Emergenza coronavirus
La febbre della ripartenza
L'arrembaggio della Confindustria, l'inganno del padronato “progressista”
21 Aprile 2020
Il padronato italiano fa semplicemente ciò che vuole, al di là degli accordi. L'essenziale, per loro, è tornare a fare profitti
Rulla il tamburo della ripartenza, sotto la pressione delle organizzazioni padronali. Il nuovo vertice di Confindustria ha fornito a questa pressione una spinta propulsiva nuova. La ripartenza non è (solo) una data futura al momento incerta, è un processo già in corso oggi; lento, a macchia di leopardo, ma continuativo. Un processo che attraversa diversi settori della produzione e tutte le aree geografiche del paese.
Una parte rilevante del lavoro salariato non si è mai fermato, in realtà. A inizio marzo, mentre il governo e le autorità sanitarie celebravano il “tutti a casa”, milioni di operai continuavano a varcare i cancelli delle fabbriche. Anche nelle zone di massimo contagio. Anche nel bergamasco, nel bresciano, nel piacentino, laddove il veto di Confindustria sulla zona rossa ha consumato un crimine che nessuno può ormai negare o ignorare.
IL PRESSING TRAVOLGENTE DELLA RIPARTENZA
Dopo il famoso protocollo d'intesa del 14 marzo tra sindacati e padroni, e i decreti governativi del 22 marzo, avallati dal sindacato, la sicurezza in fabbrica è rimasta un miraggio. In compenso la ripartenza produttiva si allarga, al di fuori di ogni regola e controllo. 105.727 imprese nell'ultimo mese hanno “comunicato” alle prefetture la continuità della produzione, usando la norma del silenzio assenso. Solamente 2296 sono state bloccate. Il resto ha avuto via libera, o per connivenza tra prefettura e padrone, o per l'impossibilità di fare le verifiche a causa della mancanza di personale e dei tempi necessari. Insomma, il padronato italiano fa semplicemente ciò che vuole, al di là del dettato formale degli accordi, o utilizzando le loro maglie larghe.
Ora il pressing si fa travolgente. Hanno un bel dire una parte di esperti e virologi che non vi sono le condizioni per ripartire in sicurezza, tanto più in Lombardia. Ha un bel dire il dottor Galli del Sacco di Milano che ciò che è acquisito in teoria non lo è affatto in pratica, che i tamponi sono ancora un numero esiguo, che sui kit sierologici c'è una guerra per bande tra aziende produttrici fuori da ogni controllo sanitario validante, che neppure su quantità e qualità delle famigerate mascherine si è raggiunto un risultato soddisfacente, che non si sa ancora dove isolare i contagiati, che senza riorganizzare l'intero sistema dei trasporti urbani e metropolitani la riapertura generale è un'avventura... Non serve. I padroni hanno il fiato sul collo della concorrenza estera, e questo basta. Sulla sicurezza simuleranno un po' di attenzioni, qualche gesto esemplare nei primi giorni, un po' di fumo negli occhi a uso e consumo delle telecamere. Finzioni. L'essenziale è che la vita normale riprenda il suo corso e rimonti la china. Che riprenda la borsa, che si possano macinare profitti, che si possano spartire i dividendi. Il resto è contorno, o rumore di fondo.
LA FIABA DI BRUNELLO CUCINELLI
A tirare la volata della ripartenza generalizzata c'è il fior fiore del made in Italy. Non solo la grande industria meccanica, la cantieristica, ma anche la moda, l'oreficeria, le costruzioni di yacht... Quel mondo delle grandi famiglie del capitalismo italiano, prodigo di pose progressiste, ospite ricercato dei salotti liberali, in realtà provvisto di un pelo sullo stomaco da far invidia alla foresta amazzonica.
In questi giorni diversi esponenti di questo mondo dorato sentono l'esigenza di aggiungere la propria voce al coro assordante della ripresa. Si distingue al suo interno il grande stilista umbro Brunello Cucinelli, proprietario di un'azienda dell'alta moda con stabilimenti in mezzo mondo, Cina inclusa, con un fatturato di tutto rispetto di 607,8 milioni nel 2019. «Dobbiamo pensare a garantire il cibo alle persone che lavorano con noi» dichiara compunto a La Stampa. «Capitalismo etico?» chiede l'intervistatore. «Il mercante onorevole» risponde il nostro con l'aria di chi si carica sulle spalle le sofferenze del mondo. «Come ha passato la quarantena?» incalza la giornalista. «Aiutando mia moglie a stirare, anche il copripiumone, una cosa complicatissima» risponde Cucinelli convinto di aver lustrato così la propria pietas. Dopo di che arriva finalmente al sodo: «Abbiamo detto da subito alle persone che lavorano con noi: non licenzieremo nessuno... In cambio ho chiesto due cose: la disponibilità a lavorare mezz'ora in più al giorno e lavorare in agosto tranne una settimana. In poco tempo recupereremo le settimane perse». Una generosità commovente.
Ecco, in questa intervista c'è uno squarcio di possibile futuro. La frontiera più avanzata del progresso che il capitale sa offrire ai salariati di fronte alla nuova grande recessione è un allungamento dell'orario quotidiano e l'annullamento delle ferie in cambio del lavoro. Una “offerta che non si può rifiutare”, con 25 milioni di nuovi disoccupati in arrivo nella sola Europa secondo le previsioni del FMI. Questo è il calcolo dei “mercanti onorevoli”.
C'è solo una eventualità che non hanno calcolato: che gli operai possano rifiutarsi di chinare il capo. Non avviene spesso nella storia, ma accade. E quando accade, tutto diventa possibile. Anche quello che nessun padrone potrebbe mai immaginare: che gli operai facciano a meno di lui.