politico rivoluzionario si costruisce in funzione della conquista del potere da parte dei lavoratori e delle lavoratrici. Perché tutto il suo intervento di classe e di massa, la sua stessa tattica quotidiana, sono tesi a costruire un ponte tra le rivendicazioni immediate e lo scopo rivoluzionario finale, al fine di sviluppare la coscienza politica degli sfruttati. La necessità di un programma di transizione, nell'elaborazione di Lenin e di Trotsky, corrisponde a questa esigenza. Il rifiuto di ogni illusione governista (su possibili governi neutri o amici nella società borghese) ne è il corollario naturale.

Il soggetto politico organizzato che persegue questo programma è il partito leninista, la “tensione organizzata verso il fine”, come ebbe a definirlo Lukacs. Ossia l'organizzazione dei militanti e dei quadri coscienti che opera ogni giorno, nei luoghi di lavoro, nei sindacati, tra i giovani, in ogni movimento progressivo, per raggruppare l'avanguardia in funzione della conquista della massa, e che lavora alla conquista della massa in ragione della rivoluzione.

Questo è il partito che il PCL è impegnato a costruire. Questo è il partito che vogliamo costruire assieme a tutti rivoluzionari che, indipendentemente dalla loro provenienza, condividono tale programma su scala nazionale e internazionale, e dunque l'esperienza storica che esso condensa.

Partito Comunista dei Lavoratori

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