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Unione Europea, malata sintomatica

La UE alla sua prova tampone

29 Marzo 2020
UEmalata


La borghesia liberale ha idolatrato per trent'anni l'Unione Europea, col sostegno dei tanti a sinistra che sognavano l'”Europa sociale”. Le destre sovraniste denunciano invece l'Europa matrigna nel nome del primato della nazione, contando sul seguito di sventurati ambienti sinistrorsi a caccia di di plausi presso i media reazionari.
Gli uni e gli altri nascondono ai lavoratori la realtà della UE: quella di una unione continentale di imperialismi nazionali, legati da reciproche convenienze e al tempo stesso segnati da insuperabili contraddizioni. Contraddizioni e convenienze messe sul conto del proletariato europeo.

Il dramma del coronavirus è da questo punto di vista un'ottima cartina di tornasole.


UNA CRISI PROFONDA INVESTE L'UE

L'Europa è colpita da una crisi sanitaria senza paragoni nel secondo dopoguerra e dal rischio di una depressione continentale. I sistemi sanitari nazionali, saccheggiati per trent'anni da parte di tutti i governi (inclusi i Prodi e gli Tsipras) hanno fatto bancarotta sotto la pressione dell'epidemia, sino a scivolare nei fatti verso forme di medicina di guerra. La crisi sanitaria ha tracimato ovunque in una crisi economico-sociale devastante. La recessione, già prima annunciata, ha preso la china di un precipizio. In Italia, in Francia, in Spagna, in Germania, ovunque. Da qui la domanda che i circoli dominanti si pongono: come fronteggiare la valanga?

Ogni Stato nazionale della UE, a partire dagli stati imperialisti, ha una drammatica esigenza di risorse finanziarie nel momento stesso in cui non sa dove prenderle. Tutti gli Stati imperialisti vogliono soccorrere le proprie banche e le proprie imprese, pena la propria ulteriore marginalizzazione sul mercato mondiale in tempesta. Ma non possono prendere i soldi dalle tasche dei padroni, con ipotesi di patrimoniali o tassazioni dei profitti, perché sarebbe una partita di giro per i propri assistiti, e perché la concorrenza tra capitalisti su scala mondiale avviene da trent'anni (anche) sulla detassazione dei profitti, e quindi sui colpi alle protezioni sociali. Al tempo stesso, i governi nazionali dopo la grande crisi del 2008 e il lungo ciclo di austerità attraversano tutti una grave crisi di credibilità e di consenso che rende più problematiche nuove politiche di tagli sociali, tanto più nel momento in cui lo scandalo pubblico agli occhi di tutti è proprio lo sfascio dei sistemi sanitari. Allora che fare? Questo è il cuore del negoziato in corso tra i governi europei.


COME FRONTEGGIARE LA VALANGA?

Il nodo è tanto più spesso perché ogni governo nazionale, spaventato dall'emergenza, ha già annunciato in casa propria una mobilitazione straordinaria di risorse. Gli stessi partiti che in anni recenti inserivano il pareggio di bilancio in costituzione per blindare la tosatura di sanità e pensioni scoprono di punto in bianco che i bilanci si possono e si debbono sfondare quando si tratta di soccorrere i capitalisti. La Germania annuncia un investimento di 550 miliardi, la Spagna una spesa aggiuntiva di 200 miliardi, l'Italia una manovra di 50 miliardi e passa. Sotto la pressione degli Stati nazionali, la stessa Commissione Europea ha fatto di necessità virtù. I parametri di Maastricht, il tetto del deficit al 3%, la progressione prevista da Fiscal Compact per la riduzione del debito, tutti i riferimenti biblici del passato decennio, sono stati archiviati o sospesi con la stessa fretta con cui erano stati varati.

Ma il problema sta proprio qui: nel fatto che le cifre ambiziose garantite ai propri capitalisti – in una corsa frenetica al rialzo per non sfigurare nella concorrenza – non si sa ancora su quali spalle si appoggiano. I bilanci degli Stati nazionali, con la parziale eccezione tedesca, sono gravati da un debito pubblico molto più alto di quello di dieci anni fa, cresciuto proprio per aiutare con risorse pubbliche i bilanci privati di banche e imprese. Il loro margine di manovra è dunque più limitato di allora, mentre la crisi è probabilmente più grave. L'aumento degli interessi sui titoli di stato, il famoso spread, è un segnale d'allarme significativo.


CHI PAGA COSA, E A CHI

Per questo Italia, Francia, Spagna hanno finito col battere cassa presso la BCE, chiedendo una nuova mole di miliardi. La BCE è attraversata a sua volta da contraddizioni nazionali, con la Bundesbank tedesca che ha mal digerito la politica monetaria espansiva di Mario Draghi perché ha abbattuto i tassi di interesse danneggiando le banche tedesche. Ciononostante, il crollo delle Borse ha spinto la nuova Presidente Christine Lagarde ad un aiuto finanziario su scala continentale di 750 miliardi per l'acquisto dei titoli pubblici (ma anche di obbligazioni private delle imprese) in continuità con le politiche di Draghi. Una cifra apparentemente imponente, ma in realtà ancora poca cosa se spartita tra gli stati nazionali. All'Italia toccherebbero ad esempio “appena” una settantina di miliardi, quando deve piazzare sul mercato 400 miliardi di titoli pubblici, coi tassi già oggi in rialzo, e in piena recessione. Lo stesso vale per Francia e Spagna. La coperta, insomma, si è rivelata troppo corta.

Ecco allora la nuova richiesta corale di nove Stati nazionali europei, con in testa gli imperialismi mediterranei di Italia, Francia, Spagna, per aggiungere un nuovo strumento finanziario che offra una coperta larga per tutti: un "eurobond" emesso da una entità europea (o BCE o BEI o MES) da vendere sul mercato finanziario, per distribuire il ricavato ai diversi padronati di casa propria e dunque sostenere le spese annunciate. Ma l'imperialismo tedesco si mette di traverso nel nome del proprio interesse nazionale: il bund tedesco è oggi il dominus europeo sul mercato finanziario, al punto da finanziarsi a tasso zero o negativo; un bund continentale farebbe insomma una concorrenza ostile. Da qui l'impasse. Una vera e propria crisi dell'Unione, non ancora in terapia intensiva, ma fortemente sintomatica.

Vedremo nei prossimi giorni il prosieguo e l'epilogo del negoziato in corso sotto la frusta della crisi. Ma l'unica cosa certa in questo tiro alla fune nel groviglio di interessi nazionali contrastanti è che nessuno di questi interessi ha a che vedere con quelli dei lavoratori. Al contrario. Tutte le operazioni che vengono fatte e pattuite, su scala nazionale e continentale, sono per lo più fatte a debito. Gli Stati, o altre entità europee, si indebitano col capitale finanziario che compra i titoli. Che i titoli siano nazionali o europei per i lavoratori non cambia molto: i debiti dovranno essere rimborsati in ogni caso, prima o poi, con un tasso d'interesse più alto o più basso, a chi li ha comprati. A intascare saranno comunque le banche, a pagare sarà chiamato il lavoro.

La verità è che dentro la UE o fuori di essa, tutto il mondo è capitale. Dentro la UE o fuori di essa, come ad esempio negli USA o in Gran Bretagna, i governi nazionali sono solo i comitati d'affari dei propri capitalisti, nel caso dei propri imperialismi, quelli che sotto l'euro, o sotto il dollaro, o sotto la sterlina, hanno distrutto il servizio sanitario.
La vera gabbia non è la UE ma il capitale. Rompere con la UE è parte di un programma di alternativa socialista, in ogni paese europeo e su scala continentale. Ma ridurre l'alternativa alla rottura con la UE significa mettersi a rimorchio del nazionalismo. Contro le ragioni dei lavoratori e delle lavoratrici, che oggi più di ieri “non hanno patria”, come diceva Marx, perché la loro patria è il mondo.

Partito Comunista dei Lavoratori

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