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A Bergamo e Brescia Confindustria ha spianato la strada al contagio

23 Marzo 2020
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Le nuove disposizioni del governo Conte non solo non risolvono i problemi ma tantomeno cancellano le responsabilità di quanto accaduto ed accade. Responsabilità tanto abnormi quanto silenziate dai canali dell'informazione pubblica. Di questo vogliamo parlare, con un esempio specifico che in questi giorni drammatici è sotto gli occhi di tutti.

Bergamo e Brescia. Due zone della Lombardia oggi epicentro della massima diffusione del contagio col conseguente carico di morti. Morti rapidissime, in una solitudine straziante, spesso avvenute prima ancora di entrare in terapia, senza il conforto di una persona cara, senza la possibilità di un funerale e di un ricordo. I carri militari in fila a trasportare le bare fuori Bergamo nel buio della notte sono forse lo specchio più fedele di questo orrore. Lo specchio di uno scenario di guerra.

Era evitabile questo scempio? Sì. Nella misura e nelle forme che ha assunto, sicuramente sì. Non solo perché, da un punto di vista generale, non era un destino inevitabile quello di avere un sistema sanitario talmente massacrato dalle politiche di austerità da essere incapace di fronteggiare una epidemia. Ma anche perché era possibile e necessaria la misura di contenimento più semplice del contagio: fare a Bergamo e Brescia quello che si è fatto con successo a Codogno (e a Wuhan in Cina): recintare la zona, chiudere ogni produzione, bloccare ogni attività, con l'eccezione ovviamente di quella sanitaria, e dei negozi di alimentari. Creare insomma una autentica zona rossa, che abbattesse ogni occasione di contagio nella popolazione della zona, e al tempo stesso proteggesse il resto della Lombardia. Capire perché questa misura non è stata applicata significa andare al cuore del problema. Cioè alle responsabilità di un crimine.

Confindustria. Il cuore del problema sta qui. Bergamo e Brescia sono il cuore della produzione metalmeccanica italiana. Brembo, Tenaris, ABB, centinaia di aziende con decine di migliaia di operai ed operaie in produzione. Non come a Lodi e dintorni, dove l'industria contava solo Unilever. No, a Bergamo e Brescia troppo grandi e concentrati erano gli interessi padronali in gioco. Al punto che quando i sindaci del circondario hanno chiesto al governo nazionale e regionale di fermare le attività, è stata Confindustria a mettersi di traverso. Non lo dice il PCL, lo dice il sindaco di Brescia. Lo testimonia in forma inequivocabile un'iniziativa pubblicitaria di Confindustria Bergamo, con tanto di video di accompagnamento. Era il 28 febbraio, una settimana dopo l'esplosione del contagio; la scritta sovraimpressa del video rassicurava la clientela estera circa la continuità della produzione: “Le operazioni delle nostre aziende non sono contagiose, Bergamo is running”, con tanto di firma di Paolo Plantoni, direttore generale della Confindustria bergamasca. Per inciso, erano i giorni in cui le segreterie nazionali di CGIL, CISL, UIL, firmavano con Confindustria un comune appello contro “l'allarmismo ingiustificato” e a favore della “normalità” produttiva.

Confindustria ha dunque voluto e imposto che la produzione continuasse a Bergamo e Brescia; Confindustria locale e Confindustria nazionale. Il governo nazionale e il governo regionale si sono subordinati ai suoi interessi. Per questo sono corresponsabili di un crimine.

Di certo, comunque si concluda la vicenda del coronavirus, quali che saranno ulteriori misure che saranno attuate, ciò che è avvenuto non può essere dimenticato. Non lo sarà da parte delle migliaia di parenti delle vittime. Non lo sarà sicuramente da parte nostra.

Partito Comunista dei Lavoratori
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