Emergenza coronavirus

Ripartenza di cosa?

22 Aprile 2020

La società borghese inciampa a ogni passo sulle contraddizioni che crea

ripartenza


Il Presidente del Consiglio ha annunciato la ripresa generale del lavoro il 4 maggio. Indistintamente, su tutto il territorio nazionale, quindi anche nelle regioni tuttora segnate da un alto tasso di contagio e mortalità, che peraltro sono le regioni in cui si concentra guarda caso il cuore della produzione industriale, e dove è più forte la pressione di Confindustria per la ripartenza.

Grande è lo sforzo della comunicazione pubblica nell'annunciare che la ripresa avverrà “ in sicurezza”. La raccomandano le autorità sanitarie, la garantiscono gli industriali. Gli stessi industriali che hanno posto il veto sulla zona rossa nel bergamasco, che hanno chiesto alle prefetture di produrre in deroga, che hanno licenziato operai che denunciavano la mancata osservanza delle regole. C'è qualcuno che oggi può credere alle loro "preoccupazioni"?


L'INCIAMPO DELLE MASCHERINE

Non è solo un problema di credibilità, ma anche di contraddizioni plateali. Persino sui temi più elementari.

Prendiamo il caso delle arcinote mascherine. A due mesi dall'inizio dell'emergenza sanitaria, la seconda potenza industriale d'Europa è ancora alle prese con la loro insufficienza. Una insufficienza macroscopica. Il giornale di Confindustria ci informa (21 aprile) che con la ripresa generalizzata saranno necessari 40 milioni di mascherine al giorno (due a testa per 20 milioni di lavoratori). Secondo la task force di Colao ne occorreranno 953 milioni al mese. «Fabbisogni impossibili da soddisfare», riconosce il quotidiano confindustriale, perché le 80 aziende che si sono buttate sul mercato per produrle, allettate dagli incentivi offerti, ne producono appena 3 milioni al giorno, mentre il commercio mondiale delle mascherine è ormai intasato dalla competizione di tutti contro tutti. Solo una larga riconversione produttiva di altri settori potrebbe far fronte al bisogno. Ma ciò richiederebbe misure drastiche e immediate di nazionalizzazione a garanzia della riconversione. Una bestemmia per Confindustria.


TAMPONI, TEST, LABORATORI. LA CRISI DELLA DIAGNOSTICA

Il problema dei tamponi e dei test sierologici non è da meno.

Il nuovo capo di Confindustria Carlo Bonomi ha sempre accompagnato la richiesta della riapertura con la garanzia della diagnostica. Di cui peraltro si occupa, guarda caso, la sua azienda. Questa garanzia è clamorosamente assente. La ripresa richiederebbe un esame tampone generalizzato a tutti i lavoratori, perché non si possono portare in fabbrica i positivi. Ma il numero dei tamponi oggi effettuato, a partire dalla Lombardia, resta irrisorio. Non dipende dalla mancata disponibilità dei tamponi, ma dall'assenza dei laboratori per l'esame dei dati: i laboratori pubblici sono stati tagliati, quelli privati prendono cifre da capogiro e sono comunque insufficienti.

Ancor più complicato è il quadro dei test sierologici, fondamentali per individuare gli immuni. Qui c'è una autentica guerra per bande tra aziende produttrici per accaparrarsi il mercato. In particolare in Lombardia. Da un lato la Diasorin, sponsorizzata dalla regione, che punta all'esclusiva di monopolio. Dall'altro la TecnoGenetcs che ha fatto ricorso al TAR contro la Diasorin. Parallelamente è in corso anche una gara nazionale gestita dall'Istituto Superiore della Sanità, che non si capisce come interagisca con lo scontro in Lombardia. L'unica cosa certa in questa guerra di mercato è che non esiste ad oggi un test sierologico nazionalmente validato e riconosciuto. E questo a pochi giorni dalla “ripartenza”. Solo una immediata nazionalizzazione dell'industria farmaceutica, un investimento concentrato su laboratori e ricerca pubblica, una massiccia assunzione di nuovi ricercatori e specialisti, risponderebbe alle necessità.


L'ENIGMA DEI TRASPORTI

Non ci sono solo problemi sanitari, ma anche di organizzazione del lavoro, e soprattutto di trasporto sul lavoro. Tutta la stampa borghese è costretta a riconoscere che non può esserci una condizione minima di sicurezza senza una riorganizzazione del trasporto: bus, tram, metropolitane, ferrovie regionali. Tuttavia le aziende di settore, largamente privatizzate, mettono le mani avanti.

ASSTRA, l'associazione nazionale maggiormente rappresentativa delle imprese di trasporto pubblico in Italia, è lapidaria: non sarà possibile incrementare il parco mezzi. La produzione richiederebbe tempi variabili che vanno dai 18 a 36 mesi a seconda della tipologia di mezzi, bus o treni. Peccato che le aziende che producevano mezzi pubblici siano state smantellate nello scorso decennio, a partire da Irisbus.
Si potranno allora, a parità di mezzi, aumentare le corse? No. «Non si potranno aumentare le corse come qualcuno ipotizza, perché mancano i mezzi, il personale e la capacità delle reti» dichiara al Corriere Andrea Gibelli, presidente di ASSTRA. Il distanziamento di sicurezza di un metro non sarà dunque possibile. Peraltro, ci informa Gibelli, «non sarebbe economicamente sostenibile». Il che taglia la testa al toro, dal punto di vista confindustriale. Dunque al lavoro con l'auto privata, in un nuovo vortice di inquinamento urbano? Alla faccia della salute.


TUTTI CERCANO DI PARARSI IL CULO

Non a caso in questa babele ogni attore in scena cerca di pararsi il culo scaricando sugli altri le proprie responsabilità. Il governo nazionale scarica le responsabilità delle scelte sui comitati di esperti, peraltro internamente divisi. Gli industriali cercano la copertura delle burocrazie sindacali per disincentivare sia gli scioperi che le cause giudiziarie. I governi regionali dicono che comanda il governo nazionale, e viceversa. In realtà tutti sanno che la ripartenza oggi è un'avventura, e nessuno vuole intestarsi la scelta senza chiamate di correo. L'unico punto di accordo generale è che gli operai devono tornare il fabbrica, mentre le scuole restano chiuse per tutelare gli studenti. Inutile cercare la logica, perché è solo quella del capitale.

Partito Comunista dei Lavoratori

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