Dalle sezioni del PCL

I portuali di Genova contro la guerra. Intervista a un lavoratore del CALP

29 Marzo 2020
calp


In mezzo alla rassegnazione generalizzata della maggioranza della classe lavoratrice e ai venti populisti e sovranisti che si radicano tra le masse, a Genova il Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali (CALP) si è reso protagonista di una battaglia esemplare, che ha saputo coniugare classismo, internazionalismo, antimperialismo e antimilitarismo. Una battaglia che assume ancor più valore perché nasce e si sviluppa dall'iniziativa di lavoratori di un settore strategico. La loro battaglia ha assunto un'eco internazionale, sia per il suo significato sia per il riverbero della mobilitazione, che ha toccato porti in tutta Europa: Anversa, Bilbao, Marsiglia, Tilbury, Le Havre.
La scintilla che ha fatto avviare questa mobilitazione è stata la contrapposizione ai traffici di armi e materiale per scopi bellici della flotta saudita Bahri, che per conto della petromonarchia dell'Arabia Saudita, rifornisce eserciti regolari e milizie islamiste impegnate nei conflitti della Siria del Nord (contro i curdi e il regime di Assad), del Kashmir e nella sporca guerra in Yemen. Tutte guerre che stanno provocando tremende e disumane conseguenze per le popolazioni e le classi lavoratrici, vittime di giochi di potere e profitto delle rispettive classi dirigenti e borghesi.
L'ultimo atto di questa lotta si è tenuto al varco Etiopia lunedì 16 Febbraio, di nuovo contro l'attracco della Bahri Yambu al terminal GMT, con un presidio che ha visto la solidarietà di diverse realtà associative, di movimento, sindacali (ma non di quelle con un peso nel Porto come la CGIL) e politiche – compreso il nostro partito e il coordinamento unitario delle sinistre di opposizione.
Facciamo qualche domanda a Ricki, un compagno del CALP.

Non vi siete opposti solo all'attracco della flotta Bahri ma avete denunciato anche i traffici che hanno coinvolto la Bana, che riforniva armi per conto della Turchia di Erdogan alle milizie libiche di al-Sarraj, e avete denunciato in generale le guerre e i conflitti. La solidarietà ricevuta indica una certa attenzione alla vostra battaglia. Continuerete la vostra lotta? Partiti, sindacati e associazioni come possono fornire una solidarietà attiva?

"Ci siamo opposti a diversi traffici di armi. Quello della flotta Bahri è solo uno dei più impressionanti. Inoltre sappiamo che dal 23 marzo le navi Bahri non toccheranno più i porti europei, per andare direttamente dagli USA alla Turchia e portare forniture all'esercito di Erdogan e alle milizie qaediste e jihadiste che operano nella Siria del Nord. Probabilmente, quelle armi, munizioni ed equipaggiamenti verranno utilizzati contro il progetto rivoluzionario del Rojava.
Sì! Abbiamo denunciato i traffici della flotta Bana, che svolge queste operazioni da sempre. Ma consideriamo l'opposizione alla Bahri centrale, emblematica, perché mette in mostra gli intrecci di interessi sulla guerra contro popolazioni inermi, esemplificando la pericolosità dei traffici di armi. Per questo continueremo con la nostra battaglia e ci auguriamo di continuare ad avere la solidarietà e la vicinanza di tutti i soggetti politici e sociali che ci hanno dato sostegno attraverso la partecipazione e la risonanza alla nostra lotta."


Il 20 maggio 2019 la vostra mobilitazione e il vostro lavoro di inchiesta costrinse la burocrazia FILT-CGIL a dichiarare lo sciopero della CULMV (Compagnia Unica fra i Lavoratori delle Merci Varie) e del terminal GMT per impedire il carico di generatori per scopi militari sulla Bahri Yanbu. Questa volta la CGIL, nonostante le pressioni di altre realtà politiche e associative e il sostegno di tanti delegati FILT e di altre categorie CGIL, non ha convocato alcuno sciopero in vostro sostegno. Secondo voi come mai, e quali conseguenze ha avuto?

"Lo sciopero del 20 maggio è stato costruito tutti assieme e ha visto il sostegno della Compagnia Unica e di tutta la CGIL, è stata una battaglia vincente e importante che ci siamo conquistati tutti, tutti siamo stati protagonisti.
Il 16 febbraio, invece, i soggetti che ci hanno sostenuto nella mobilitazione passata, contribuendo anche alla vittoria, si sono tirati indietro e ci hanno lasciati soli. Le motivazioni crediamo di averle abbastanza chiare nella nostra testa. Sono argomento di discussione e riflessione tra noi del Collettivo e saranno sicuramente oggetto di confronti e discussioni, anche delicate, tra noi e i soggetti che crediamo non ci abbiano sostenuto a sufficienza e con coerenza.
L'ultima mobilitazione è stata costruita dal Collettivo, dall'Assemblea contro la Guerra, da associazioni, partiti e dalle tante persone che hanno condiviso le nostre parole d'ordine, le ragioni della nostra mobilitazione e la presenza al varco portuale in un giorno difficile, lavorativo e di pioggia."


C'è chi insinua che la vostra battaglia sia pericolosa per i lavoratori delle aziende che producono, progettano e trafficano armi e che lucrano sull'economia di guerra. Voi però avete scritto delle lettere proprio ai lavoratori di queste aziende e avete co-organizzato un corteo contro Leonardo, ribadendo come la lotta contro la guerra e i traffici di armi riguardi tutti.

"Sì, noi crediamo che il problema delle armi, di chi le produce e della sua logistica sia una questione che i lavoratori si devono porre. Devono farlo perché è anche una questione sindacale, perché i lavoratori e le lavoratrici devono sapere quello che fanno e per cosa lo fanno, devono essere a conoscenza dell'utilizzo finale di quello che producono e trasportano. Infatti ci sono lavoratori che producono o trasportano materiale per scopi civili e che, ad un certo punto, si sono ritrovati a eseguire lavori per commesse militari, anche inconsapevolmente. Poi è chiaro che siano scelte difficili, che comportano problemi che non si possono risolvere in poche battute. Sta di fatto che a questa filiera ci si può opporre, si possono praticare forme di disobbedienza o anche solo di denuncia, e il nostro interesse, con quelle lettere, era per lo meno informare quei lavoratori e quelle lavoratrici della filiera in cui erano inseriti e di renderli partecipi che c'era chi si opponeva non a loro e al loro posto di lavoro, ma per mettere in discussione per cosa si lavora. Per quel che riguarda il Porto, per esempio, siamo convinti che possa andare avanti anche senza i traffici di armi. Per quanto siano commesse remunerative, fanno lavorare poche persone, e crediamo che i porti non debbano essere utilizzati per traffici di morte, ma per ciò che è necessario alle persone e alla loro vita, non per distruggerla."


Il vostro collettivo si è reso protagonista anche di molte altre lotte, a partire dalle vertenze in porto fino alle manifestazioni di Genova Antifascista. Non ultima, la battaglia di Piazza Corvetto del 23 maggio 2019 contro il comizio di CasaPound, per cui sono arrivati ben 50 avvisi di garanzia contro diversi manifestanti. Purtroppo questa consapevolezza e conflittualità sono rare nella classe lavoratrice. Come mai questo vostro protagonismo e questa vostra sensibilità?

"Credo che i valori dell'antifascismo, della Resistenza, della solidarietà e dell'antirazzismo siano valori che il Porto di Genova ha intrinsecamente e a prescindere da noi. Sono nelle banchine, nei suoi discorsi, nei suoi bar, tra le persone che lo vivono e che lo hanno vissuto. Noi li abbiamo avuti in eredità da chi ha lavorato prima di noi, da chi ha vissuto la rivolta di piazza del 30 giugno del 1960, le lotte dei portuali, i valori e le esperienze della Resistenza e dell'opposizione al regime. Quindi un po' tutti i lavoratori del porto, chi più chi meno, sentono queste cose. Ed è dimostrato anche dai più giovani, infatti dopo essere entrati in poco tempo parlano con noi di antifascismo, di diritti, di questioni legate al mondo del lavoro e alle sue lotte. Credo sia il destino dei portuali genovesi essere in prima fila in tante battaglie. I compagni del Collettivo sono pieni di denunce ma ne andiamo fieri. Le battaglie che noi facciamo per i lavoratori, per la nostra città, per i nostri compagni e per chi vive con noi le lotte, per noi sono medaglie, e le conseguenze non sono certo un problema. Vogliamo andare avanti con intelligenza, determinazione, combattività e coerenza."


Anche in questo breve scambio si mette in evidenza la forza della classe lavoratrice quando è consapevole e determinata e quando riesce a connettersi con le migliori tradizioni di lotta e resistenza del passato, per tradurle nelle necessità dell'oggi.
Noi non possiamo che dare il pieno sostegno a questa lotta e utilizzare le reti di militanti e quadri politici e sindacali per megafonare le loro parole d'ordine e per promuovere l'emulazione e la generalizzazione di queste battaglie, ribadendo che i lavoratori e le lavoratrici devono rivendicare il controllo delle scelte su produzione, lavoro e società. Questa è la base per la prospettiva di un sistema differente, in cui il potere deve essere strappato agli sfruttatori e agli speculatori e assunto dalla classe lavoratrice organizzata, nell'interesse di tutta la società al di là di ogni confine e nazione.
Solo queste lotte possono bloccare i progetti di atomizzazione della classe e del suo disciplinamento, e mettere in discussione i traffici di morte e l'alimentazione di guerre devastanti, per pretendere una riconversione di tutta l'industria bellica per finalità sociali e per dirottare le masse di capitali, impegnate in quel settore, in favore della spesa sociale, per rifinanziare e rafforzare sanità, istruzione, trasporti, case e servizi pubblici. Una rivendicazione più che mai urgente oggi, nel mezzo di una pandemia mondiale, se si pensa che un F-35 corrisponde a oltre 7.000 respiratori, con cui fornire assistenza a chi sviluppa complicazioni gravi. Una rivendicazione sempreverde se si pensa alla miseria e alla crisi sanitaria perenne vissuta da larghissimi strati della popolazione mondiale, soprattutto nei paesi vittime dell'imperialismo.
Ma è all'ordine del giorno anche perché, come detto, i traffici contro cui si scontrano i portuali genovesi sono gli stessi che producono milioni di profughi e sfollati, come le persone che in questi giorni vengono usati come carne da macello e merce di scambio tra Erdogan e l'Europa ai confini della Grecia.
Ribadiamo quindi che i traffici di armi e l'economia di guerra devono essere bloccati, e che va posta all'ordine del giorno la costruzione di un sistema socio-economico e politico alternativo, internazionale, fondato su una economia pianificata e sotto controllo dei lavoratori e delle lavoratrici, da mettere al servizio dei bisogni e delle necessità di tutti e tutte, e non solo dei profitti di pochi.

Basta guerre e basta traffici di armi!
Porti e confini chiusi alle armi! Porti e confini aperti alle persone!

Cristian Briozzo

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